Eric Emmanuel Schmitt. L’eroe filosofico? È un bambino che ride
«Scrivo pensando che i miei lettori saranno sia gli amici intellettuali che la gente semplice. E a chi afferma di aver dimenticato la gioia, rispondo: guardate attentamente un bambino che ride, perché lui sa come entrare con facilità e fiducia nel mistero dell’esistenza». Questo è Eric Emmanuel Schmitt, filosofo, drammaturgo e scrittore, tra i più affermati autori francesi nel mondo. In Italia è conosciuto soprattutto per il suo romanzo Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, nome anche della trasposizione cinematografica. L’accoppiata libro e film torna pure nell’ultimo lavoro di Schmitt, Odette Toulemonde, nelle sale italiane da marzo col titolo Lezioni di felicità.
Msa. Ciò che più colpisce dei suoi libri è la semplicità ed essenzialità del linguaggio. Come è giunto a questo risultato?
Schmitt. Sono convinto che ci voglia più tempo per scrivere in modo semplice e comprensibile rispetto a quanto ne serva per essere complicati ed elitari. Di conseguenza nel mio lavoro c’è una grande tensione interiore per giungere a essere sia intelligente che intelligibile. È necessario che il lavoro nasconda il lavoro, che l’arte mascheri l’arte. Sono soddisfatto solo quando ho l’impressione che tutto sia chiaro, naturale.
L’innocenza dello sguardo è un traguardo da raggiungere piuttosto che un punto da cui partire. È d’accordo?
Ciò che abbiamo di più prezioso nell’infanzia è la fiducia. Il bambino vive in un mondo più grande di lui, misterioso perché non comprensibile. Spera di sapere e spera che gli venga spiegato quello che gli sta accadendo. Nonostante tutto, riesce a entrare nel mistero dell’esistenza senza sforzi, oserei dire con facilità e fiducia. Crescendo perdiamo questo atteggiamento infantile e intorno ai vent’anni, a causa della presunzione di sapere ormai tutto, diventiamo arroganti. Solo più tardi, verso i quaranta, comprendiamo, al contrario, che essere filosofi significa confermare ciò che diceva Socrate: so di non sapere. Questa visione della realtà ci aiuta a ritrovare la stessa prossimità al mistero che abbiamo vissuto nell’infanzia. Ci aiuta a essere di nuovo con facilità e fiducia nel mistero. La fiducia di cui parlo è un sentimento metafisico molto forte, tant’è che ritorna a noi quando pensavamo di averla perduta. Se interpretata in senso laico, la fiducia si identifica con l’ottimismo, e se interpretata in senso religioso, si identifica con la fede, che è il modo di abitare il mistero donandosi a esso con tranquillità, anche quando non lo si conosce o quando scatena dentro di noi molte domande. È molto importante ritrovare la fiducia nel corso della propria vita, sia che essa prenda la forma della fede o che prenda la forma dell’ottimismo filosofico.
Perché di fronte a realtà difficili come la morte o il dolore gli adulti preferiscono tacere ai bambini?
Il silenzio genera ancora più angosce della parola. Stavo firmando gli autografi dopo l’uscita di Oscar e la dama in rosa: a un certo punto arrivò un bambino, il primo bambino che mi avesse mai chiesto un autografo. Mi disse che il libro gli era piaciuto molto. La cosa mi impressionò. Allora gli chiesi che cosa lo avesse spinto a leggerlo. Rispose di aver letto sulla copertina che si trattava di un bambino malato che stava per morire, e la cosa lo interessava. Una risposta diretta, pensai. Chiesi alla mamma se lei l’avesse letto. Disse di no. Chiesi perché, e mi rispose che aveva visto dalla copertina che si trattava di un bambino malato che stava per morire! Il figlio aveva letto quel libro per la stessa ragione per cui la madre l’aveva scartato. Questo significa che noi adulti sbagliamo a non parlare delle cose essenziali che fanno parte della condizione umana. Non è difficile parlarne, è tuttavia necessario farlo con pudore, con umorismo, con metafore che non appesantiscano ciò che è doloroso. Un testo come Oscar e la dama in rosa in Francia e Germania è diventato uno strumento negli ospedali dove si usano cure palliative per i malati terminali. Si offre questo libro perché la gente parli dell’argomento, perché possa ridere, piangere e di seguito parlare della malattia, del proprio dolore e della morte. Tutto, tranne il silenzio.
Sceglie spesso protagonisti bambini per i suoi libri. Perché?
Il bambino è l’eroe filosofico per eccellenza. C’è da sfatare il cliché che privilegia l’approccio alla filosofia solo nell’età adulta. Io stesso ero schiavo di questo stereotipo quando ero professore universitario. Poi un giorno feci un’esperienza pedagogica: per due settimane insegnai in una classe di bambini di dieci anni. Ero convinto che sarebbe stato catastrofico, che mi sarei annoiato e che i bambini non mi avrebbero ascoltato. Al contrario, con loro parlai di filosofia, di metafisica e capii che quando un bambino di dieci anni si pone una domanda, se la pone veramente, non sta fingendo per sembrare interessante di fronte alla classe. Il bambino incarna la purezza filosofica. Il filosofo è colui che si meraviglia, riflette, ragiona. Il suo archetipo allora non è il vecchio che circola per le strade di Atene con la barba e le fattezze di Socrate, ma è il bambino che si stupisce, si interroga e usa la sua testa per trovare risposte.
Quella fu l’esperienza che rivoluzionò completamente la mia concezione dell’infanzia e della filosofia. A partire da questa convinzione decisi di rischiare scrivendo piccole fiabe filosofiche nelle quali il bambino fosse il personaggio principale. Dopo la pubblicazione del primo libro qualcuno disse: «È impossibile che a quell’età si facciano certi ragionamenti». «Siete liberi di pensarlo − risposi − ma state sbagliando. Abbiamo dimenticato quanto fossimo intelligenti a dieci anni».
Nel suo romanzo Il Vangelo secondo Pilato, che racconta l’inchiesta del prefetto della Giudea per ritrovare il corpo di Gesù, è stato difficile scrivere il punto di vista di Cristo?
È stato facile descrivere il punto di vista di Pilato, un romano pragmatico e arrogante. Invece dire «Io, Gesù di Nazareth» e pronunciarlo in prima persona ha scatenato in me un lungo conflitto. Mi bloccava il fatto di essere credente, ma volevo avere il coraggio e l’audacia di raccontare la Passione secondo Gesù, l’Incarnazione secondo l’Incarnato. Sono partito ponendomi due regole: meditazione e preghiera. Andavo a cercare nel profondo di me, per trovare ciò che è più grande di me, sbarazzandomi del mio ego e delle preoccupazioni umane: un’esperienza vicina a quella di sant’Agostino. C’erano giorni nei quali non riuscivo ad arrivare a questa profondità, perciò non scrivevo, altri nei quali trovavo la strada e raggiungevo luoghi talmente intimi da scoprire che non erano più miei. Luoghi di me, più grandi di me. Mi sento molto vicino a santa Teresa d’Avila e in generale a tutti i mistici perché io sono un convertito. Sono nato ateo in una famiglia atea e anticlericale: l’ateismo era quasi uno sport da praticare a tavola. Con lo studio della filosofia, tra i diciotto e i venticinque anni, lasciai l’ateismo e divenni agnostico. Poi in una notte del 1989 ebbi un’esperienza mistica nel deserto del Sahara che mi cambiò totalmente. Diventai credente in un Dio sconosciuto in quanto non avevo una formazione religiosa. Cristiano lo divenni più tardi. Fossi stato musulmano avrei identificato quella presenza come il Dio di Maometto, cristiano come il Dio di Gesù, ebreo come il Dio di Mosè. Al mio ritorno a casa mi interessai alle religioni attraverso i testi dei mistici: furono la mia via d’accesso alla fede. Nel corso degli anni aumentò la consapevolezza che l’unico mezzo per nutrire questa fede era la lettura dei Vangeli, dalla quale scaturì la mia seconda conversione. La prima era stata la conversione a Dio, la seconda fu quella al cristianesimo. La mistica è sempre stata la mia porta. Una figura come santa Teresa d’Avila mi parla di cose intime che in parte ho vissuto e che continuo a vivere. Nel deserto ebbi l’impressione che la mia fede fosse solo un rivolo d’acqua, ma qualche anno dopo è diventata un fiume forte, grande e nutrito.
Qual è la tematica fondamentale del libro Odette Toulemonde, da cui è tratto il film Lezioni di felicità che la vede pure nei panni di regista?
Sono otto racconti sulla Grazia e sulla Redenzione. I protagonisti pensano che la vita non offrirà più a loro vie d’uscita. Come se fossero già morti. In ognuno di questi racconti accadrà invece qualcosa che farà riscoprire il peso delle cose, per credere ancora, per vedere qualcosa di nuovo nel mistero dell’esistenza. Vedranno la Grazia che viene e sorprende! Come se accendessimo una lampadina in una stanza buia. Mi piace cercare la luce nelle tenebre: quindi bisogna trovare l’interruttore. È questo il fulcro degli otto racconti. Viviamo in un mondo schizofrenico: pensa da pessimista e vive da ottimista; crede che la vita sia brutta e che tutto finisca con la morte, che nulla abbia senso, che siamo solo un insieme di molecole in movimento e materia in disgregazione. In un simile contesto bisogna fare un esercizio di lucidità per trovare una visione coerente della vita. La vita è già tragica, è inutile scrivere tragedie.
la scheda
Un artista della scrittura
Nato nel 1960 a Sainte-Foy-lès-Lyon, docente di filosofia, appassionato di musica classica, scrittore e drammaturgo, in poco più di dieci anni Eric Emmanuel Schmitt è diventato uno degli autori francesi più letti e rappresentati, con un repertorio internazionale amato da pubblico e critica in più di quaranta Paesi. Tra i suoi successi, tradotti anche in Italia, i quattro libri sull’infanzia e la spiritualità: Milarepa; Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano; Oscar e la dama in rosa; Il bambino di Noè.
Molti, poi, i titoli da romanziere, tra i quali: Il visitatore; La parte dell’altro; Piccoli crimini coniugali; Quando ero un’opera d’arte; La mia storia con Mozart; Odette Toulemonde (editi da E/O) e Il vangelo secondo Pilato (San Paolo). Sua la regia di Lezioni di felicità (in alto la locandina).