Editoriali

24 Settembre 2010 | di

 
Politica

di Franceso Jori

Democrazia è partecipazione
 
Le elezioni, nei Paesi democratici, servono essenzialmente a due scopi: scegliere chi venga ritenuto più idoneo a governare, e garantire un adeguato controllo del modo in cui tale funzione viene esercitata. Il presupposto è che entrambi questi compiti possano essere svolti per l’intera legislatura, alla fine della quale il voto diventa il momento di verifica, premiando o bocciando i due protagonisti (maggioranza e opposizione). Sotto questo profilo, è di tutta evidenza che il sistema esistente in Italia dal 1994, data convenzionale di inizio della Seconda Repubblica, non ha fin qui funzionato. Vediamo perché. Da allora, gli italiani sono andati alle urne cinque volte (1994, 1996, 2001, 2006, 2008). In tutte, il governo uscente ha perso le elezioni. Tre volte ha vinto il centrodestra, ma in ciascuna chi governava è stato messo alle strette: nel ’94 Berlusconi è stato sfiduciato e fatto cadere da Bossi; nel 2001 è stato pesantemente contestato da Casini, che alla fine ha lasciato la coalizione; adesso è in piena bagarre per la rottura con Fini, e si parla di un voto anticipato malgrado il governo possa contare sulla più larga maggioranza parlamentare di questi sedici anni. Due volte ha vinto il centrosinistra: nel 1996 grazie al fatto che la Lega corse da sola, ma in quella legislatura ha cambiato quattro presidenti del Consiglio in cinque anni; nel 2006 grazie a una coalizione così eterogenea da sfaldarsi in poco più di un anno e mezzo, provocando elezioni anticipate. In entrambi i casi, centrodestra e centrosinistra sono stati messi in crisi non dall’opposizione di turno, ma dal proprio interno. Con queste premesse, è più che legittimo ipotizzare che un nuovo ricorso alle urne non garantirebbe un governo stabile e in grado di promuovere le grandi riforme di cui l’Italia ha vitale necessità. E questo sia per la fragilità delle forze politiche (il Pdl si è sfasciato ad appena due anni dalla nascita, il Pd è dilaniato da continui scontri interni), sia per un meccanismo elettorale che risponde alle logiche degli apparati di partito, limitando pesantemente la libertà di scelta degli elettori. Il risultato più preoc­cupante è la crescente sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni e della politica, testimoniata dal massiccio astensionismo. Con il rischio che, alla fine, a essere sconfitta non sia la destra o la sinistra, ma la democrazia.
 
 
Esteri

di Carmen Lasorella

Pakistan devastato
 
Sono enormi i numeri del disastro in Pakistan, devastato dalle inondazioni durante un’estate assolata e distratta per gran parte del resto del mondo. Sono morte almeno un milione e 700 mila persone, sarebbero oltre 22 milioni i senza tetto, mentre resta l’emergenza acqua inquinata. Lungo il bacino dell’Indo, il grande fiume che taglia in due il Paese, non ci sono più strade, né ponti; mancano cibo, medicine, sementi, manca il futuro. E intanto, è continuata la guerra, con gli attacchi kamikaze di matrice islamica nelle province del Nord-ovest (sul confine con l’Afghanistan) e nel Nord-est (nel tormentato Kashmir diviso tra Pakistan, India, Cina) e con i bombardamenti ciechi dei droni americani (aerei senza pilota ndr) sui villaggi contigui al terrorismo. Uno scenario disperato. Una cronaca scivolata nell’indifferenza dei media e nel vuoto delle responsabilità politiche, mentre la macchina degli aiuti umanitari è rimasta sostanzialmente ferma. E i valori dell’Occidente, i principi della solidarietà, i diritti? Un intero popolo paga il prezzo di conflitti locali che da decenni non trovano soluzione. Conflitti alimentati dai grandi interessi internazionali, un tempo ancorati alle ragioni della geo-politica e oggi intrecciati in un gioco più complesso, che muove interessi miliardari e guerre di religione, col rischio più alto del terrorismo.
Il governo del presidente Asif Zardari, eletto tra sospetti di brogli nel febbraio del 2008, dopo una drammatica fase di emergenza e un’ondata terroristica senza precedenti (culminata con l’assassinio di Benazir Bhutto), è accusato di corruzione e doppio gioco: ovvero, pugno di ferro con l’esercito pakistano e i rangers impegnati nell’offensiva a Nord-ovest contro i talebani, ma sullo stesso fronte, e sull’altro del Nord-est in Kashmir, finanziamenti all’estremismo islamico. Dopo i dieci anni della dittatura del generale Musharraf, alleato a sua volta discutibile degli americani, Zardari ha fatto ben poco per migliorare le condizioni del Paese. In una realtà impoverita, con l’istruzione e la sanità scivolate sui livelli più bassi della graduatoria mondiale, è aumentata la diseguaglianza economica a vantaggio della ristretta oligarchia di potere, alla quale si è aggiunta quella di genere, con le donne discriminate a causa della progressiva islamizzazione del Paese. Zardari, che aveva promesso liberalizzazioni economiche e maggiori servizi, fin qui ha stretto solo i controlli con leggi bavaglio contro la stampa e l’opposizione intimidita. Le prospettive di crescita saranno ancora più incerte dopo il disastro provocato dall’alluvione, con gli investimenti stranieri che si concentrano soprattutto nel traffico delle armi.
D’altra parte il Pakistan è una potenza nucleare e proprio dal Pakistan l’Iran avrebbe ottenuto tecnologie e assistenza per il suo disegno atomico, con l’implicito consenso di Cina e Russia. Diversi gli umori nella vicina India, con la quale dal 2008 le relazioni internazionali sono interrotte. Nonostante timide prove di dialogo, prevale la diffidenza: pakistani erano i terroristi dell’attentato di Mumbai in cui morirono 171 persone e altre 300 rimasero ferite e troppo instabili restano i confini. La politica prosegue nell’equivoco.
 
 
Economia

di Leonardo Becchetti

Merito, talento e società
 
La questione della creazione di incentivi per premiare il talento e i meritevoli è uno dei temi che periodicamente ricorre nel dibattito socioeconomico. I fautori degli incentivi sottolineano come una società che non premia i talenti rischia di non valorizzare le sue forze migliori, con effetti negativi sulla creazione di valore economico. Una proposta recente per l’università che nasce da questo filone di pensiero è quella di utilizzare le scarse risorse a disposizione per premiare i meritevoli, anche se gli stessi hanno redditi, personali o di famiglia, elevati. L’implicita filosofia dietro questo approccio è che l’incentivo per valorizzare talento e sforzo debba essere monetario per tutti. L’errore di fondo (nell’uso delle risorse a disposizione) è quello di trascurare che le «motivazioni intrinseche» sono un movente molto più potente e stabile di quelle monetarie, che le seconde corrono il rischio di spiazzare le prime e che i moventi monetari sono scavalcati anche dal desiderio di avere il riconoscimento e l’approvazione della collettività. Non si spiegherebbe altrimenti lo sviluppo e la diffusione di comunità open source dove, senza motivo di lucro, reti di ricercatori e appassionati costruiscono su internet pezzi di programmi e sviluppano filoni di ricerca senza protezione dei diritti d’autore. Una bella definizione di «motivazione intrinseca» viene da R. M. Ryan e E. L. Deci che affermano: «Forse nessun singolo fenomeno riflette maggiormente il potenziale positivo della natura umana della motivazione intrinseca, ovvero della tendenza insita nell’uomo a cercare novità e sfide... Il concetto di motivazione intrinseca incorpora questa naturale inclinazione all’apprendimento, all’interesse spontaneo, all’approfondimento e all’esplorazione che è così essenziale per lo sviluppo sociale e cognitivo e che rappresenta la fonte principale di soddisfazione e di vitalità».
Studiosi profondamente liberal come l’economista americano J. M. Buchanan concordano nel ritenere che i risultati nella vita dipendono da quattro elementi principali: fortuna, talento ereditato dalla nascita, scelte individuali e sforzo personale. Poiché nei risultati che osserviamo è di fatto impossibile distinguere con chiarezza i quattro fattori, il vero approccio per premiare il merito è dunque quello di utilizzare il denaro non come un premio per chi parte in condizioni di vantaggio ma per garantire le pari opportunità di tutti al momento di partenza.
Il principio adottato in tutti gli sport (si pensi al judo, alla boxe o alle regole delle paralimpiadi) è quello di dividere i competitori in categorie omogenee in cui possono evidenziare le loro capacità a parità di condizioni determinate dalla lotteria della nascita.
 
In una foto

IL CORAGGIO DI ANGELO
Alla memoria di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica (SA) ucciso il 5 settembre scorso probabilmente a causa delle sue scomode battaglie a favore della legalità e del rispetto dell’ambiente, è stato assegnato il primo Premio Mediterraneo «Raffaele Capasso» per la Legalità.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017