Economia. Le sfide della globalizzazione. Mercato globale

Chi ci guadagna e chi ci perde nella globalizzazione? E l’Italia riuscirà a vincere le sfide del mercato globale? Ecco il parere di Carlo Pelanda, un economista di grande prestigio.
05 Ottobre 1999 | di

necessariamente un modello americano di sviluppo per avere il liberismo e il capitalismo di massa. Nella tradizione europea ci sarà  sempre più stato, e questo non è un male». Il professor Carlo Pelanda - già  consulente scientifico dell'ex segretario dell'Onu, Perez De Cuellar, e tuttora docente di International Futures (Economia e scenari internazionali) e Political Ecology (Ecologia Politica) all'Università  della Georgia di Athens (Usa) - ha un'idea precisa dei parametri di cui Italia ed Europa devono tenere conto se non vogliono perdere il treno della globalizzazione dell'economia mondiale. Un fenomeno che denuncia la fragilità  finanziaria dei paesi emergenti, ma anche le obsolete istituzioni politiche e sociali del vecchio continente.
«In Europa - osserva Pelanda - c'è l'idea che lo stato debba proteggere l'individuo invece che investirci sopra per renderlo più competitivo. E il risultato è che la ricchezza dell'Europa emigra altrove mentre aumenta la disoccupazione, prevista in crescita anche nel 2000. Oggi l'economia globale richiede che tutti i paesi siano competitivi, e la competizione avviene tra chi ha le tasse più basse, la scuola migliore, ecc. In sostanza, laddove l'individuo è messo nelle condizioni di avere un più alto valore di mercato. Purtroppo l'Italia, così come l'Europa, è un po' indietro. Questo lo si vede dalla quantità  di disoccupati. In tutta Europa la media dei disoccupati è superiore al 10 per cento. Negli Stati Uniti, invece, la disoccupazione è scesa ultimamente ai minimi storici, cioè al 4,3 per cento!».

Msa. Quello della globalizzazione è un processo ormai irreversibile?
Pelanda
. Il processo della globalizzazione non è irreversibile. Nel 1914, fatte le dovute proporzioni di scala, l'economia era molto più internazionalizzata di adesso. È bastata la prima guerra mondiale per interrompere immediatamente la globalizzazione. Dieci anni più tardi, dopo la crisi della borsa americana del 1929 che creò una recessione mondiale, i singoli paesi reagirono alla crisi finanziaria e ai problemi di instabilità  dell'epoca, chiudendo il libero commercio. In tre anni, dal 1930 al 1933, il volume del commercio internazionale calò di oltre il 60 per cento. E questa forma di protezionismo ha peggiorato enormemente la crisi economica reale, generando disoccupazione, processi inflattivi che poi in Germania, nel 1933, portarono, per esempio, a una situazione di tale disastro sociale per cui il partito nazionalsocialista di Adolf Hitler riuscì a vincere le elezioni. Questo per dire che il mercato globale è molto sofisticato, ma è anche molto fragile.

Chi ci guadagna di più, e chi ci rimette, nel mercato globale?
Negli ultimi otto-nove anni, circa 2 miliardi e mezzo di persone sono passate da economie comuniste (e quindi isolate dal mercato internazionale) oppure semplicemente sottosviluppate, all'economia capitalistica globalizzata. E hanno sicuramente migliorato la loro condizione economica; è da vedere, poi, se hanno migliorato anche la loro condizione umana. Secondo me, il mercato globale porta ricchezza a tutti. Bisogna, ovviamente, correggere alcuni aspetti. I maggiori problemi che abbiamo, sia di ingiustizia sociale, sia di instabilità  finanziaria nel processo turbolento di formazione del mercato globale, sono caratterizzati fondamentalmente dalla libertà  del capitale di andare dove fa più profitto. Molti problemi nascono perché istituzioni e paesi non sono in grado di ricevere quest'economia più sofisticata. È chiaro che per partecipare all'economia globale, un paese deve avere sistemi di trasparenza, di controllo di polizia, per evitare processi economici occulti o illegali che creano disastri, i quali, a loro volta, ricadono sulla gente, perché una crisi finanziaria genera una recessione nell'economia reale.

E la giustizia sociale?
Questo è un tema più delicato. Perché ogni processo di modernizzazione implica fatica, specialmente nei processi iniziali di sviluppo capitalistico e di passaggio da un'economia rurale a una industriale; implica una fase di sfruttamento e di ingiustizia. In questo momento non siamo ancora in grado di valutare, per una questione di tempi, quale sia stata l'evoluzione della condizione umana dopo i primi sette, otto anni di funzionamento dell'economia globale in tutto il pianeta.

I paesi in via di sviluppo hanno sulle spalle il fardello del debito estero. Per saldarlo esiste una cura radicale che non strozzi ulteriormente i paesi debitori?
Esiste una soluzione per alcuni casi; non esiste per altri. Paesi che hanno economie abbastanza robuste, come Brasile e Argentina, devono pagare i debiti perché possono costruire la credibilità  del loro sistema finanziario interno soltanto pagando i debiti accumulati. E la solvibilità  permette un ulteriore afflusso di investimenti dall'estero, il che crea ricchezza per tutta la popolazione.
Altri paesi, in particolare quelli dell'Africa sub-sahariana, hanno un debito notevole e non si capisce come possano pagarlo in futuro. Ci sono evidentemente dei problemi antropologici, ecologici e culturali che rendono molto faticoso uno sviluppo di tipo capitalistico. La Nigeria, che ha risorse petrolifere notevoli, avrebbe le capacità  di pagare i propri debiti e di avere in cambio, dalla comunità  finanziaria internazionale, quella credibilità  necessaria a ottenere fiducia. Ci sono, poi, paesi più piccoli o più inguaiati, e non so come potranno pagare i loro debiti. Io sarei per una moratoria a favore di questi ultimi. È pur vero che al loro interno ci sono instabilità  politiche, guerre civili, ecc., e questo pone un grosso problema: la comunità  internazionale potrebbe anche cancellare il loro debito, ma deve chiedere in cambio una politica più rigorosa, perché possa attecchire lo sviluppo. Ma sorgerebbe un altro problema: questo intervento esterno sarebbe visto come una nuova colonizzazione, oppure no?

L'Italia, così com'è organizzata, riuscirà  a sostenere, sul piano politico, economico e produttivo, le sfide imposte dalla globalizzazione?
Mercato globale significa più concorrenza, soprattutto sul piano della qualità  dell'istruzione, delle merci, dei processi industriali, della cultura. Per questo ci vorrebbe una politica che aiutasse di più il mercato nazionale a svilupparsi. L'Italia non ha modernizzato gli aspetti tecnici delle istituzioni: è ancora uno stato ottocentesco. E poi, c'è alla guida del paese una sinistra che non è «amichevole» nei confronti dei requisiti richiesti dalla competizione del mercato globale. Questo suo «non essere amichevole» si vede nei fatti: tiene le tasse molto alte, il che riduce gli investimenti di capitale; tiene molto rigido il mercato del lavoro: se io assumo e non posso licenziare, è ovvio che non assumerò nessuno e lo andrò a fare in altri paesi che me lo lasciano fare, e questo crea disoccupazione.

Crede che la crescita politica e sociale dell'Italia, possa ancora prescindere da una riforma federale delle istituzioni politiche e amministrative?
Io non credo che l'Italia abbia bisogno di un impianto di federalismo che renda sovrane le singole regioni del territorio. Quello di cui c'è bisogno è l'autogoverno, nel senso che io pago le tasse al mio Comune, e il Comune usa questi soldi per la politica di quel territorio. Una parte delle tasse va al Comune, una alla Regione e una allo Stato centrale che riduce le sue competenze e le trasferisce localmente, perché oggi la gestione moderna di un territorio si fa avvicinando il più possibile la fonte di governo al territorio stesso. Questo è il federalismo fiscale. Di questo c'è sicuramente bisogno. Non credo ci sia bisogno di enfatizzare gli aspetti culturali e politici del federalismo.
L'Italia è piccolina, ha meno di 60 milioni di abitanti. Ha solo bisogno di una riforma amministrativa, che poi non è altro che un'applicazione del principio di sussidiarietà : tutto quello che può fare il Comune nel suo territorio lo fa il Comune, è inutile che lo faccia Roma; quello che non riesce a fare il Comune, lo fa la Regione; quello che non fa la Regione, lo fa lo Stato; e quello che non riesce a fare lo Stato centrale, lo fa un'alleanza tra nazioni: per esempio la sicurezza e la difesa. Così si dovrebbe raggiungere l'efficienza.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017