Editoriali

28 Aprile 2009 | di

Politica di Francesco Jori


Se la prevenzione non c’è


«Non vi dimenticheremo», ha promesso Giorgio Napolitano agli abruzzesi messi in ginocchio dal devastante terremoto di aprile. Possa davvero essere così, almeno questa volta: troppo spesso lo Stato ha tradito le parole che i suoi presidenti hanno pronunciato in analoghe dolorose circostanze. Le disse commosso anche Sandro Pertini, nel 1980 in Irpinia. Ma in questi quasi trent’anni, come ci ha ricordato da poco la Corte dei conti, sono stati stanziati 32 miliardi di euro senza che la ricostruzione sia stata portata a termine; anzi, la Finanziaria 2007 ha destinato altri 152 milioni fino al 2022 per completarla. E a Messina, un secolo dopo il terrificante terremoto del 1908, qualche migliaio di persone vive tutt’oggi nelle baracche; ancora nel 2004 la Regione Sicilia ha varato un nuovo finanziamento. E quarantuno anni dopo rimane incompiuta l’opera di ripristino nel Belice. Solo nei casi del Friuli-Venezia Giulia (1976) e dell’Umbria (1997) le promesse sono state rispettate; ma anche in quelle circostanze un Paese intero si è coinvolto, emozionato, mobilitato sempre e soltanto a disastro avvenuto. Dimenticando in fretta, colpevolmente, quel che era avvenuto.

Sappiamo di vivere in un’Italia fragile dal punto di vista idrogeologico, ma altrettanto di cartapesta da quello della prevenzione. Anche la politica ogni volta si mobilita dopo, perfino troppo: dieci ministri in tre giorni tra le macerie dell’Abruzzo forse erano eccessivi. Non sarebbe eccessivo, non lo è, darsi da fare con altrettanto zelo nelle aree esposte, delle quali conosciamo davvero tutto grazie alle accuratissime mappe di rischio. E non soltanto sul versante dei terremoti: sappiamo con matematica certezza che un giorno o l’altro il Vesuvio tornerà a esplodere, investendo un’area dove attualmente vivono circa 2 milioni di abitanti, 600 mila dei quali nella zona più a rischio. Aspetteremo di piangerli il giorno dopo?
La commozione, il dolore, la grande e generosa gara di solidarietà che scattano di fronte alle crudeli immagini di tragedie come quelle dell’Abruzzo ci parlano di un’Italia capace di mobilitarsi. Ma c’è ancora un assordante silenzio su quello che lo Stato deve fare per ridurre il più possibile il loro impatto. E per dimostrare ai suoi cittadini colpiti dal dramma che è davvero vicino a loro tutti i giorni, non solo in quelli in cui sono accese le telecamere.



Esteri, di Carmen Lasorella


Nato, rilancio o decadenza?


Hanno attraversato il Reno per celebrare i 60 anni della Nato. Erano 28 tra capi di stato e di governo, il 4 Aprile a Strasburgo-Kehl. Oltre a Obama, la prima fila era composta da Sarkozy e dalla Merkel, ovvero Francia e Germania, come francesi e tedesche sono le due sponde che la seconda guerra mondiale aveva diviso. La stretta di mano tra i due capi di governo è andata oltre il significato simbolico, lontano dal senso che nel ’49 ispirò l’Alleanza atlantica. Con notevole pragmatismo Lord Ismay, il primo segretario della Nato, fissandone gli obiettivi affermò che la nuova organizzazione serviva per «tenere i russi fuori, gli americani dentro e i tedeschi sotto». Nel 2009 la Nato è in cerca di futuro: o trova il rilancio o rischia la decadenza. Russi e americani rimangono i principali protagonisti della partita, ma in ruoli profondamente diversi, come assai diverso è il quadro geo-politico globale. Tutti, comunque, sono alla ricerca di nuove strategie, a cominciare dalla Francia. Il suo ritorno dopo 43 anni in seno alla Nato è stato salutato con soddisfazione dagli alleati, suscitando invece polemiche interne, nella gauche e anche in una parte della destra. De Gaulle nel ’66 aveva firmato il gran rifiuto, nel nome della difesa della sovranità e dell’autonomia delle scelte nucleari. Sarkozy gioca invece una partita più sottile, alla ricerca di un ruolo di spicco, nella logica che «conta chi c’è, gli assenti hanno sempre torto»; in secondo luogo, col sogno di dare slancio alla forza militare europea, da sempre un pallino francese. Ma perché gli americani dovrebbero preoccuparsi di delegare alcune competenze alla Pesd, come infelicemente la forza europea è stata battezzata? Non sono state soprattutto truppe europee quelle intervenute nei Balcani?

Altro attore sono gli Stati Uniti. Con Obama si respira aria di rinnovamento anche nella Nato. Il presidente preme perché l’Alleanza allarghi la sua sfera di competenza, considerando tra l’altro che i due terzi della spesa sono a carico degli americani. Obama pensa allo scenario afgano, che si è rivelato un pantano; pensa allo spiraglio di dialogo che si è aperto con l’Iran, ma non esclude questioni chiave come la proliferazione delle armi nucleari e una global security che coinvolga Mosca.
Infine la Russia. Ha salutato con gioia il ritorno della Francia e dopo le frizioni con Bush sullo scudo stellare sembra orientata a costruire nuove relazioni sia europee sia con gli americani. Forse sta anche smettendo di considerare la Nato nemica: potrebbe perfino entrarci?
Nell’anniversario dei primi 60 anni hanno prevalso – né poteva essere diversamente – le celebrazioni, e tuttavia nell’Alleanza (che si è ulteriormente allargata all’Albania e alla Croazia, dunque ancora a Est, come è accaduto sempre più spesso negli ultimi anni) si sono cominciati a delineare nuovi scenari e nuovi impegni. Ne è passata di acqua, sotto il ponte del Reno.



Economia di Leonardo Becchetti


Crisi economica e capri espiatori


Quanto durerà la crisi economica globale? Per la prima volta dal dopoguerra il Pil mondiale non crescerà, dando ragione a chi ritiene che l’economia sia un «gioco a somma zero», ovvero una situazione nella quale (come in una partita di poker) a fronte del guadagno di alcuni debba per forza esserci la perdita di altri. Fino a oggi (e speriamo che questo stop sia un’eccezione) non è stato così, perché il pianeta dal dopoguerra è sempre cresciuto al ritmo del 4-5 per cento l’anno. La questione non è solo statistica, ma anche sociale. È stato dimostrato di recente che in periodi di stagnazione o di recessione il livello di tolleranza verso gli stranieri diminuisce sensibilmente, perché maggiore è la sensazione che essi vengano a togliere agli autoctoni la fetta di una torta che non cresce per tutti. Ovviamente si tratta di un conto grossolano, perché sappiamo bene che i lavoratori stranieri vanno a coprire tipi di occupazione nelle quali gli italiani non sarebbero in grado di colmare tutta la domanda. In un contesto delicato come questo si aggiungono le esasperazioni mediatiche (perché dire che un «romeno» ha commesso uno stupro e non, quando accade, che lo stesso crimine è commesso da un «molisano» o da un «toscano»?) e i pregiudizi fondati su errate percezioni statistiche (si tende a confondere queste due affermazioni, entrambe sbagliate: «tutti gli stupratori sono romeni» e «tutti i romeni sono stupratori»). È in realtà un errore madornale: se consideriamo che in Italia ci sono circa un milione di romeni a fronte di un migliaio di stupratori, la probabilità che un romeno sia uno stupratore sarebbe dello 0,1 per cento. Questo per dire che la crisi (e la lunga stagnazione da cui veniamo) genera mostri e capri espiatori. L’errore più profondo però è quello di ragionare a livello di reddito e non di accumulo di risparmi e di ricchezza. Gli immigrati, parte fondamentale del nostro tessuto produttivo, pagano una parte rilevante dei contributi delle nostre pensioni per alimentare proprie posizioni pensionistiche che in molti casi non potranno maturare a pieno. Anche in recessione dunque, se il «gioco del reddito» in effetti è a somma zero, in quello dell’accumulo di ricchezza il contributo degli immigrati lavoratori si fa sempre più importante per noi. Certo, dovremmo essere capaci di tenere a mente che gli stranieri non vanno considerati né una minaccia né una risorsa, ma semplicemente persone. Arduo traguardo con la cultura che ci ritroviamo: cominciamo intanto a sgombrare il terreno dai pregiudizi peggiori…
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017