Famiglia e lavoro, riconciliarli è possibile

Dovrebbero essere alleati, e invece troppo spesso famiglia e lavoro sono posizionati su fronti opposti. L’Incontro mondiale delle famiglie punta a disegnare un nuovo orizzonte di pacificazione, in nome del bene comune.
25 Gennaio 2012 | di

 «Oggi vi viene a prendere la nonna» rassicura un po’ di fretta Gianna rivolgendosi ai figli, mentre sistema la sciarpa alla grande e il berretto col pon pon al piccolo, si dà l’ultima spazzolata ai capelli e sale in auto, destinazione ufficio. Il cartellino da timbrare entro le otto la fa essere la prima a partire da casa. A distanza di pochi minuti tocca al resto della famiglia: il marito Paolo, commerciante, fa in tempo ad accompagnare i figli alle elementari prima di aprire il negozio. La mattinata lavorativa deve ancora cominciare, ma nel ruolino di marcia Gianna ha già accumulato un bel po’ di mestieri: dopo essersi data una sistemata in bagno, ha svegliato tutta la famiglia, vestito i bambini, preparato la colazione, lavato le tazze, riordinato i letti, controllato le cartelle dei figli, insistito perché si lavassero almeno faccia e denti, recitato una preghiera insieme, dato un parere sul colore della cravatta del marito, chiamato sua suocera perché vada a recuperare i nipoti all’uscita da scuola, dal momento che lei sarà impegnata in una riunione inderogabile. Timbrato il cartellino alle 7 e 57, si siede alla scrivania, accende il computer, apre l’agenda, e via con il solito tran tran.

Eugenio, invece, fa il pendolare tra la provincia di Bergamo, dove ha casa, e la prima periferia di Milano, dove lavora. Tra auto, treno e metro, impiega 2 ore e mezzo al giorno all’andata, altrettante al ritorno. Significa partire mentre i ragazzi – 11, 14 e 16 anni – stanno ancora dormendo, sfiorando con un bacio la moglie assonnata e correre via, per rientrare giusto all’ora di cena, sempre che non ci siano intoppi. Partenza al buio, ritorno al buio. Intanto i figli crescono e in questo periodo, alle prese con l’adolescenza, Eugenio sa che avrebbero bisogno di passare un po’ più di tempo anche con lui, ma non è facile. E pure sua moglie avrebbe necessità di maggiore attenzione, per quanto non glielo faccia pesare. Rimangono le sere e la domenica. Del resto, bisogna pur guadagnare la pagnotta.

Gianna, Eugenio, e tanti come loro, sono «fortunati»: pur con qualche fatica, riescono a mettere insieme i tempi del lavoro e quelli della famiglia. Perché vivono entrambe le dimensioni e, in questo frangente storico, non è cosa da poco. C’è chi non ha famiglia, chi non ha lavoro, chi non ha entrambe. Ma gestire le esigenze dell’uno e dell’altro ambito di vita, nell’arco di una giornata che comprende solo 24 ore, è un equilibrismo che ha sempre bisogno di nuove invenzioni e che riguarda, con sfumature diverse, ogni nucleo familiare. Un invito a scandagliare in profondità questo tema viene dall’Incontro mondiale delle famiglie, in programma a Milano dal 30 maggio al 3 giugno: il titolo «La famiglia: il lavoro e la festa» è di per sé eloquente.
 
Chi concilia e chi fatica
Gli studiosi, alla questione che stiamo delineando, hanno assegnato la definizione di «conciliazione famiglia-lavoro». Lo stesso titolo compare sulla testata del nutrito report di cifre e tabelle riguardanti l’anno 2010, pubblicato dall’Istat il 28 dicembre scorso. Sfogliandolo, tuttavia, sorge qualche perplessità sulle scelte adottate. Si dice: sono oltre 15 milioni gli italiani che si prendono cura con regolarità di figli coabitanti minori di 15 anni, oppure di altri bambini, malati, disabili o anziani. Ma solo circa 10 milioni sono contemporaneamente occupati: in altre parole, non è assodato che chi ha responsabilità di cura lavori anche fuori casa. Ancora più in radice: non rientra nella statistica una famiglia senza figli né anziani cui badare, dove magari il marito lavora a Roma, per esempio, e la moglie a Reggio Calabria. È una famiglia con problemi di conciliazione, ma non per l’Istat. Più centrate altre conclusioni del report, che sottolineano la differenza di genere: come era prevedibile attendersi, l’esercito delle persone coinvolte in responsabilità di cura è al femminile, con 42 donne su cento impegnate in questa attività, contro 34 uomini.

A scanso di equivoci, merita qualche precisazione il «mestiere» del prendersi cura, quello che nell’immaginario associamo alla cosiddetta «casalinga». Intanto va sottolineata la sua rilevanza, che è sociale ma anche quantificabile in termini economici, visto che il lavoro di cura non retribuito corrisponde, secondo una stima europea, al 38 per cento circa del Pil, non esattamente poca cosa. Secondo rilievo: anche chi vive il suo lavoro in casa può gestire in maniera disequilibrata i tempi dedicati alle faccende domestiche e quelli riservati alla famiglia, come è il caso della casalinga troppo impegnata nel tenere l’abitazione in ordine, magari a discapito della relazione coi figli o col coniuge. La terza considerazione è ancora di mentalità. Solo in un’ottica lavoristica la scelta di non avere un’occupazione fuori casa è una «colpa». Poi, chiaro, bisogna vedere se la scelta è davvero libera o dettata dalla necessità. L’Istat sembra accreditare la seconda ipotesi quando, dati alla mano, afferma che «le responsabilità di cura limitano la partecipazione delle donne al lavoro». Così accade, ad esempio, che tra le madri di 25-54 anni, la quota di occupate sia pari al 55,5 per cento, mentre tra i padri raggiunge il 90,6. «Non meno importante – prosegue il report – l’associazione tra numero di figli e inattività: sono inattive il 36 per cento delle donne con un figlio, il 41,5 di quelle con due figli e il 62 delle donne con tre figli o più». Al di là di quel tecnico ma quasi offensivo «inattività» (provate a chiedere a una mamma di tre o più pargoli se si percepisce come «inattiva»), il quadro è roseo solo per la colorazione al femminile, non per la situazione generale. E anche i «lui» della coppia potrebbero fare qualcosa di più in casa.

Spiega Giovanna Rossi, ordinario di Sociologia della famiglia e di Sociologia delle politiche sociali all’Università Cattolica di Milano: «Le donne tuttora, a parità di condizioni, faticano a inserirsi in carriere equivalenti a quelle maschili e anche nelle famiglie giovani, che necessitano di un’entrata a doppio reddito, è quasi sempre la carriera femminile a risentire maggiormente delle responsabilità di cura. Tuttavia, il processo di decisione agito all’interno delle coppie è molto più condiviso di quanto si pensi; le priorità di carriera, in altri termini, sono giocate, discusse e valutate all’interno di una relazione familiare. In genere si marca l’individualismo come deriva vincente, ma non è poi così tanto vero».
In ogni caso vale quanto detto sopra: se, nel contesto familiare, per una qualche sopravvenuta ragione, si decide di rimanere a casa, è un conto; viceversa, se un colloquio di lavoro si interrompe non appena la donna dice di avere un figlio piccolo, è un altro paio di maniche. A parole, in tanti sono a favore della famiglia, nei fatti, molti meno.
 
Vorrei ma non posso
Siamo al capitolo dei desideri, che pure sono spesso rivelatori. Sempre l’Istat evidenzia che circa 3 lavoratori con figli su 10 (3 milioni e mezzo di persone) vorrebbero impegnare più tempo a casa, a discapito del lavoro. Pochi occupati vorrebbero più lavoro; la gran parte, infine, si ritiene soddisfatto dell’equilibrio raggiunto, appagamento che riguarda i due terzi degli uomini e il 61 per cento delle donne. Tra i non occupati, oltre un milione di persone sarebbe disposto a lavorare, se potesse ridurre il tempo impegnato nell’assistenza e nell’accudimento.

Diamo per assodato, in ogni caso, che molti vorrebbero passare più tempo con i propri cari. Che cosa impedisce loro di farlo? La risposta non può essere univoca, ma alcuni parametri sono evidenti. Intanto, sulla famiglia si investe socialmente troppo poco: appena l’1,4 per cento del Pil nel nostro Paese viene destinato a famiglia e maternità, contro il 2,1 della media europea e il 3,7 per cento record della Danimarca. Né aiutano misure come la liberalizzazione degli orari dei negozi, utili forse ai consumatori, molto meno agli esercenti e alle loro famiglie. Ha dichiarato al «Messaggero» monsignor Erminio De Scalzi, vescovo ausiliare di Milano: «La famiglia è un vero capitale umano, sociale, economico ed è il miglior ammortizzatore sociale delle tante inefficienze delle istituzioni, perché si fa carico della disoccupazione giovanile, degli anziani, delle persone con disabilità. Ciò nonostante, sulla famiglia non si è mai investito seriamente, non c’è mai stata una politica familiare degna di tale nome». Rincara la dose Stefano Zamagni, docente di Economia politica all’Università di Bologna e presidente dell’Agenzia per il terzo settore, che al Congresso eucaristico di Ancona di settembre ha affermato: «L’ultima direttiva dell’Unione europea è contro le famiglie. Sostiene che sono queste a doversi adattare alle esigenze delle imprese. L’opposto della sfida che la Chiesa lancerà a maggio, ovvero l’armonia possibile tra famiglia e lavoro. È un traguardo tecnicamente raggiungibile. In realtà si spacciano per politiche familiari leggi che incentivano il lavoro femminile, che è sacrosanto e va sostenuto, ma non a scapito della famiglia. Non si possono mettere le persone di fronte alla scelta di abbandonare uno dei due valori, disaggregando la famiglia o separandosi dal lavoro. Tutti meritano di provare la bellezza di contribuire alla creazione del Signore».
 
Il conflitto è moderno
In questo quadro, è pur vero che esistono casi lodevoli di ditte impegnate, nel più ampio contesto della responsabilità sociale d’impresa, nel venire incontro alle famiglie, ma purtroppo nel panorama italiano sono una sparuta minoranza, anche perché è lo stesso quadro legislativo che non aiuta. Strumenti come flessibilità oraria (che ha poco a che fare con la precarietà), congedi parentali, contratti part-time, asili nido aziendali e altro ancora sono sotto utilizzati. Precisa la professoressa Rossi: «Molte famiglie nutrono importanti aspettative nei confronti di misure strutturali/organizzative promosse e attuate all’interno delle realtà aziendali. La richiesta fondamentale delle persone (peraltro trasversale quanto al genere e alla posizione lavorativa ricoperta) non consiste dunque in servizi, ma prevalentemente in una maggiore flessibilità. Questo rilievo è di particolare interesse: l’introduzione della flessibilità in azienda rappresenta una scelta in grado di generare benefici superiori ai costi sia per l’azienda sia per i portatori di interessi», come dimostrano diversi studi.

Ciò nonostante, è più diffusa un’altra mentalità: si ritiene sia più comodo, efficace e redditizio tracciare un confine insormontabile tra famiglia e lavoro, considerando l’una distrazione per l’altro. Come si è arrivati a questo effetto è complicato da spiegare, ma di fatto l’aria che tira spinge ad annullare, a seconda delle situazioni, uno dei due poli della relazione. Questo dualismo obbligato è una difficoltà tutta moderna, sorta con la prima industrializzazione e andatasi aggravando negli ultimi decenni. Nella società rurale il problema non si poneva, perché il lavoro e la famiglia spesso si combinavano insieme, senza una separazione netta. E se anche una divaricazione c’era, aveva un’ancora di salvataggio dentro le mura domestiche in una precisa e codificata divisione dei ruoli per genere, che non ammetteva facili deroghe: al maschio-marito-padre il compito di rispondere ai bisogni di reddito, alla femmina-moglie-madre la cura della casa e della famiglia.
Oggi, lentamente, lo scenario sta mutando. Il declino del modello industrialistico, la globalizzazione e la crisi economica hanno sparigliato le carte. È anche vero, però, che sta cambiando la sensibilità comune, come sottolinea Pierpaolo Donati – ordinario di Sociologia della famiglia all’Università di Bologna e direttore dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia – in La cura della famiglia e il mondo del lavoro. Un Piano di politiche familiari (FrancoAngeli 2008): «Il conflitto diviene più acuto perché lo si vive in modo nuovo. Da un lato, la famiglia comincia a chiedersi se i sacrifici che le sono imposti dai tempi e dalle richieste del mondo del lavoro siano giusti. Dall’altro, le aziende si domandano se la vita familiare dei lavoratori sia per esse indifferente o meno». Su questa difficoltà dell’economia è molto chiara Monique Baujard, direttrice del Servizio nazionale famiglia e società dell’episcopato francese, nel suo Le famiglie, specchio della società comparso su «Il Regno» di gennaio: «La società non manda alcun segnale di riconoscimento per il tempo dedicato alla famiglia, che non è economicamente redditizio. È “redditizio” umanamente, ma la società non sa come dargli valore». Rendere visibile nell’orizzonte valoriale della nostra società tanto l’importanza della famiglia quanto quella del lavoro è la sfida che l’incontro delle famiglie di Milano lancia a ogni cristiano e a ogni persona.
 
 
Andrea Olivero
Il lavoro scomposto

Il mondo del lavoro è «scomposto». A sostenerlo sono state le Acli (Associazioni cristiane lavoratori italiani) nel loro quarantaquattresimo Incontro nazionale di studi, tenutosi a Castel Gandolfo lo scorso settembre. Cosa significa questo aggettivo applicato al lavoro lo spiega Andrea Olivero, presidente nazionale Acli e portavoce del Forum del Terzo Settore.
«Di per sé, il lavoro dovrebbe in qualche modo completare l’esistenza umana ed essere una componente armonica nello sviluppo della persona. Invece è scomposto perché purtroppo è divenuto sempre di più elemento di inciampo, strutturandosi in modo tale da rendere difficile la vita delle persone. La flessibilità porta troppe volte alla precarizzazione, ma è in crisi anche lo stesso significato del lavoro, che non dà identità, che viene ricercato solo per il reddito, che spesso non fornisce un sostentamento sufficiente per una vita dignitosa, per sé e per la propria famiglia. Questa situazione va superata da una ricomposizione che porti di nuovo al centro l’uomo».

Msa. Come il tema della conciliazione si inserisce in questo quadro?
Olivero. È un nodo cruciale. Negli ultimi anni c’è stato un progressivo slittamento del lavoro verso una dinamica che mette a dura prova la famiglia, fin dal suo strutturarsi: pensiamo a quanti giovani non riescono ad avere un lavoro stabile con un reddito sufficiente prima dei 35-40 anni, cosa che incide in maniera profonda sulla scelta familiare. Ma anche nel prosieguo della vita la precarietà porta a una complicata conciliazione dei tempi: questa fatica ricade sulla relazione con il coniuge e i figli, provocando una minore propensione alla natalità, altro grave problema italiano.

Quali le possibili soluzioni?
Abbiamo elaborato alcune proposte per rendere meno precario il lavoro. La flessibilità può esserci, ma non deve mai scendere oltre un livello che metta alla prova la vita di una persona. Noi prospettiamo, soprattutto per i giovani, un contratto di ingresso in prevalenza a tempo indeterminato che consenta sì nei primi anni anche una rescissione più semplice, ma che comunque inquadri il lavoratore in una prospettiva che garantisca qualche certezza.

Bisogna intervenire anche sul welfare?
Decisamente. Il nostro Paese è l’unico ad aver introdotto la flessibilità senza riformare gli ammortizzatori, che nella concezione risalgono al fordismo del secolo passato. Bisogna garantire una continuità di reddito per quei giovani lavoratori che si trovano con periodi di scopertura di lavoro, perché la flessibilità va retribuita. Vi è poi un altro elemento fondamentale: la costruzione di una rete di servizi di tipo universalistico di supporto alle famiglie. In Italia ci sono asili nido, scuole e assistenza domiciliare in misura molto più bassa rispetto a tutti gli altri Paesi che hanno modelli di mercato simili al nostro. Dobbiamo spostare l’investimento dalla spesa risarcitoria – quella degli assegni Inps per intenderci – a una costruzione di sistema autentico di servizi, come tra l’altro è stato più volte chiesto nelle Conferenze nazionali della famiglia.
Un ultimo elemento, infine, è quello del reddito, onde evitare lo scivolamento verso una progressiva povertà che rende sempre più difficile conciliare il lavoro con una buona vita. Insieme al Forum delle associazioni famigliari, abbiamo sviluppato modelli possibili che vanno dal quoziente al fattore famiglia: consentirebbero alle famiglie di avere un prelievo inferiore e di conseguenza una disponibilità di reddito maggiore per le attività di cura. Non si tratta di un privilegio, ma di riconoscere un servizio che è nell’interesse della collettività.

C’è invece chi ritiene che la conciliazione sia oggi un lusso, non un diritto.
Questo è un punto essenziale: l’interesse non è soltanto per chi ha famiglia o per le famiglie numerose, ma per tutti. Anche un single deve rendersi conto che, nella misura in cui si sostengono le famiglie con figli, lui sta garantendosi il suo futuro, perché il nostro modello di welfare si basa su un patto generazionale: se non si scommette sulle generazioni che verranno, non si ha nessuna certezza di avere garantite quelle tutele, dall’assistenza al reddito, che noi tutti vogliamo. C’è anche una logica contrattualistica che ci porta a questo, oltre che una serie di principi sanciti nella Costituzione italiana.
 
 
Antonello Vanni
La conciliazione vista da lui

 
I padri? Sono una grande risorsa, non troppo valorizzata nemmeno dagli stessi papà. Come è possibile? Tenta di spiegarlo Antonello Vanni, educatore e docente di lettere nel varesotto, autore di Padri presenti figli felici. Come essere padri migliori per crescere figli sereni (San Paolo 2011). Già il titolo dice molto: la foto scelta per la copertina poi fa il resto, con un bimbo che si avvinghia alla caviglia del papà mentre questi, in completo grigio e valigetta 24 ore, sta uscendo di casa diretto al lavoro. «Ero stanco – spiega l’autore – di vedere in giro tanti titoli dedicati alle conseguenze negative dell’assenza del padre. Io ho voluto studiare quali sono gli effetti positivi della presenza invece, cercando di capire molto in concreto quale possa essere uno stile educativo paterno».

Msa. In che modo la famiglia beneficia della presenza del papà?
Vanni. Intanto giova alla coppia. Dove è stata costruita una buona relazione tra i partner, i padri sono «più padri», ovvero sentono maggiormente la responsabilità verso i figli, e le madri sono «più madri»: una donna che si sente valorizzata e amata dal compagno diventa, giorno per giorno, una madre migliore. Il beneficio i figli lo hanno in modo indiretto: se la coppia funziona, se c’è sintonia, i figli ne traggono vantaggio in termini di serenità e di stabilità.

Le statistiche ci raccontano di papà lavoratori a tempo pieno che vorrebbero dedicare più tempo alla famiglia. Sta crescendo una sensibilità nuova?
È vero, qualcosa si sta muovendo. Un esempio è il congedo di paternità, una possibilità recente nel nostro ordinamento. Tuttavia la crisi economica non aiuta: chi ha un posto di lavoro, per paura di perderlo, tende a ridurre ancora il tempo per la famiglia.
D’altra parte è ipotizzabile che permanga un gran numero di padri che pensano di non doversi occupare di determinati argomenti, ad esempio legati all’educazione dei figli o alla cura della casa, perché ritenuti di competenza della sposa, come prima lo erano della loro madre…
Io ho voluto scrivere questo libro proprio per un pubblico maschile, perché sono convinto che sapere quanto importante sia la propria presenza di papà e di uomo può modificare questa situazione. Poi ci sono un sacco di pregiudizi, che nel libro elenco, per smontarli. Eccone alcuni: i padri non sono poi così importanti; non partecipano mai; sono violenti e pericolosi per i figli.

Come è stato accolto il suo messaggio?
Bene, in generale. Trovo qualche difficoltà in più con alcuni uomini di una certa età, che si pongono in atteggiamento difensivo, oppure rimandano sempre alla figura femminile. Sono corazze ideologiche dure da perforare. Un esempio? Quando parlo dell’aborto, affermo che la presenza del padre in quel momento è decisiva. C’è chi contesta questa verità dicendo che la donna ha fatto tanto per essere autonoma, e che quindi è un problema tutto femminile, è lei che deve gestirsi… Riuscire a parlare ai padri, comunque, non è facile. La presenza delle madri è importante: spesso sono loro che fanno da tramite. Anche se il mio vuole essere un pubblico maschile, è più facile che sia una donna a comprare questo libro e a metterlo sul comodino del marito.
 
 
Elisa Tumbiolo
La conciliazione vista da lei

 
È ironica, informale, vivace. Parliamo di Casalinga in carriera (Ares 2008), autobiografia della giornalista e mamma di quattro pargoli Elisa Tumbiolo, siciliana trapiantata a Roma, che si autodefinisce esperta nel passare «con regolare frequenza dalla scrivania all’asse da stiro». Evidentemente l’argomento della conciliazione ha bisogno anche della giusta dose di ironia per essere affrontato.

Msa. Come si combinano lavoro e famiglia dal punto di vista femminile?
Tumbiolo. Oggi in Italia si conciliano solo a costo di sforzi enormi da parte della donna e di sacrifici per l’intera famiglia. Chi svolge il doppio lavoro casa e ufficio, se ha figli, di fatto è una Wonder woman. Orari di lavoro e condizioni di avanzamento per far carriera sono tutti al maschile. Ma i tempi delle donne non sono quelli degli uomini. Non si può negare la maternità. Eppure una donna che vuole avere figli o una madre che lavora rimane penalizzata nel campo professionale. Per sopravvivere ai sensi di colpa, e nella ricerca continua di un equilibrio che non penalizzi la famiglia, le vengono richiesti grandi sforzi organizzativi e ottime capacità di delega. D’altra parte, l’organizzazione e la cura della casa sono di fondamentale importanza per la riuscita professionale e personale di una donna. Se si trascurano, ci saranno ripercussioni sul lavoro e sul piano delle relazioni, in primo luogo quelle con marito e figli. È un errore considerarlo un impegno di serie B, facilmente assolvibile e delegabile. Invece è lavoro professionale a tutti gli effetti, che richiede conoscenze, abilità, tecnica e una dose infinita di amore.

Le statistiche sottolineano che anche nel caso in cui una donna lavori, il carico famigliare (lavori domestici, cura dei figli, dei parenti malati o anziani…) non le viene tolto. Che cosa ne pensa?
È nella natura femminile, per indole e potenziali capacità, farsi carico delle persone in tutti gli aspetti. L’uomo non possiede la sensibilità e l’intuito femminile e inoltre non sa gestire più mansioni in contemporanea. Questo non vuol essere una scusante né significa che bisogna esonerare il proprio marito dalle incombenze domestiche, ma che è necessario educarlo in tal senso, responsabilizzarlo con garbo e in maniera graduale. La casa e la famiglia sono di tutti i membri che vi abitano e compongono il nucleo familiare. È un lavoro che, prima ancora, devono fare le madri coi figli maschi. Una donna che lavora deve per forza condividere il carico domestico con il proprio partner, sapendo però che lui può arrivare fino a un certo punto. Quello che insieme non possono coprire, infine, deve essere delegato a una persona di fiducia che aiuti in casa.

Cosa consiglierebbe a chi fatica a mettere insieme vita privata e professionale?
Difficile generalizzare. Ogni donna è un mondo a sé, anche se a ciascuna andrebbe riconosciuta la libertà di decidere se rimanere ad accudire i figli. Io sono fortunata: ho potuto scegliere di lasciare il lavoro come ufficio stampa – ora continuo a scrivere, ma da casa – quando ho capito che c’era più bisogno di me in famiglia che in ogni altro luogo. Alle donne con la difficoltà di conciliare suggerisco di prendersi un’ora di riflessione. Sedersi a pensare e porsi delle domande. Scrivere su un foglio quali sono le criticità della giornata e trovare soluzioni per porvi rimedio, coinvolgendo il partner nelle decisioni più importanti, ma anche per qualche consiglio che può rivelarsi illuminante.
 
 
Franco Giulio Brambilla
La festa dà senso al lavoro

 
Per prepararsi all’Incontro mondiale delle famiglie, la cosa migliore è leggere e meditare le dieci catechesi sul tema dell’evento, disponibili sul sito www.family2012.com. Coordinatore del gruppo di lavoro che ha steso i testi è il nuovo vescovo di Novara, monsignor Franco Giulio Brambilla, di cui è in uscita in febbraio il libro Tempo della festa e giorno del Signore (San Paolo).

Msa. La festa sembra aver perso la sua pregnanza, a favore di altre componenti, come il tempo libero, il semplice riposo, lo svago, lo shopping: come recuperarne il senso?
Brambilla. È vero, l’uomo d’oggi ha inventato il tempo libero, ma sembra aver dimenticato la festa. La domenica appare, anche per il credente con buone intenzioni, attratta nella sfera del «fine settimana» e il tempo del riposo è vissuto come un intervallo tra due fatiche. La stessa famiglia, soprattutto se ha figli adolescenti e giovani, fatica a trovare un momento domestico di serenità e vicinanza. La festa è vissuta più come un tempo «individuale» che come uno spazio «personale» e «sociale», che genera prossimità all’altro. Il tempo libero invece seleziona spazi, momenti e persone per costruire una pausa alternativa alla fatica quotidiana. In una società «fondata» sul lavoro e sulla produzione, il tempo della festa sembra vuoto, im-produttivo, in-utile. A una società del genere sta a cuore che il lavoratore si riposi o, se è giovane, che viva un momento di evasione. Il tempo libero può diventare così «mobile», senza essere un giorno «fisso», pronto ad adattarsi alle esigenze del lavoro e della sua organizzazione. La crisi della festa diventa allora una prova per l’uomo, una «crisi di senso». L’uomo non vive solo di pane (e dei suoi bisogni), ma di quella parola che dà senso al pane (e ai bisogni), perché li introduce nel regno della libertà e dell’amore. Per recuperare il senso della festa, allora, occorre partire da qui: dal fatto che l’uomo non è solo per il lavoro, la produzione, il consumo.

Mentre è convinzione comune che solo col tempo e con lo studio si apprende a lavorare, chiunque crede di non aver nulla da imparare sul saper fare festa. Qual è il significato cristiano della festa?
Gli antichi concepivano la festa come otium, dedicato alla vita contemplativa e alle arti liberali, che sviluppavano le qualità nobili dell’uomo capaci di dare senso alla vita e alle relazioni, mentre il lavoro era definito non-otium (negotium, negozio, scambio) e si caratterizzava per l’esercizio delle opere servili, produttive. La comprensione del lavoro in funzione della festa è quindi già antica e continua nella civiltà cristiana occidentale fino alla rivoluzione industriale, con l’avvento del «mondo totalitario del lavoro» (J. Pieper). A questo momento appartiene la rivalutazione del negotium come produzione, sviluppo, progresso e si passa alla considerazione negativa, decadente, passiva dell’otium. La stessa ripresa del tema della festa viene vista come gioco, rottura dalle maglie rigide della produzione.
Tutto questo contiene una sfida per ciascuno e per la Chiesa: perché il recupero della festa è una questione di senso e di coscienza per l’uomo. Non si realizza solo con un aumento di spazi e di tempi liberi, ma con una nuova qualità del rapporto col tempo che dà senso a ciò che accade. La vita come un dono è ciò che viene celebrato nel giorno della festa. Il debito originario nei confronti degli altri e dell’Altro è lo spazio che la festa abita per dare senso anche al lavoro delle mani dell’uomo.
Il dies Domini oggi deve diventare anche un dies hominis.

Come un corretto senso della festa può illuminare anche il mondo del lavoro?
I giorni feriali non stanno senza il giorno della festa: da essa ricevono il loro significato; allo stesso modo l’opera dell’uomo non sta senza il dono di Dio che la rende possibile.
La festa/domenica diventa figura della speranza cristiana, giorno del Risorto. Il tempo della festa è il tempo della gratuità, che dà senso al ritmo feriale: la domenica non è un giorno accanto agli altri, ma è il senso stesso dei giorni dell’uomo, è il «signore» dei giorni, l’attesa del tem

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017