Enigma Cardenal
Valeva la pena venire fin qui per farsi mandare a quel paese da un monaco, poeta e rivoluzionario di 90 anni? Sì, valeva la pena. Attraversare un oceano, atterrare in una città invisibile come Managua, svegliarsi e, nella prima mattina di Nicaragua, ritrovarsi, per caso e presagio, nel Cafè de los poetas. Allora i piccoli miracoli sono possibili: dietro il bancone c’è un grande quadro azzurro ed è il tuo ritratto. Inconfondibile, la tua barba bianca, i capelli lunghi e candidi, il basco nero. Sono venuto in Nicaragua per incontrare la leggenda di Ernesto Cardenal. Per stringere la mano che ha scritto versi che lasciano a metà il respiro. E ben sapevo che l’incontro sarebbe stato non facile. Anzi, impossibile. Ernesto è stato uno dei protagonisti della Teologia della liberazione. È da anni candidato al premio Nobel per la letteratura, le sue poesie più celebri (Ora 0, Orazione per Marilyn Monroe, Epigrammi…) sono amate dai ragazzi e dalle ragazze dell’America Latina. Ernesto è un uomo ruvido, collerico, taciturno, insopportabile. Sfiorarlo è come toccare un’ortica. Ma questo poeta ha aperto cuori e menti. Ha lottato e sofferto. Ha visto morire i suoi compagni di battaglia. Nel 1983 è stato umiliato, in maniera teatrale, da papa Giovanni Paolo II e sospeso a divinis (sospensione dalla celebrazione degli uffici sacri, prevista dal Codice di diritto canonico della Chiesa cattolica, ndr). È stato cacciato dai governi rivoluzionari di cui aveva fatto parte. Non ha smesso di essere innamorato di Dio. A 90 anni è amato e detestato, intrattabile e dolcissimo. Viaggia ancora per il mondo, ma niente lo rende più nervoso dei viaggi. Ama la solitudine ed è sempre in mezzo alla gente. Scrive, per nostra fortuna scrive ancora. L’ultima sua battaglia è contro il Gran Canal, il canale che un’impresa privata cinese ha già cominciato a costruire per tagliare in due il Nicaragua e collegare l’Atlantico al Pacifico. «Una mostruosità», grida Cardenal. Alle nove e trenta del mattino lo vedo arrivare al suo ufficio. Al Centro nicaragüense de escritores, in una strada tranquilla di Managua. Il vecchio si appoggia al suo bastone, è un uomo curvo e dall’equilibrio incerto e ostinato. Si ribella alla vecchiaia: «È molto scomodo avere questa età». Da mezzo secolo indossa la stessa uniforme: la camicia bianca a un solo bottone, i jeans, il basco nero. Lo immaginavo un uomo imponente. Invece è piccolo e gli anni lo hanno come ripiegato su se stesso. So che è sveglio da ore. La sua disciplina è ferrea. Monastica. Alle tre del mattino è il tempo delle orazioni, della meditazione, del silenzio. Forse appunta un frammento di verso su un pezzetto di carta. Mille foglietti che poi disperde. Dalla trappa al Ministero Ernesto è stato un giovane ricco e inquieto. Dilaniato tra vocazioni contrapposte, gaudente e contemplativo, borghese ma avversario della tirannia che, dagli anni ’30, opprimeva il suo Paese. Poeta fin da ragazzo, lettore accanito di Ezra Pound e dei poeti nordamericani, senza mai tradire Rubén Darío, il cantore principe del Nicaragua. A 31 anni, nel 1956, Ernesto cambiò vita: si fece monaco trappista, novizio del filosofo Thomas Merton, nel severo monastero di Gethsemani, in Kentucky. A 40 anni fu ordinato sacerdote in Colombia e tornò al suo Paese per fondare una Comunidad, mistica e utopica, nel remoto arcipelago lacustre di Solentiname. Per dodici anni, tra il 1966 e il 1977, Ernesto ha vissuto con i pescatori e i contadini di quelle isole lontane. «Eravamo sconcertati – ricorda doña Esperanza, 59 anni, una delle protagoniste della storia di Solentiname –. Era un prete, ma non voleva essere chiamato padre. Non voleva essere pagato per i battesimi e i matrimoni. Ci disse: i vostri figli muoiono di diarrea, non per la volontà di Dio. Sono vittime dell’ingiustizia degli uomini. Chiamò maestri per scuole che mai vi erano state nelle nostre isole. Le sue messe erano una festa, ogni domenica discutevamo, per ore, le pagine del Vangelo. Poi mangiavamo assieme, suonavamo, cantavamo. Ernesto ci entrò nel sangue». Solentiname fu una delle cento scintille della rivoluzione sandinista, uomini e donne che, nel nome di Augusto Sandino, il primo ribelle dell’America Latina del ’900, si batterono contro la dittatura dinastica della famiglia Somoza. «La poesia di Ernesto è stata la colonna sonora della nostra rivoluzione» dice Gioconda Belli, grande scrittrice nicaraguense. Nel 1977, la Comunidad fu distrutta dai soldati. I «figli» di Ernesto caddero nelle battaglie contro la tirannia. Infine, nel 1979, la rivoluzione trionfò. E la chiesa di Nuestra Señora de Solentiname fu ricostruita. Oggi mi appare bellissima, colorata, splendente. A un passo dai 60 anni, Ernesto divenne ministro della Cultura nel primo governo sandinista. Si inventò scuole popolari di poesia: «Tutti possono scrivere poesie. Soprattutto i più indifesi: bambini e anziani, carcerati e infermi». Diffuse la poesia tra militari e poliziotti. Poi Karol Wojtyla lo allontanò dall’altare. I suoi ex-compagni lo cacciarono dal governo. Lui si immerse nella stesura immensa di Cantico cosmico. Oggi, a 90 anni, la battaglia ambientalista: la difesa della terra del Nicaragua dalla minaccia del Gran Canal. Una nuova trincea dove gli amici di un tempo sono diventati avversari potenti e implacabili. Sono le ferite e le cicatrici di una vita lunghissima. Di sei vite. Tutte unite dal filo rosso dei suoi versi. L’uomo delle contraddizioni Ora ho davanti a me quest’uomo. E lui tira fuori gli aculei come un istrice. Mi evita con un gesto: «Non ho tempo». L’urgenza del tempo. «Devo leggere, scrivere». Il tempo è un incubo per lui. So che a 85 anni ha fatto un corso di lettura veloce per leggere tutto quello che ha ancora da leggere. Ero stato avvertito: «Odia le interviste». Ama il silenzio. Eppure Ernesto è un uomo pubblico, sale sui palcoscenici, attorniato da gente, viaggia. E detesta tutto questo. Le sue contraddizioni sono irrisolte. Forse solo i contadini-pescatori di Solentimane sono capaci di regalargli pace. Ernesto si accartoccia sulla sua sedia. Mi alzo, vado al suo fianco. Se potesse mi prenderebbe a calci. «Con gli anni, può darsi che io sia cambiato. Non lo so». Nostalgie? «Sì, ho nostalgia della rivoluzione». La sua biografia è raccontata in tre bellissimi libri: il primo è Vida perdida (La vita perduta), l’ultimo è La Revolución perdida (La Rivoluzione perduta). Perdi sempre, Ernesto? «Leggi Luca – sbotta –. Colui che perde la vita per me, la salverà. Io ho guadagnato una vita. La rivoluzione, no, l’abbiamo persa davvero. Viene tradita ogni giorno». I poeti non sono stati capaci di governare un Paese? «I poeti erano metafora, la rivoluzione è stata fatta da un popolo». Non solo metafora, Ernesto. I poeti morirono in quella rivoluzione, nei primi governi sandinisti c’erano tre preti e tutti i ministri scrivevano poesie. In Nicaragua, la poesia è nell’aria. No, hai torto, Ernesto. Ma non ho il coraggio di dirtelo. Negli anni della trappa, gli vietarono anche di scrivere. Penso alle parole infinite che ha poi scritto. «I poeti devono scrivere versi comprensibili, essenziali – dice –. Bisogna farsi capire, non essere enigmatici, prendere ispirazione dalla realtà, dai cartelli stradali, dai supermercati, dalla pubblicità, dai trattori. La poesia deve contenere storia, economia, dati, geografia, politica, statistiche». Gli strappo un sorriso con papa Francesco: «Sta cambiando la Chiesa. Questa è la Chiesa che Giovanni XXIII aveva già provato a costruire. È un miracolo, una rivoluzione». Come deve amare questa parola, Ernesto. Non azzardo a chiedergli di Giovanni Paolo II, non voglio una tempesta sopra di me. Sono contento che sorrida. Mi dicono che quando va a La Mascota, ospedale pediatrico di Managua, a parlare di poesia con i bambini colpiti dalla leucemia, è il più tenero dei nonni. Luz Marina, la sua assistente, mi dice: «Non chiederà la revoca della sospensione a divinis. Non è diventato prete per dire messa, ma per amore di Dio, per la bellezza di Dio». Guardo fuori, il cielo azzurro cosparso di nuvole del Nicaragua. Sì, questo Paese ha i più bei tramonti del mondo. La loro bellezza è inarrivabile. Un giorno lontano, di fronte alle onde leggere del lago Managua, Ernesto capì che la bellezza assoluta era Dio. «Me ne vado», dici con un borbottio. A ogni passo sembri cadere. Ti guardo andar via. E io sono felice di essere qui. Felice dei tuoi modi bruschi e delle tue non-parole. Hanno la stessa forza con le quali le donne, nei mercati del Nicaragua, raspano il ghiaccio per poi metterci sopra uno sciroppo dolcissimo. La granita, qui, si chiama raspado. Parole raspadas. Parole graffiate per una bevanda di miele. Questa è stata la più bella intervista della mia vita.
La schedaChi è Ernesto Cardenal nasce a Granada (Nicaragua) nel 1925. Studia letteratura all’Università di New York, poi in Messico e in Spagna. Tornato in patria, nel ‘54 partecipa alla rivoluzione di aprile contro il regime di Anastasio Somoza García. Due anni dopo entra nel monastero trappista di Nostra Signora a Gethsemani (in Kentucky). Viene ordinato sacerdote nel ’65. Fondatore della comunità religiosa di Solentiname (su un’isola del Lago Nicaragua), si lega al Fronte sandinista di liberazione nazionale. Nel ’79 è ministro della Cultura nel nuovo governo guidato da Daniel Ortega. Tale nomina gli costa, quattro anni dopo, la sospensione a divinis (cioè dalla celebrazione dei sacri uffici). Ma Cardenal non rinuncia comunque all’impegno politico, almeno fino al 1987, quando il suo Ministero viene soppresso per motivi finanziari. Oltre che teologo e filo-rivoluzionario, il religioso è anche scultore e, soprattutto, grande poeta. Tra le sue opere più note, ispirate ai temi dell’amore e della protesta: Ora 0 (1969), Epigrammi (1961), Orazione per Marilyn Monroe (1965) e Cantico cosmico (1992).