Editoriali
360gradi. Editoriali
Politica, di Francesco Jori
Tutto cambia, niente cambia
«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», è la celebre frase che Tancredi rivolge allo zio, il principe don Fabrizio Salina, nel romanzo Il Gattopardo. Che è un po’ il manuale di riferimento dell’Italia istituzionale, anche di quella di oggi: impegnata in mille piccole riforme parziali, spesso abortite; incapace di mettere mano a un’organica riforma di sistema. Con il risultato che alla fine il cambiamento vero non riesce mai a trovare spazio. Dal 1983 ci hanno inutilmente provato, nella prima come nella seconda Repubblica, tre commissioni bicamerali (presiedute da Aldo Bozzi, Ciriaco De Mita e Massimo D’Alema); e negli archivi parlamentari si sono accumulate cataste di proposte, tra cui l’ultima, quella formulata da Luciano Violante nel 2007. Dalla quale oggi si riparte, ma ancora una volta con una vistosa sproporzione tra le buone volontà espresse e la scarsa o nulla capacità realizzativa. Che ce ne sia bisogno, è di tutta evidenza. La Costituzione è una splendida signora sessantenne che mantiene tutto il proprio fascino nella prima parte, lì dove si enunciano i principi di fondo ispirati ai grandi valori e prodotti da un’avanzata sintesi tra le culture cattolica, liberale e marxista. Ha evidente bisogno di un sostanzioso lifting, invece, nella seconda parte, specie dove si regolano i rapporti tra i tre poteri strategici di uno Stato: legislativo (il parlamento), esecutivo (il governo), giudiziario (la magistratura). C’è chi obietta che è impossibile porvi mano adesso, con le elezioni regionali ormai alle porte. Ma c’è un illustre precedente storico che smentisce questa tesi: nel 1948, in un clima di scontro politico-sociale giunto fin sulle soglie di una possibile rivoluzione (dopo l’attentato a Palmiro Togliatti), le stesse forze che si stavano ferocemente combattendo in campagna elettorale per le politiche, seppero trovare una sintesi alta e pressoché plebiscitaria proprio scrivendo e votando la Costituzione. Volendo, dunque, si può; e non in un clima di contrapposizione, con maggioranze risicate, ma con una concordia trasversale. Perché non sono in gioco le sorti di questo o quel partito, questo o quel leader, ma dell’intero Paese. E soprattutto delle generazioni future, alle quali abbiamo il dovere di consegnare una democrazia matura. Perché rinviare ancora il compito, sia pure di qualche mese, dopo tanti anni di colpevole inerzia?
Esteri di Carmen Lasorella
Terrorismo in franchising
Serve più cooperazione, bisogna lavorare meglio, va potenziato il ruolo dell’intelligence. Dopo il mancato attentato sul volo Amsterdam-Detroit, l’Occidente si è interrogato sul da farsi contro la minaccia terroristica, rivivendo l’ossessione della sicurezza provata nel 2001 dopo gli attentati alle Twin Towers di New York. Difesa passiva, allora, ovvero misure più severe nei controlli alle frontiere (body scanners, polizia in allerta, ecc.) ma anche difesa attiva, che significa guerra ai santuari del terrore: le operazioni in Iraq, in Afghanistan e, da ultimo, nello Yemen, considerato oggi il Paese più minaccioso, perché cuore della diaspora di Al Qaeda. Farouk Abdul Mutallab, il giovane nigeriano con l’esplosivo addosso sul volo Amsterdam-Detroit, non a caso, proprio nello Yemen ha trovato contatti e formazione. Eppure il «mondo libero», Stati Uniti in testa, non può permettersi l’apertura di un nuovo fronte di impegno diretto, sia per il costo finanziario e umano delle operazioni già in corso, sia per la complessità del piccolo Paese all’estremo sud della penisola arabica. Lo Yemen, poverissimo, popolosissimo, diviso in clan, incrocia tensioni saudite, iraniane e una destabilizzazione interna più che ventennale con un governo corrotto e feroce. Già Bush nel 2002 aveva inviato nello Yemen 600 osservatori americani per addestrare gli yemeniti contro la minaccia alqaedista; oggi sarebbero stati stanziati dall’amministrazione Obama 150 milioni di dollari in aiuti militari per il solo 2010. In cambio, gli Usa avrebbero mano libera nei raids aerei contro le basi jihadiste, mentre il governo di Al Abdallah Saleh garantirebbe la copertura di ogni operazione, facendola apparire comunque coordinata dalle forze yemenite. A conferma, una campagna mediatica sta già dilatando i muscoli delle truppe d’assalto locali, offerte alle telecamere occidentali in improbabili incursioni. Ma sia gli uni che gli altri, e con loro gli analisti, sanno che non può bastare. Non solo il governo di Al Saleh rimane un alleato equivoco, inaffidabile, soprattutto interessato alla conservazione del suo potere a ogni costo, ma anche la stessa geografia del terrore è diversa da quel network che si semplifica nella definizione di Al Qaeda. Gli americani hanno censito in giro per il mondo più di quaranta organizzazioni terroristiche jihadiste, che sono espressione di interessi e conflitti locali, ma che, alla bisogna, si associano sotto lo stesso marchio. In pratica, il terrorismo che sfrutta il franchising, dalle brigate dei martiri di Al Aqsa ai gruppi di Al Shabbah ad Hamas e così via, ovvero, una rete diversificata e sempre più radicata e radicale all’ombra di inerzie o, peggio, superficiali generalizzazioni dell’Occidente. Jihad, nel suo senso originale, esprime lo sforzo interiore, ha una valenza mistica, mentre è diventato sinonimo di guerra santa. Per vincere il terrore, dunque, servirebbero intanto più chiarezza e più conoscenza. Senz’altro, meno retorica.
Economia di Leonardo Becchetti
Clima: la posta in gioco
Dai vertici sul clima dopo Copenaghen possiamo e dobbiamo aspettarci una svolta che dia un orizzonte di regole chiaro a un cambiamento profondo del modo di produrre che è già iniziato da tempo grazie all’azione lungimirante di amministrazioni locali, imprese innovatrici e cittadini responsabili in diverse parti del mondo. La questione in gioco è molto semplice: il crescente volume di emissioni inquinanti pro capite di anidride carbonica è sospettato dalla maggioranza degli scienziati di essere responsabile del fenomeno del riscaldamento globale. Fenomeno che rischia, in mancanza di intervento, di elevare la temperatura media di diversi gradi con gravi conseguenze per il pianeta.
Se pure abbandonassimo il principio di precauzione che ci impone di contrastare un fenomeno che può arrecare conseguenze gravi anche quando non abbiamo l’assoluta certezza del nesso causale, resta il problema più vasto della relazione tra fattori inquinanti (non solo anidride carbonica) e salute sottolineato con forza solo pochi giorni fa dall’Agenzia per l’ambiente degli Stati Uniti.
L’indicatore da tenere d’occhio è la dinamica delle emissioni per abitante che, a sua volta, può essere scomposta in tre fattori: la crescita della popolazione, la crescita del reddito pro capite e l’intensità di emissioni per unità di reddito prodotta. È evidente che tutti sperano di risolvere il problema agendo sul terzo fattore, attraverso un’economia che crei reddito in modo sempre più sostenibile dal punto di vista ambientale.
Se la crescita economica degli anni ’90 è stata sostenuta soprattutto dalla rivoluzione della new economy, di internet e dall’integrazione di telecomunicazioni e informatica, è proprio dalla rivoluzione verde e dai progressi nel settore delle energie pulite che possiamo aspettarci un nuovo salto nel prossimo decennio.
Per mantenere le promesse di questo cambiamento desiderato c’è bisogno di una sola cosa: uno scenario di regolamentazione chiaro che orienti le aspettative degli agenti economici verso l’attesa di una progressiva maggiore severità sugli standard ambientali. Basta questo per scatenare le forze dell’innovazione nella direzione della creazione di prodotti e processi efficienti da un punto di vista energetico sotto la spinta dell’incentivo di un maggiore vantaggio competitivo quando le regole più severe saranno poste in atto.
Ciò che ci aspettiamo in futuro è che i Paesi arrivino a un accordo sulla riduzione delle emissioni globali che renda chiaro l’orizzonte nel quale i privati dovranno muoversi in futuro.
In una foto
HAITI, C’è BISOGNO DI TUTTO
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