Ed è ancora Natale

L'anno che sta per lasciarci è stato gravido di drammi. Ma tra le pieghe di tante tragedie, abbiamo visto spuntare piccoli semi di speranza, segni di un Natale che si rinnova ogni anno, di un amore che non si esaurisce mai.
21 Novembre 2005 | di

Indonesia. Un'ondata di vita
Ha quattro ore di vita Mohammed. Come tutti i piccoli, piange e ride con tutto il corpo. Per i bambini non si nasce e non si muore: il passato, il presente e il futuro sono distinzioni poco comprensibili, si soffre e si gioisce con partecipazione totale, con tutto il corpo, non esiste separazione ma solo unità  di tutte le cose. Nati come siamo nella più totale impotenza e in condizioni di assoluta dipendenza dagli adulti, non possiamo che affidarci totalmente, all'inizio della vita, a chi ha cura di noi. Mohammed non può che affidarsi, non ha scelta e in questo momento protesta strillando a gola spiegata per il contatto con l'acqua, spalancando e agitando braccia e gambe. Tra pochi minuti, sorriderà  succhiando il latte della mamma o dormirà  tranquillo tra le sue braccia. Nella povera tenda che lo accoglie c'è l'essenziale per una buona accoglienza in questo mondo: mani abili e gesti gentili per lavarlo, il sorriso della donna che si vede sullo sfondo, nutrimento, affetto. Le donne tengono per sé la memoria orribile dello tsunami mentre si occupano della piccola tempesta nel catino di plastica. Sanno che vivere e dare vita è la migliore risposta possibile alla distruzione e alla morte.

Africa. Datemi una leva
Date ai bambini dell'Africa una leva e solleveranno il mondo. Aiutiamoli a uscire dalla miseria, dalla malattia, dalla fame, dalla sete, dalle guerre, diamo loro istruzioni e mezzi per esprimere il loro potenziale e vedrete quanto ne beneficerà  l'intero mondo. Si dirà  che questa insolita fotografia che mostra bambini sudafricani alle prese con i computer non è rappresentativa della condizione infantile in Africa. D'accordo, ma è anche ora di riflettere non soltanto su cosa non hanno i piccoli africani e su cosa li fa morire o sopravvivere a stento, ma anche su cosa perdono loro e cosa perdiamo tutti noi rinunciando a quel poco o tanto che possono dare se vengono messi in condizione di svilupparsi e fiorire come i loro coetanei più fortunati. Questo mondo ha bisogno di tutti ed è imperdonabile e oltremodo pericoloso che pochi abbiano troppo e tanti non abbiano nulla. I bambini africani realizzeranno appieno la loro umanità  quando, avendo la possibilità  di non limitarsi a sopravvivere, riusciranno a vivere, a cercare, cioè, un senso nella loro vita. E questo avverrà  anche attraverso la realizzazione del diritto all'istruzione, all'educazione e all'uso dei mezzi che la tecnologia di oggi offre per sviluppare la loro creatività .

Israele. Il sogno del soldato
 In tenuta da combattimento, rannicchiato con l'arma sotto il braccio destro, riposa il soldato su un giaciglio di fortuna. Sullo sfondo, proiettili, destinati forse al cannone dei carri armati. Così si dorme in guerra, pronti a entrare in azione senza indugio in caso di necessità . Ma se si riesce a dormire e, soprattutto, se le circostanze ci concedono il tempo per un sonno rilassato, ecco che il sogno può arrivare in nostro soccorso. Il sogno ci invita, ci provoca a mettere in gioco e in movimento ciò che nella nostra vita rischia di bloccarsi, di inaridirsi, di disintegrarsi. Possono comparire immagini-chiave che consentono l'accesso a percorsi verso direzioni opposte o divergenti o semplicemente parallele a quelle della veglia. Volti cari, luoghi sereni, quella pace che dicono essere tra i desideri più profondi dell'essere umano, anche del nostro nemico. Riconciliarsi significa riconoscerci fratelli in tutto ciò che più conta nella vita, ma perché questo avvenga la guerra deve cessare. Al risveglio, il soldato non avrà  scelta, combattere o morire. Il sogno gli ha forse indicato la terza via, vivere in pace, la via che in un mondo in guerra sarebbe scelta dalla stragrande maggioranza dell'umanità , se soltanto credessimo davvero nei nostri sogni.

Afghanistan. In burqa ma al voto
Sullo sfondo di un vecchio muro sbrecciato una lunga fila di donne in burqa attende il proprio turno per votare. Solo una di loro mostra in parte il proprio viso, per il resto soltanto qualche mano esce dal manto per appoggiarsi alla spalla di un'amica. In mezzo un solo viso scoperto, quello di un bimbo o di una bimba che osserva il fotografo con curiosità  e forse un po' di apprensione. L'osservatore occidentale resta colpito da queste donne coperte da capo a piedi da manti di colore uniforme che lasciano una sola finestra di tessuto più rado in corrispondenza degli occhi. Le conclusioni che ne trae sono di solito pesantemente negative rispetto a una cultura tanto restrittiva nei confronti delle donne. Le reazioni sdegnate rischiano, però, di trascurare l'eccezionalità  di un evento che apre una via di speranza: le donne afgane possono votare. Qualche osservatore italiano troverà  forse il diritto di voto il minimo che alle donne debba essere riconosciuto sulla via della loro liberazione, dimenticando in tal modo che nel nostro Paese le donne, sia pure senza obbligo di burqa , hanno potuto votare per la prima volta nel 1946 e tutt'oggi sono scarsamente rappresentate in parlamento e negli organismi di governo nazionali e locali.

Vaticano. La fede semplice
Mentre le telecamere inquadrano i potenti della Terra, l'immensa folla convenuta a Roma e gli antichi rituali che accompagnano l'addio al Pontefice, la giovane fotografa cammina ai margini del luogo dell'evento, osservando attenta e curiosa i particolari che solo chi si muove a piedi, senza obiettivi predefiniti, riesce a cogliere. E scopre l'altra fede, quella semplice di chi crede in un Dio misericordioso che aiuta i poveri, i deboli, gli infermi e i perseguitati. Un Dio che si manifesta anche attraverso personalità  eccezionali come il grande Papa, di cui si stanno celebrando i funerali, la Madonna, i santi.
La fotografa mostra le povere testimonianze di questa fede e non le liquida con il termine sprezzante di «paccottiglia» frutto di una religiosità  superstiziosa. Mostra, invece, la semplicità  disarmante della fede che tanto piaceva a Gesù, la profonda convinzione che esista un Dio che dà  forza e senso alla dura vita di tanti uomini e donne, un Dio che dà  speranza quando il mondo ha soltanto disperazione da offrire.
Quei lumini, quelle immaginette di vari santi e tradizioni, i fiori, il cuore di stoffa lasciati sul selciato, valgono almeno quanto le statue, i marmi e i dipinti di una cattedrale.

Sri Lanka. La partita non è finita
Due statue, Maria e il Re. Forse appartenevano a un presepe ma nella foto vedo il Re, la Regina e la Torre, il campanile alla destra della chiesa, come tre pezzi di scacchi. Gli altri, i Cavalli, gli Alfieri, i Pedoni, sono stati spazzati via da un avversario potente, aggressivo e sleale. Lo tsunami si è abbattuto su Sri Lanka e non si è trattato di una partita a scacchi giocata ad armi pari. Si è corso il rischio di non poter giocare più. Ma la partita non è finita. La Regina è il pezzo di maggior valore e anche la Torre può essere di valido aiuto. Il Re può essere soltanto difeso, se lui cade la partita è perduta. Ci vogliono coraggio, intelligenza, cuore e la capacità  di vedere, al di là  del desolante panorama di macerie e di lutti, il valore e la vitalità  che porta con sé l'opera di ricostruzione. Ci vuole soprattutto una comunità  internazionale che si stringa attorno alle popolazioni colpite portando aiuti concreti. Per ora, ridotti a tanti Robinson Crusoe, i superstiti della catastrofe devono ripartire da quel poco che è rimasto, un Re, una Regina e una Torre. Nel cuore il senso di una contraddizione, che è anche una strana speranza: la più grande catastrofe naturale ha prodotto anche la più grande ondata di solidarietà  internazionale che l'umanità  ricordi.   

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017