Emozioni su tela

Fino al 1° febbraio a Milano è aperta la più grande retrospettiva dedicata, negli ultimi cinquant'anni in Italia, a Marc Chagall, il pittore russo d’origini ebraiche che seppe fondere sulla tela folklore, fiaba e realtà.
29 Ottobre 2014 | di

Forse non comparirà tra le specie classificate dal botanico e naturalista Linneo nella prima metà del Settecento, tanto meno tra gli animali che Plinio il Vecchio illustrò in Naturalis historia molti secoli prima (77-78 d.C.). Eppure la mucca alata esiste. Questo insolito mammifero si accompagna di tanto in tanto a un ombrello e, insieme a galli giganti e a capre dal manto bianco, rosso o blu, galleggia sulle tele esposte a Palazzo Reale a Milano fino al 1° febbraio.

A portarcela non è stato uno zoologo, ma un «semplice» sognatore di nome Moishe Segal. Un Mosè (questa la traduzione del nome ebraico) del XX secolo che – come il profeta – si è reso testimone di un popolo, traghettando sogni e memorie nella realtà quotidiana. Se il cognome Segal non vi dice ancora niente, provate a tradurlo in francese. Ecco a voi Marc Chagall, l’artista nato a Vitebsk (in Bielorussia) nel 1887 le cui pitture «di scene e di macchiette di villaggio – come scrive Ernst Gombrich in La storia dell’arte – sono riuscite a conservare qualcosa del sapore e dell’incanto infantile della vera arte popolare». Proprio al maestro di origini chassidiche è dedicata la mostra «Marc Chagall. Una retrospettiva. 1908-1985».

Per mettere insieme le 220 opere – quadri, disegni, costumi teatrali prestati da collezioni private e grandi musei come il Moma di New York e la Tate Gallery di Londra – alla curatrice Claudia Zevi sono serviti quattro anni, al termine dei quali la storica dell’arte, ormai di casa nell’archivio parigino del Comitato Chagall, ha fatto una grande scoperta. «Alcuni foglietti dattiloscritti in russo che, tradotti, si sono rivelati le memorie inedite di Marc Chagall» ricorda Zevi. Annotazioni e commenti sull’arte propria e dei colleghi. Spunti che – uniti alla già nota autobiografia Ma vie (1921) – gettano nuova luce su un artista «inetichettabile» che incrociò le avanguardie (cubismo e fauvismo in primis), ma rimase sempre fedele a se stesso.

È proprio questa incorruttibilità un po’ infantile il fil rouge dell’esposizione milanese che «attraverso una cronologia ragionata, segue l’evolversi dell’artista e della sua pittura» continua la curatrice. L’obiettivo è dimostrare fino a che punto Marc Chagall può essere considerato moderno. «Onirico, drammatico e realista nel senso poetico, egli raffigura le emozioni. Ecco perché oggi è così amato anche da chi non s’intende di pittura: nei suoi quadri chiunque può riconoscersi. In fondo – conclude Claudia Zevi – per capire uno stato d’animo non serve essere critici d’arte».

Quattro case blu e una chiesetta, un contadino che, falce in spalla, torna dalla moglie, un ramo fiorito sotto un cielo lapislazzulo. Felicità è saper godere delle piccole cose quotidiane. Come quelle che un giovane Marc Chagall serba nel cuore insieme con il ricordo della sua amata patria Vitebsk. È il 1912 quando l’artista firma Io e il mio paese.

Lui, che è abituato al contatto con la natura e al silenzio, è giunto nella caotica Parigi poco più che ventenne, per amore dell’arte. Nella capitale francese frequenta artisti e poeti come Fernand Léger e Guillaume Apollinaire. Visita i grandi musei e ammira i maestri del passato. I colori del Veronese, le luci di Manet e gli esotismi di Gauguin lo ispirano. Folgorato dai ritratti di Rembrandt e dalle note di Mozart, l’artista però non dimentica le proprie radici.

Chiuso nel suo atelier a La Ruche (edificio nel quartiere Vaugirard che nel primo Novecento ospitò molti artisti) attinge dallo scrigno dei ricordi e libera la fantasia. Nei suoi quadri – tra continui rimandi alla tradizione popolare russa e a quella ebraica – l’elemento autobiografico regna sovrano. Ecco dunque il villaggio: una monotona distesa di tetti color fango sormontati dalla coda di un arcobaleno in Veduta dalla finestra a Vitebsk (1908); un labirinto di prismi e triangoli (Chagall è in debito col cubismo) verde smeraldo in La passeggiata (1917); un trionfo di cuspidi innevate che si stagliano nel cielo plumbeo di L’uomo gallo sopra Vitebsk (1925). Come dicevamo all’inizio, ospiti fissi nei quadri del maestro sono gli animali: le giumente e i galli sospesi tra i cieli cobalto e magenta, così come le capre che suonano il violino, incarnano l’innocenza della natura e s’immolano sulla tela per redimere le colpe dell’umanità.

Quella di Chagall è una vita di alti e bassi a cavallo delle due guerre mondiali: da genio incompreso (le sorelle usano le sue tele per asciugare i pavimenti!) diventa maestro favorito dai grandi mecenati; su tutti, l’editore Ambroise Vollard che gli chiede di illustrare le Favole di Jean de La Fontaine (1926-’28) – splendide le gouache esposte a Palazzo Reale – e la Bibbia (1930-39) (da vedere la mostra «Chagall e la Bibbia» al Museo Diocesano di Milano).

Viaggia molto Marc Chagall. Il desiderio di sfondare prima e la fuga dalla guerra poi lo portano in Francia e di nuovo in Russia, in Italia, Polonia, Germania e Usa. Per tutta la vita il pittore si percepisce esule, proprio come l’ebreo errante tratteggiato in molti dei suoi quadri. Che vesta le spoglie di un vecchio mendicante dalla barba sanguigna (L’ebreo in rosa, 1915), che fluttui sopra i cieli di Vitebsk munito di bastone e sacco in stile Befana (Sopra Vitebsk, 1914) o che – novello Amleto – mediti davanti a un cedro (Shakespeare avrebbe preferito un teschio), il rabbino si fa sempre metafora dell’esilio del popolo ebraico. Ieri, oggi e domani.
 
In armonia col creato
«Un quadro deve fiorire come qualcosa di vivo, deve affermare qualcosa d’inafferrabile» annotava Marc Chagall nelle sue memorie. E che cosa c’è di più inafferrabile dell’amore? Al di là della passione che inebria lo spirito e fa librare il corpo, per il pittore di Vitebsk l’amore è il completamento di due anime in armonia con il creato. Lo si percepisce in Gli amanti sulla panchina (1911), prima di una lunga serie di opere che ritraggono coppie di innamorati abbracciati quasi a formare un unicum. A ispirare l’artista è il sentimento che lo lega a Bella Rosenfeld, figlia di un orafo di Vitebsk. Sposatisi nel 1915, Bella e Marc ricorrono spesso sulla tela: i palmi delle loro mani si compenetrano in La passeggiata (1918), le loro labbra si sfiorano felici in Il compleanno (1915). L’atmosfera è rarefatta, la gravità un’opinione: i corpi pervasi dal sentimento fluttuano e si rovesciano. Memore delle fiabe di Ivan Krylov che aveva letto a scuola (in russo il mondo delle fiabe è il «mondo capovolto»), il pittore procede per associazione di idee e non abbandona mai l’elemento figurativo. Neppure quando, nel 1920, un contrasto con i docenti della scuola di Belle arti di Vitebsk (Kazimir Malevic e altri suprematisti) lo costringe a trasferirsi a Mosca. Nella nuova città Chagall disegna le scenografie per il Teatro ebraico: vivaci e irriverenti come caricature, gli schizzi per i murali esposti a Palazzo Reale rubano sorrisi al pubblico.

Un po’ di ottimismo è quel che ci vuole per affrontare l’ultima parte della mostra… Qualche sala più in là, infatti, la seconda guerra mondiale incombe. Siamo negli anni dell’esilio americano, Chagall entra in una fase buia che culmina con la morte della moglie nel ’44. Sulla tela i colori s’incupiscono e le ombre aumentano. I rabbini fuggono con i rotoli della Torah in mano. Dal cielo piovono pendole, quasi a scandire l’ineluttabilità del tempo (La caduta dell’angelo, 1923-’33-’47). Gigante o mignon, steso in orizzontale o retto su un lato del quadro, il crocifisso fa il suo ingresso nella composizione. Vestito col tallit (scialle ebraico per la preghiera), Gesù è il salvatore venuto a liberare gli ebrei dalla schiavitù nazista. In lui non c’è traccia di vittimismo. Tra le sue membra stanche converge la tragedia dell’intera umanità (La crocifissione in giallo, 1942). Oltre il dolore, però, la speranza non abbandona mai l’opera di Chagall: ha le sembianze della Vergine vestita da sposa in La Madonna del Villaggio (1938-’42), si nasconde dietro il lume di una candela o nella tavolozza immacolata di un angelo-pittore (L’angelo con la tavolozza, 1927-’36). In effetti, saranno proprio la fede e l’arte a far uscire l’artista dalla depressione in cui è caduto.

Nel 1948 la guerra è finita e Chagall torna in Francia. Libero di riaprire il forziere dei ricordi, torna a dipingere amanti immersi nella luce (La coppia sopra Saint-Paul, 1968), fiori e ritratti (Mazzo di fiori e amanti, 1965). Ma la routine lo annoia e, spinto dalla curiosità, sperimenta nuove dimensioni artistiche: dai dipinti murali ai mosaici, dagli arazzi alle vetrate (indimenticabile il soffitto per l’Opera Garnier di Parigi, 1964) per lui l’arte non ha confini. Alle soglie degli anni Settanta Chagall è ormai una star. In suo nome si aprono mostre e musei. Nel paesino di Saint-Paul-de-Vence, dove vive con «Vava» (la seconda moglie Valentina Brodskaja), l’artista è sereno. Conscio di aver superato grandi ostacoli con l’aiuto della fede e della Bibbia («la più grande fonte di poesia di tutti i tempi»), si sente un eroe: «Io sono senza dubbio un Don Chisciotte». Non è un caso se nel 1974 il personaggio, emblema della forza di spirito descritto da Miguel de Cervantes, compare al centro del dipinto Don Chisciotte mentre, in sella al fidato Ronzinante, separa una folla di militanti da alcuni artisti. Eccolo il profeta, l’eterno esule che viaggia sul filo dei ricordi. Chagall ha finalmente trovato se stesso. Ora è pronto per ricongiungersi al Padre. E la sua morte, avvenuta nel 1985 all’età di 97 anni, è solo il principio di un nuovo viaggio.
 
INFO
Chagall. Una retrospettiva 1908-1985
Palazzo Reale, Piazza Duomo, Milano
Fino al 1 febbraio 2015
Tel. 02 54911
www.mostrachagall.it
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017