Eredità sempre viva

Il futuro dell’«italianità» dipende anche dalla trasmissione del patrimonio storico-culturale, attraverso manifestazioni popolari istituzionali, ma anche condivisioni spontanee.
18 Settembre 2013 | di
L’editoriale apparso sul «Messaggero di sant’Antonio» edizione italiana per l’estero di luglio-agosto 2013, dal titolo Italianità nel mondo: quale futuro?, è secondo me «indovinato», perché l’italianità nel mondo, nonostante le varie etichettature che si vogliano dare a tale concetto, è diventata una grossa sfida. Con la nota recessione, le varie erogazioni a enti preposti alla promozione e diffusione della lingua e cultura italiana all’estero sono state decurtate o addirittura annullate. È arrivata la fine, e con essa si può incominciare a parlare di italianità come di una reliquia del passato venerata, ma ormai estinta?

Forse bisognerebbe, prima di tutto, circoscrivere il concetto stesso di «italianità nel mondo». Un’italianità trapiantata e cresciuta in contesti tanto diversi, che ha assunto tonalità, sfumature ed espressioni arricchitesi, con il tempo, di novità e incontri.
È bene, per esempio, sottolineare tutte le espressioni culturali che, senza sostegno governativo o pubblico riconoscimento, sono attive in diversi contesti sotto la spinta dei ricordi. Mi riferisco a celebrazioni popolari e condivisioni spontanee incomprensibili se non facendo riferimento al cordone ombelicale storico-culturale con la madrepatria, ancora vivo grazie alla mediazione offerta sulle strade del mondo dalle passate generazioni migrate dall’Italia.

Sotto la spinta del principio tuttora valido del «fai da te», specialmente se condiviso da altre persone dello o della stessa regione di provenienza, si è stabilito un modus vivendi che nelle sue caratteristiche antropologiche si ricollega alla cultura di stampo latino.

Premesso che queste mie considerazioni sono il risultato di esperienze e ricerche avvenute soprattutto in Australia, ritengo necessario aggiungere che questa italianità si è sviluppata per una sua forza interiore, senza condizionamenti o sovrastrutture e senza far appello ai «responsabili» della diffusione della cultura italiana all’estero.

Il futuro sarà sempre di più appannaggio di coloro che, anche se privati da sostegni istituzionali, sapranno portare avanti il patrimonio storico-culturale e religioso, simbolo della propria italianità. Poco importa, quindi, che il governo italiano abbia, per ragioni più o meno condivise, decretato la fine o il lento depauperamento dei sussidi finanziari agli enti preposti alla diffusione e promozione della lingua e cultura italiana all’estero (e sarebbe azzardato e assurdo sperare che le cose cambino nell’immediato futuro!).
Resta il fatto che, anche dopo vicende disastrose, molte volte è stata la popolazione a rimboccarsi la maniche e a ricostruire la propria esistenza.

Un’ultima considerazione: secondo gli archivi storici dell’emigrazione italiana in Australia, che risalgono alla prima metà del secolo XIX, i primi emigranti italiani sono approdati sulle coste australiane su invito delle autorità coloniali del tempo, anglosassoni, che desideravano ravvivare la loro esistenza ascoltando dei musicisti italiani. Tra questi, alcuni erano già stati in Inghilterra, o come tutor nelle case aristocratiche inglesi o come insegnanti di belle arti. La storia della nostra emigrazione non cessa di stupire, perché fornisce gli elementi essenziali di un patrimonio plurisecolare sempre vivo.
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017