Eroine del quotidiano
Fra gli aspetti peculiari della «diaspora» di fine Ottocento dalle terre del Nord Italia, quello familiare merita senza dubbio una riflessione. Dai borghi alle pendici delle Dolomiti bellunesi, dalle Prealpi trevigiane, dalle valli e dalle pianure del Veneto, del Friuli, dell";Emilia-Romagna e della Lombardia se ne andarono, all";epoca, famiglie intere. Nuclei composti da una coppia di sposi e dai loro figli, spesso in tenera età . Altri ne sarebbero nati nelle terre d";«adozione». Emigrare con la famiglia al seguito, era segno "; anche questo "; che non si trattava di un";emigrazione temporanea bensì di un distacco definitivo dai luoghi d";origine.
Non è difficile immaginare quella che doveva essere la vita di queste madri e mogli, una volta arrivati nei porti di destinazione: c";era da lavorare i campi, da accudire le bestie, da preparare i pasti per la famiglia, da tenere la casa in ordine. E c";era da partorire, crescere ed educare i numerosi figli (la media era di 11,6 per coppia), che iniziavano poi a lavorare fin dalla prima giovinezza.
Sulle spalle di queste donne gravava il fardello di una grande responsabilità , di un impegno certamente più oneroso di quello del pater familias perché, oltre a lavorare duramente per tutto il giorno, la moglie era chiamata ad essere anche il fulcro morale attorno al quale si sviluppava tutta la vita domestica. Ecco perché possiamo affermare che la grande storia dell";emigrazione di quell";epoca è stata scritta soprattutto dal lavoro e dal sacrificio, silenzioso, di molte donne.
Ma non furono solo «donne di casa». Alcune di queste figure femminili si distinsero anche per le loro capacità imprenditoriali e fra queste meritano di essere ricordate due grandi donne venete: la bellunese Anna Pauletti Rech e la vicentina Luigia Carolina Zanrosso Eberle, meglio nota come la «Gigia Bandera».
La storia di Anna Pauletti Rech inizia da Pedavena, in provincia di Belluno, ed è in qualche modo atipica rispetto alle altre vicende d";emigrazione. Anna Rech, infatti, partì vedova con sette figli (dei quali due minorati), nel 1876 alla volta dello Stato brasiliano del Rio Grande do Sul. Analfabeta, ma dotata di grande intraprendenza, Anna adattò la baracca dove viveva "; nei pressi di Caxias do Sul "; ad osteria, a spaccio di generi di prima necessità , e poi anche a locanda, dove i viandanti potevano trovare ristoro.
La Locanda di Anna Rech diventò in breve tempo un punto di riferimento per tutti coloro che si trovavano a passare da Caxias do Sul, un frequentatissimo luogo d";incontro e proprio per questo un vero e proprio toponimo, segnalato in tutte le carte geografiche, che sta ad indicare ancor oggi un sobborgo dell";importante centro riograndense.
Gigia Bandera, fondatrice della Eberle
Grande spirito d";iniziativa fu anche quello che animò la «Gigia Bandera», al secolo Luigia Carolina Zanrosso Eberle. Stessa epoca, stessa zona d";emigrazione. Pochi anni dopo il loro arrivo in Brasile, agli Eberle venne offerta l";opportunità di rilevare, da un connazionale, una piccola attività artigianale di lattoneria. Il capofamiglia, Giuseppe, fa il contadino e non se la sente di mollare tutto per imbarcarsi in un";avventura che potrebbe riservare grossi rischi. Ma l";occasione è di quelle da cogliere al volo, senza pensarci due volte.
Luigia Carolina, già madre di sei figli, decide che sarà lei a prendere in mano la conduzione del laboratorio. In poco tempo apprende i rudimenti del mestiere e "; fra fusioni di metallo, cesoie e presse per piegare le lamiere "; assume dipendenti, vende, incassa i crediti, contratta prezzi e condizioni di fornitura. E in mezzo a tutto questo, riesce a dare alla luce altri quattro figli.
Per dieci anni, la prima imprenditrice italo-brasiliana lavora sodo in «bottega», e poi corre a casa per preparare da mangiare al resto della famiglia. Quando il secondogenito Abramo avrà raggiunto l";età di 16 anni, sostituirà la mamma al timone di un";azienda che in pochi decenni diventerà una delle maggiori imprese brasiliane con migliaia di dipendenti e numerose filiali in tutto il Paese: la Eberle S.A.
La vita di Anna e di Luigia Carolina non fu certo facile come non lo fu nemmeno quella di tutte le altre donne emigrate in quell";epoca. Splendide figure che qualcuno ha definito «eroine del quotidiano».
Possiamo vederle, queste eroine, visitando la bellissima mostra sull";emigrazione feltrina e bellunese dal titolo «Con la valigia in mano» curata da Francesco Padovani e promossa dal Comune di Pedavena e dalla Comunità Montana Feltrina che ci hanno concesso di pubblicare alcune foto.
Eccole, nelle antiche foto di famiglia dei primi anni del Novecento, sedute a fianco del loro marito, con in grembo l";ultimo nato e, a far da cornice, altri sette, otto pargoli. Uno per anno. Indossano il vestito semplice ma lindo della festa; i capelli sono in ordine, ma senza alcuna traccia di civetteria. E, soprattutto, hanno uno sguardo fiero e vivo.
Eccole, in altre sezioni della mostra che proprio alle donne dedica ampio spazio, immortalate dagli scatti di anonimi fotografi del dopoguerra: le vediamo nelle filande in Svizzera, nelle fabbriche della Germania, a prestare servizio presso le ricche famiglie della borghesia milanese o come cameriere stagionali nelle località alla moda di mezza Europa.
Sono figure di giovani donne che affrontano l";avventura migratoria in piccoli gruppi di compaesane, con le quali "; a fine turno "; si può tornare a parlare il dialetto di casa. Ma sono anche mogli e madri che emigrano da sole, come le balie e le cròmere, per sbarcare il lunario e per assicurare alla famiglia un avvenire migliore.
L";epopea delle bambinaie
Il baliatico fu un vero e proprio fenomeno sociale che raggiunse la sua massima espansione fra le due guerre, per esaurirsi negli anni Cinquanta. L";esodo coinvolgeva giovani madri, in buona salute, che venivano reclutate da famiglie aristocratiche del Nord Italia per evitare i disagi dell";allattamento a neo-mamme appartenenti ad una classe sociale più elevata.
Lo stereotipo della balia da latte feltrina, pubblicizzato anche sui giornali dell";epoca, si fonda su alcune significative connotazioni: robustezza, colorito sano, prestanza fisica. È così che centinaia di giovani madri, poco tempo dopo aver partorito, lasciavano i loro piccoli alle cure delle nonne e dei parenti per andare nelle sontuose magioni dell";aristocrazia italiana a donare il loro latte nutriente ai bimbi di altre donne più fortunate di loro.
Certo, il lavoro non era pesante, il trattamento sempre di riguardo, e l";attività "; ben remunerata "; si concludeva in genere dopo un anno, un anno e mezzo. Al tempo stesso, però, questa lontananza metteva a repentaglio la vita del figlio naturale appena nato e influiva negativamente sulle dinamiche familiari.
Le cròmere, altre donne bellunesi «con la valigia in mano», erano venditrici ambulanti, antesignane dei «vu cumprà » dei nostri giorni. Donne, non di rado in età avanzata, che si sobbarcavano ore e ore di cammino ogni giorno per andare a vendere per le strade articoli di piccola merceria. Le si potevano incontrare "; fino agli inizi degli anni Settanta "; nelle pianure venete, ma anche al di là delle Alpi, in Svizzera, dove il loro ricordo è ancora ben presente soprattutto fra gli abitanti dei piccoli centri.
Lavoro, sacrificio e dolorosi distacchi hanno contrassegnato l";epopea dell";emigrazione italiana. Ma ci sembra doveroso, in questo mese di marzo nel quale si celebra la Festa della Donna, fare una riflessione su di un aspetto peculiare dell";emigrazione «in rosa»: l";altruismo. Sia che se ne andassero con il marito e i figli al di là dell";Oceano, sia che partissero da sole, queste donne hanno sempre anteposto il bene della famiglia e dei figli alla propria felicità . Nessuna di loro emigrava per rincorrere successi, gratificazioni e ricchezze personali.
Ecco perché possiamo affermare che senza la sensibilità e la dedizione di queste donne, mogli e mamme, la storia dell";emigrazione italiana sarebbe stata scritta in un modo molto diverso.