Elogio di virtù antiche. Intraprendenza

24 Agosto 2010 | di

Per cominciare

«(…) La fortezza è una virtù che segnala un animo coerente e magnanimo. Chi esercita questa dote non è meschino, non recrimina, non si vendica, non è subdolo e gretto, ma perdona, comprende, è generoso, pietoso e longanime. Questa grandezza di cuore e di mente è dalla persona superficiale e mediocre scambiata per debolezza o arrendevolezza, mentre è segno di nobiltà d’animo e di dignità».


G. Ravasi, «Mattutino», da Avvenire 25 febbraio 2007



Tempi mammoni

di Giovanni Ventimiglia


Ieri e oggi

Ovvero: tempi che esaltano il grembo materno, al di fuori del quale vi è solo il male. Ma le cose stanno proprio così? Che fine ha fatto la morale «paterna», quella che spinge a praticare «fortezza» e «magnanimità»?


«intraprendenza» si nascondono due antiche virtù, oggi del tutto dimenticate: la fortitudo (vale a dire «fortezza» o «coraggio») e la magnanimitas (letteralmente «grandezza d’animo»).
Secondo Aristotele e san Tommaso d’Aquino la «fortezza» è quella virtù che sta nel giusto mezzo fra i vizi opposti della temerarietà (o impru­denza) e della viltà. La «grandezza d’animo», invece, è la virtù che sta nel giusto mezzo tra la presunzione e la pusillanimità. Avere un «animo grande», dice san Tommaso, significa essere capaci di sperare in «cose grandi» (magna, oggi diremmo «grandi imprese», di qualsiasi tipo), future, ardue (cioè diffi­cili da perseguire), ma alla portata delle nostre capacità. Il presuntuoso, invece, aspira a cose grandi e difficili ma al di sopra delle sue capacità. Il pusillanime, all’estremo opposto, avendo un «animo piccino» (pusillus animus), manca della speranza in cose grandi, sebbene siano alla sua portata. Assomiglia tanto all’uomo vile che, secondo Aristotele, «è una specie di uomo senza speranza, giacché ha paura di tutto».

Esistono pagine molto suggestive di Aristotele sulla «fortezza» del guerriero «che sta senza paura di fronte a una morte bella», e pagine ancora più toccanti di san Tommaso sulla «fortezza» del santo, pronto a testimoniare fino all’effusione del sangue il suo amore per Cristo, Signore della vita.

Ebbene, a che punto siamo, oggi, con questi gesti? Sono per noi ancora azioni virtuose da proporre come modello a tutti o gesta eccezionali, mitiche, che in realtà consideriamo da «imprudenti»? E a che punto siamo con la speranza di «grandi imprese»? Di solito non la bolliamo piuttosto come «presunzione» e «vanità»?

Credo di sì. E la causa – mi sembra – ha un solo nome: morale «mammona». Nella modernità, infatti, la morale si è trasformata da «patriarcale» in «mammona». Ora, in questo passaggio da un estremo all’altro si è perso anche quello che di buono conteneva la cultura «maschile», che è stata rigettata in toto come «maschilista».

In che cosa consiste, infatti, la morale «mammona» (che è una morale senza «paternità»)? Nella sicurezza e nell’esaltazione del grembo originario. In che cosa consiste, invece, la morale «paterna»? Nel coraggio del distacco e nella speranza del futuro. Si comprende, dunque, che una morale «mammona», come quella che domina nelle società consumistiche felliniane, accusi di «imprudenza» e «presunzione» ogni moto di allontanamento dal grembo protetto verso l’incerto futuro. Messaggio inconscio: tutto quanto è estraneo a «mammà» è pericoloso e malvagio.

Conclusione: l’energia ancestrale verso il futuro, il rischio, l’ignoto, l’audace impresa, bloccata e repressa dalla morale «mammona», si nasconde nell’inconscio. E da lì è pronta a riapparire in azioni ineducate, imprevedibili, temerarie, pericolose per sé e per gli altri – incoscienti per l’appunto –. Il che è esattamente quanto leggiamo nelle cronache di tutti i giorni.

Che fare dunque? Sperare di correggere la temerarietà dei giovani con inviti – un po’ «mammoni» – alla prudenza? Oppure riproporre figure virtuose di uomini «forti» e di animo grande quali modelli di vita dove il coraggio del futuro possa tornare a essere, come è, degno di lode?



Intraprendenza fa rima con prudenza

di Adriano Fabris


Educare all’intraprendenza

Voler fare tutto nuovo, è certamente una virtù. Ma lo è solo se non si coltiva l’illusione che sia possibile svincolarsi del tutto da quei limiti che definiscono la propria vita. È questo che dobbiamo insegnare ai nostri giovani.


Per noi esseri umani, tuttavia, cominciare da zero non è possibile. Infatti il passato ci vincola ben più di quanto pensiamo. E, in parallelo, il futuro ci sfugge, ben al di là delle nostre intenzioni. Così l’intraprendenza, come volontà di rompere con una situazione di fatto, si scopre, da una parte, pur sempre condizionata da ciò che siamo stati e dal contesto in cui viviamo e, dall’altra parte, inserita nell’orizzonte ben preciso di ciò che concretamente possiamo fare. In una parola: l’intraprendenza, il voler fare tutto nuovo, è certamente una virtù. Ma lo è solo se non coltiviamo l’illusione che sia possibile svincolarci del tutto da quei limiti che definiscono la nostra vita.

La consapevolezza di tali limiti rende prudente chi vuol esercitare l’intraprendenza. Ma mentre la capacità d’intraprendere qualcosa di nuovo è una predisposizione naturale, a cui solo in parte si può educare, così non è per quella prudenza che può accompagnarla. Intraprendenti, infatti, sono coloro in grado di sopportare, e magari di amare, il rischio della novità: condottieri, esploratori, creativi. Essi vogliono andare oltre i limiti imposti da una certa situazione. La prudenza, invece, permette di contenere l’attitudine al rischio, e perciò di renderla feconda. Chi dunque coniuga intraprendenza e prudenza lo fa per rendere stabile la novità che intende conseguire. Il condottiero coraggioso, se vuole vincere, non può essere temerario. E dunque superare i limiti non vuol dire dimenticarli. Significa sapere che si ripresenteranno e che, rispetto a ciò, sarà necessario trovare un punto di equilibrio.

Questo, appunto, si può insegnare. Si può insegnare la prudenza. Si può insegnare che esistono limiti e che con essi, per realizzare qualcosa che sia non solamente nuovo, ma guadagnato stabilmente, bisogna pur sempre fare i conti.

Certo: insegnare ai nostri ragazzi, intraprendenti per natura, il senso del limite non è affatto facile. A loro piace il rischio, piace l’avventura. Perché, nella pienezza di vita che li caratterizza, è facile che si sentano quasi onnipotenti. Cominciare da zero è la loro intenzione, più o meno consapevole; sfidare chiunque voglia sottometterli a regole è una costante tentazione. L’avventura diventa un’abitudine: magari per sfuggire alla noia di un’esistenza fin troppo garantita e coccolata.

Come educare dunque la loro intraprendenza? Come far loro capire che l’intraprendenza diventa feconda, produttiva, solo se tiene conto fin dall’inizio dei limiti ai quali andranno incontro? Ricette universali non ne esistono. Vale, anche in questo caso, l’esperienza che ognuno, genitore o amico, ha fatto: purché sia capace di ascoltare, non solamente d’imporre regole che rischiano di essere immediatamente disattese o infrante.

Come comportarsi, allora? Per chi fa dell’intraprendenza la sua bandiera ciò che risulta semplicemente imposto – ben lo sappiamo – è un incitamento alla trasgressione. Invece, se delle regole facciamo comprendere il senso, forse allora riusciamo insieme a far capire che anche la volontà di rendere tutto nuovo è qualcosa che si realizza solo in un contesto relazionale: in una relazione con gli altri, con il mondo in cui si vive, con le speranze e i progetti da realizzare. E che in questo contesto emergono non solo i limiti che il nostro agire è destinato a sperimentare, ma anche la possibilità di oltrepassarli.

Ben lo sanno gli audaci. Sanno cioè che la fortuna aiuta la loro intraprendenza. Ma sanno anche che la fortuna va conquistata e tenuta saldamente in mano. E che ciò avviene solo grazie a un esercizio di prudenza. Ai nostri ragazzi questo va detto. Affinché torni loro in mente quando, magari, vogliono compiere un sorpasso azzardato.           




Parole da meditare. Intraprendenza

Nei vangeli la virtù dell’intraprendenza assume molti volti: è l’audacia profetica di Gesù che scaccia i venditori dal tempio (cf. Mc 11,15-19 e par.; Gv 2,14-22); è il coraggio risoluto con cui egli persegue il suo cammino verso Gerusalemme, raccogliendo tutte le sue forze per affrontare le difficoltà che lo attendono (cf. Lc 9,51); è la franchezza di fronte alla quale anche i suoi avversari sono costretti ad ammettere che egli «non ha soggezione di alcuno, perché non guarda in faccia a nessuno, ma insegna la via di Dio secondo verità» (cf. Mc 12,14 e par.). Ma tutti questi elementi sono approfonditi e riassunti dal «bel rischio» della fede di cui parla Clemente di Alessandria (Protrettico X,93), riprendendo un’espressione di Platone. La bellezza di questo rischio trova la sua attestazione degna di fiducia nel rischio che Gesù stesso ha vissuto, spendendo la sua esistenza nella dedizione a Dio e agli uomini, cioè «amando fino alla fine» (cf. Gv 13,1), anche a costo di subire una morte ingiusta e vergognosa. È solo con l’autorevolezza propria di chi ha vissuto in questo modo che egli ha potuto chiedere: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34 e par.). Sono parole che, nella loro paradossalità, hanno un significato semplice e netto: chi vuole essere realmente discepolo di Gesù deve smettere di considerare se stesso come misura di ogni cosa; deve rinunciare a difendersi e accettare di portare lo strumento della propria condanna a morte; deve uscire dai meccanismi di autogiustificazione e abbandonarsi totalmente al Signore. Solo chi accetta di fare questo può conoscere Gesù Cristo e cogliere se stesso in lui, intraprendendo così un cammino di vita piena e felice. La miglior interpretazione di queste esigenze la fornisce lo stesso Gesù, commentandole con l’affermazione che costituisce il vero fulcro della «differenza cristiana»: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35 e par.).

Ma noi cristiani siamo ancora convinti che vale la pena perdere la vita per Gesù Cristo? Ovvero: crediamo che il suo amore vale più della vita (cf. Sal 63,4), che solo a motivo di questo amore trovano senso anche le fatiche e le contraddizioni della vita? Ecco l’intima verità del Vangelo, ecco in cosa consiste la vera audacia, la vera intraprendenza: perdere la nostra vita per amore di Gesù Cristo è ciò che può giustificare ogni nostra rinuncia, è la vera beatitudine possibile già qui e ora, nella nostra vita umanissima. Ma se non comprendiamo questo, possiamo ancora dirci cristiani?

Enzo Bianchi, priore di Bose



Il coraggio su due lame

a cura di Nicoletta Masetto


Oscar Pistorius

Al posto dei piedi ha delle lame, con le quali, però, ha vinto quattro ori paralimpici. Un esempio di coraggio, forza interiore e caparbietà. E, soprattutto, di intraprendenza. Oscar Pistorius,una vita passata ad abbattere barriere.


Le lame che porta al posto dei piedi affondano nel tartan. Quando corre si avverte un sibilo metallico, quasi impercettibile. La sua corsa non è per niente facile o «avvantaggiata». «Devo prima pensare a mettere bene la lama a terra, piatta, poi a inclinare il corpo, altrimenti cado. E devo farlo a ogni passo, cercando di mantenere un’azione fluida». Lo ripete a se stesso e a noi. Quando si ferma, il suo volto è intriso di sudore e fatica. Uomo bionico? «No, solo uomo». Oscar Pistorius, una vita ad abbattere barriere, incarna tutte quelle persone che non hanno rinunciato a un sogno, nello sport come nella vita, pur partendo da situazioni di svantaggio. Le prime lame le ha costruite lui stesso, ricavandole dalle pale degli elicotteri. La voglia è quella di mettersi in gioco, sempre. E di non arrendersi, mai. «Tutti abbiamo una disabilità – ci dice –. Ma possediamo anche milioni di abilità che ci possono permettere di superare i nostri limiti e le difficoltà».

Msa. Che cosa le dice la parola «intraprendenza»?

Pistorius. La associo a una persona dinamica, risoluta, a qualcuno che prende in mano con determinazione il proprio futuro. Qualcuno, insomma, che non solo ha un progetto per la sua vita, ma sa anche metterlo in pratica per avere successo.

Molti, specie tra i giovani, non sono in grado di accettare il fallimento. È possibile rinascere anche quando tutti, compresi noi stessi, ci considerano perdenti?

Iniziare qualcosa di nuovo comporta sempre una dose di rischio che va messa in conto. Intraprendere qualsiasi impresa solo con il cuore e non con la testa può condurre a fallimenti dolorosi: parlo per esperienza personale. Prima di investire tempo ed energie in qualcosa, a mio avviso una persona dovrebbe sempre chiedersi che cosa effettivamente ci guadagna, quanto gli costa e quanto rischia di perderci. In ogni caso, se ci si piange addosso ancora prima di cominciare, si è perdenti in partenza. L’atteggiamento più giusto, almeno per me, è trovare una buona idea, che abbia potenziale, e coltivarla, dicendo a se stessi: «So che devo rischiare molto, ma so anche che avrò molto da guadagnare». Un atteggiamento, sia chiaro, che non si applica agli affari. Qui è preferibile procedere con prudenza, usare la testa e costruire la propria impresa a poco a poco, maturando l’esperienza necessaria a renderla solida.

Una persona intraprendente è, per forza, un vincitore?

Non necessariamente. Quando lavori a un progetto per te stesso, lo fai per raggiungere determinati obiettivi, assumendoti anche il carico dei rischi che ne conseguono. Le risorse e la rete di conoscenze devono essere costruite dal basso, con costanza e tenacia. Occorre una buona reputazione per avere successo. Se si riesce a far funzionare tutto questo, si potrà vincere.

Come si può accrescere la forza interiore?

Sono uno strenuo assertore della frase: «Quello che semini, raccogli». Personalmente sto meglio quando mi prendo del tempo, se aiuto qualcuno a portare a termine un compito o se gli do una mano concreta, oltre le parole. Aiutare una persona è, tra tutte le imprese, una di quelle che più ripagano e arricchiscono a livello interiore.


Oscar ringrazia la tecnologia, ma prima ancora sua madre Sheila. Che amava ripetergli: «Oscar, chi perde davvero non è chi arriva ultimo. Chi perde davvero è chi resta seduto a guardare e non prova nemmeno a correre». Le parole di sua madre, scomparsa quando lui aveva 15 anni, sono diventate il succo della sua vita.


Oscar Pistorius

Oscar Pistorius è nato a Johannesburg (Sudafrica) il 22 novembre 1986. Una grave malformazione costrinse i suoi genitori a decidere l’amputazione prima dei piedi e poi degli arti inferiori, quando aveva undici mesi. Corre grazie a particolari protesi in fibra di carbonio. Dal 2004 è diventato una stella dell’atletica internazionale.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017