El me sant’Antunì

Testimonianza di Gemma Nocentini

«Sono una fedelissima abbonata al Messaggero di sant'Antonio (da oltre 50 anni...!!!) che leggo sempre molto volentieri e dal quale traggo spunti di riflessione. Il 14 novembre è stato il compleanno della mia mamma, Sigismonda Patander, nata ad Acquanegra sul Chiese (MN) e deceduta a Perugia nel 2005, alla quale devo la devozione al nostro Santo e mi piacerebbe poterle fare un regalo che, da lassù, credo gradirebbe moltissimo. Spero che possiate pubblicare nell’Angolo dei lettori questo racconto che allego. Vi ringrazio in anticipo per l'attenzione che mi dedicherete. Cordiali saluti, Gemma Nocentini»

 

El me sant’Antunì

Da quando ne ho memoria, ricordo la statuetta di sant’Antonio posta sul comodino della camera da letto di mamma. Alto sei, sette centimetri, di metallo brunito, poggiava su una base di rame con una minuscola lampadina sempre accesa. Ho amato quella statuetta soprattutto perché quando, a 3-4 anni, stavo nel lettone, mi rassicurava dal buio notturno: sentivo amico quell'uomo con in braccio il Bambino Gesù che sembrava proteggere anche me. La mamma lo accarezzava e baciava con tanta tenerezza, come facevo io con il mio bambolotto e capivo che le premeva molto, per cui stavo bene attenta a non farlo cadere quando, di nascosto, lo prendevo tra le mani per osservarlo, accarezzarlo e baciarlo anche io.

Crescendo, ho iniziato a sentire spesso il colloquio che mamma aveva con il Santo, a cui lei si affidava con una fiducia estrema, incrollabile. Gli chiedeva aiuto quando noi figlie o qualcuno della famiglia stava male, quando papà aveva problemi di lavoro, quando faticava a tirare avanti perché doveva far quadrare un bilancio, quando aveva perso qualcosa di importante, quando noi figlie avevamo un esame impegnativo, un concorso o eravamo in cerca di lavoro. Quando i miei decisero di acquistare  un  appartamento, pur sapendo a quanti sacrifici e a quante rinunce sarebbero andati incontro, la sentivo parlare a lungo davanti alla statuetta. Poneva domande del tipo : «Tu che ne pensi? Avremo sbagliato? Ce la faremo a pagare il mutuo?» e si dava anche risposte che credo ritenesse fossero dettate dal Santo.

E come un refrain, ritornava la frase «El me sant'Antunì el me ‘uta semper, non m'abbandona mai!!!», quasi fosse scontato che l'aiuto che lei chiedeva le dovesse essere dato. Il bello era che quell'aiuto prima o poi arrivava  e lei ringraziava  facendo un'offerta agli orfanelli della Basilica, o ai frati, perché ne disponessero per qualche persona bisognosa. Era arrivata a quello che a me sembrava fosse una specie di ricatto: «Se m'aiuti, e spiegava il problema o la necessità, mando una bella offerta ai tuoi fratini» o , addirittura, stabiliva una quota. A volte mi dava fastidio questo patteggiamento che io ritenevo arbitrario, unilaterale, anche poco cristiano, e che lei credeva fermamente fosse un accordo che seguiva ad un patto stabilito, lontano nel tempo. Mi era accaduto di discutere a questo proposito, sostenendo che fosse prioritario rivolgersi direttamente al buon Dio, ma lei mi tacitava dicendo: «So che il buon Dio ascolta più volentieri sant'Antonio che me e a lui non nega nulla, così passo per la corsia preferenziale...». Un giorno, un po' piccata da tali risposte, le chiesi come mai fosse tanto devota al Santo, visto che sia nella sua famiglia d'origine che in quella attuale non c'erano altri che avessero una così forte devozione..., eccettuata,  forse, sua madre che aveva dato al primogenito il nome del Santo. Mi svelò l'arcano.

Lavorava dal 1938 come infermiera all'ospedale civile maggiore di Verona e, nel giorno libero, andava in bicicletta a Padova a trovare suo fratello Antonio con la moglie e il piccolo Gianni. Le capitava di andare in Basilica, di assistere alla messa e di recarsi presso la Tomba del Santo, di leggere gli ex voto, di vedere il continuo via vai di fedeli che appoggiavano la fronte o le mani  alla teca e, in silenzio, pregavano, chiedevano e affidavano la loro pena al Santo o porgevano il loro ringraziamento. Iniziò anche lei a rivolgersi a sant’Antonio e la sua divenne una pratica quotidiana. Accanto al segno della croce e alla preghiera del mattino e della sera seguiva sempre: «Caro sant'Antunì stammi vicino, proteggi e aiuta me e la mia famiglia e tutti coloro che ne hanno bisogno!».

Mia madre amava il suo lavoro, lo faceva con passione, ma lo stipendio era scarso e, poiché desiderava aiutare economicamente i genitori e gli altri due fratelli piccoli rimasti a casa, nel mantovano, cercava un posto che le garantisse una retribuzione maggiore. Ancora una volta, come faceva spesso, chiese aiuto al Santo e, dopo due mesi, fu assunta all'ospedale maggiore di Milano, dove  aveva fatto i suoi studi e gli anni di internato e presso cui aveva presentato domanda di assunzione. Era un ambiente stimolante, dove conosceva  molti medici e operatori sanitari. Era capace, attenta e volenterosa, per cui dopo pochi mesi fu nominata caposala del pronto soccorso.

Lo stipendio era buono e lei era felice e orgogliosa di poter versare a casa due terzi della paga: la portava personalmente, in bici, una volta ogni due mesi. Rinunciava a qualche turno libero durante la settimana per potere avere tre o quattro giorni insieme a disposizione. Partiva la mattina presto e pedalava tutta la giornata per quasi 180 km! Arrivava la sera, sfinita, ma soddisfatta di vedere genitori e fratelli e poter alleggerire i loro problemi con il suo contributo: una volta era il pagamento di una rata della terra, un'altra volta il compenso del dentista per la nonna, e la volta successiva la spesa per la protesi dentaria.... Per lei era una gioia e un orgoglio aiutarli e vedere come si sentissero sollevati.  Restava al paese due notti e un giorno, il tempo di fare quattro chiacchiere, in dialetto, con gli amici d'infanzia e di raccontare come si viveva nella grande città, di mangiare un bel po' di polenta con i ciccioli, una minestra con il pollo e poi, via di nuovo, in bicicletta per Milano, dove il giorno successivo riprendeva il lavoro. Il viaggio era lungo, pesante, a volte pauroso quando iniziava la mattina presto col buio e finiva la sera al calare delle tenebre. Se durante il percorso mia madre trovava qualcuno che pedalava come lei si accompagnavano parlando per un tratto, ma quando era sola si rivolgeva al suo sant’Antunì, invocandone la protezione e recitando una preghiera.

Lo scoppio della guerra non modificò i suoi ritmi di vita, per lo meno fino al 1943. È vero, c'erano stati una diecina di bombardamenti su Milano che avevano procurato molti danni, qualche morto e tanta paura, ma il lavoro all'ospedale procedeva senza grandi cambiamenti e mamma era riuscita a tornare al paese ogni due, tre mesi. Era stata trasferita all'ospedale Niguarda, sempre in qualità di caposala al pronto soccorso dove il lavoro divenne durissimo: con i primi bombardamenti si intensificarono gli orari di lavoro e io ricordo che raccontava come medici ed infermieri stessero anche 14-16 ore consecutive in sala operatoria. La razione di pane giornaliera era scesa a 150 grammi, il cibo era poco e lei ricorda con gratitudine i pazienti guariti che tornavano a ringraziarla portandole alcune mele, un dolce, un cestino di ciliege che venivano divisi fraternamente tra tutti gli operatori. Adesso era pericoloso tornare a casa, ma dopo i bombardamenti di febbraio, visto che non ve ne erano stati altri, mamma decise di fare una scappata.

Il tempo era buono, le giornate  di giugno si erano allungate e poi erano quasi sei mesi che non vedeva la sua famiglia. Partì come al solito alle 4 pedalando con lena; fece le due solite fermate d'obbligo per mangiare qualcosina e riposarsi e ripartì con altre due persone, marito e moglie che facevano il suo stesso cammino per un buon tratto. Avevano preso una strada di campagna, perché accorciava il tragitto evitando i luoghi affollati e, così, si sentivano un po' più sicuri. Ad un tratto, sentirono un ronzio lontano che si faceva sempre più forte: era due, forse tre, bombardieri inglesi che cominciarono a mitragliare sorvolando la campagna. Il loro obiettivo era colpire i centri industriali e produttivi di Mantova e di Verona, ma per spaventare la popolazione civile e abbatterne il morale iniziavano a sparare in anticipo. C'era gente al lavoro nei campi, persone che camminavano a piedi e tutti cominciarono a correre all'impazzata cercando un qualche riparo.

La mamma non ebbe un attimo di esitazione e, con la sua bici, si gettò nel fosso pieno d'acqua che costeggiava la strada, gridando ai due compagni di fare lo stesso. Poi con le mani sulla testa gridò: «Sant’Antone, utes (aiutaci)!!!» e stette ferma in attesa per un tempo che a lei parve un'eternità. Mi raccontava che i colpi di mitraglia erano forti come i battiti del suo cuore e che non osava nemmeno respirare. Poi ci furono lunghi minuti di silenzio, più tardi interrotti da alcuni pianti e lamenti. Si alzò piano, risalì il fosso, si controllò: pochi graffi, qualche contusione causata dal peso della bici, ma niente di serio. Piangendo ringraziò il suo Santo e, poi, si guardò attorno: i due compagni di viaggio giacevano parecchio più in là, a terra, con le bici. Una donna si lamentava stringendosi la gamba insanguinata e due uomini si aiutavano sorreggendosi l'un l'altro.

Era infermiera e, senza perdere tempo, valutò la situazione, chiese dove poteva trovare aiuto e mandò l'uomo meno grave a cercare rinforzi; si strappò due strisce dal vestito per fare due lacci emostatici di fortuna e fermare il sangue dei due feriti che apparivano più gravi. Si avvicinò alla coppia con cui viaggiava, ma solo per costatare che erano morti entrambi. Arrivarono i soccorsi e tutti trovarono rifugio in un casolare poco distante, dove, con mezzi di fortuna, mia madre seppe dare un primo soccorso in attesa del medico. La mamma, poi, si fece aiutare a tirare su la bici e ripartì salutando e promettendo che, al ritorno, sarebbe passata a vedere come stavano i feriti. Mi diceva, raccontandomi questa vicenda, che da quel momento era nata la sua certezza che sant'Antonio l'avrebbe sempre tenuta sotto la sua protezione: le aveva salvato la vita, la doveva proteggere…

Due mesi dopo, il 13 agosto, mentre era in servizio al pronto soccorso, l'ospedale, come altri importanti edifici, fu bombardato. Mamma rimase chiusa in una stanza ostruita da macerie con due  colleghi e alcuni malati; non avevano riportato ferite, ma erano atterriti e alcuni cominciarono a piangere e a gridare. Lei, pur se spaventata, era fiduciosa, perché sant’Antunì l'avrebbe aiutata e, forte di questa certezza, seppe tranquillizzare e incoraggiare anche gli altri compagni di sventura. Li tirarono fuori dopo venti ore: erano coperti di polvere, con i solchi lasciati dalle lacrime, ma erano tutti vivi!!!!

Con tali precedenti era scontato che la fiducia e la riconoscenza verso il Santo non venissero mai meno; la mamma chiedeva soccorso e sostegno per sé e per gli altri e parlava con Antonio come con uno di famiglia. Ricordo che a volte mi ha dato fastidio la sua insistenza nel chiedere, il suo «do ut des»: «Sant’Antone se mi aiuti ti prometto…». E ha sempre mantenuto la promessa, anche se l’intervento arrivava in ritardo o non arrivava affatto : «Si vede che non doveva essere così… Lui sa sempre quello che è bene…». Non l’ho più sentita chiedere negli ultimi tempi della sua malattia, o forse chiedeva col pensiero.

 Mia madre non c’è più da tempo, ma nel nostro cimitero, sulla sua tomba, è incollata un’acquasantiera di plastica con l’effigie del Santo che le era stata donata per il rinnovo dell’abbonamento al «Messaggero di sant’Antonio», a cui è rimasta fedele per quasi sessant’anni. Era stata così contenta quando l’aveva ricevuta: «Guarda cosa mi ha mandato el me sant’Antunì!».

 

Data di aggiornamento: 01 Dicembre 2022