FEDERALISMO O SECCESSIONE?

02 Settembre 1996 | di

Il secessionismo di Bossi, la rivolta fiscale degli imprenditori del Nordest, il federalismo dei sindaci piemontesi, le proteste del Sud, lo sfratto ai prefetti: sono questi i temi scottanti dell'Italia post-elettorale. Così il problema della riforma dello stato in senso federale si è imposto con virulenza.

Bossi sembra voler arrivare alla secessione, l";istituzione cioè di un altro stato, la «Padania», autonomo, sovrano e indipendente; ma non è innovatore neppure in questa sua rivolta contro lo stato gabelliere e ladrone, e forse neanche nelle illusioni di un domani migliore, perché l";una e le altre esistevano nell";indipendentismo siciliano di Finocchiaro (aprile del `€˜45) e, prima ancora, nel 1920, in quello del palermitano Lucio Tasca Bordonaro.
Umberto Bossi ha inventato la «Padania» che non esiste né etnicamente né storicamente, ma ha scoperto l";acqua calda delle due Italia. A dispetto delle sue intemperanze, il leader della Lega Nord dovrebbe sapere che la secessione non reca nessun vantaggio alla Padania: il trattato di Maastricht l";ha firmato l";Italia, non l";eventuale nuovo stato al quale "; anche se fosse riconosciuto dai partner dell";Unione europea "; rimarrebbe solo da mettersi in lista d";attesa per entrare in Europa. Bossi dovrebbe sapere che l";economia del Nord «tira» soprattutto per effetto dei mercati del Sud: i soli che funzionano da valvola di sicurezza quando le variazioni monetarie e le recessioni internazionali limitano l";esportazione; dovrebbe sapere soprattutto che lo stato italiano non si accollerebbe mai l";intero debito pubblico, e che la Padania non potrebbe mai rimborsare, in toto o in parte, la sua quota. O agisce in mala fede o è incapace di vedere al di là  del suo naso.

Malgrado la loro ribellione, gli imprenditori settentrionali non vogliono l";indipendenza (prova ne siano i risultati delle amministrative di giugno), ma uno stato più liberale, un fisco meno gravoso e meno complesso, servizi adeguati, meno demagogia e più concretezza insomma. La rivolta non è tanto contro i meridionali «parassiti» quanto contro lo stato «ladrone» che si serve della pressione fiscale per manifestare un";ideologia anti-imprenditoriale non ancora sopita, che ha ingigantito la burocrazia per tenere sotto controllo le iniziative private, che ha legato le mani, con obblighi e ispezioni i ceti più produttivi, che ha umiliato i singoli con la corruzione, che ha imposto lo statalismo, opprimente fino all";asfissia, e l";assistenzialismo che trasforma il cittadino in suddito ubbidiente e prono.

Ora Bossi, Miglio e i settentrionali guardano alla Svizzera che ha però una mentalità  improntata a un forte senso civico, e dove vige la democrazia diretta (ogni legge, prima di entrare in vigore, è suscettibile di referendum), ma dove tuttavia, per effetto dei tempi, sono stati modificati i rapporti tra stati cantonali e stato federale, sempre a scapito della sovraità  dei Cantoni. Oppure i «federalisti» s";ispirano agli Stati Uniti, che però non conoscono lo stato sociale. O alla Germania, che ha un forte senso della nazione e una costituzione che permette stabilità  governativa e pone limiti ai sindacati. Sotto questo profilo, la richiesta di federalismo, strillata a gran voce dopo il voto del 21 aprile, è antistorica, ma corrisponde a un bisogno nuovo di libertà , un";aspirazione non a «rattoppi» e palliativi, ma a soluzioni definitive che non possono prescindere da un cambiamento sostanziale del modo di intendere la politica e di gestire la cosa pubblica.
Ecco perché non convince il cosiddetto federalismo «solidale»: bisogna prima rivedere il concetto di «assistenzialismo» e sostituirlo con quello di «sussidiarietà Â»; ecco perché non basta il federalismo fiscale (riconoscimento del potere impositivo agli Enti locali, salvo una «quota» da devolvere all";erario centrale): se non si stabiliscono precedentemente e bene le competenze dell'uno e degli altri, c'è il rischio di una somma, non di una sottrazione delle tasse (l'Ici ce lo insegna); ecco perché insospettisce il federalismo delle autonomie regionali (ampliamento delle competenze locali e riduzione dei controlli statali): se non si smantella l";apparato burocratico, il centralismo slitta dallo stato alle regioni; ecco perché non soddisfa il federalismo delle macro-regioni: se non si supera prima il divario tra le due Italie, diventa più probabile la scissione, come è avvenuto tra la «povera» Repubblica Ceca e la ricca Slovacchia, o la produttiva Slovenia dalla statica Serbia; ma in fondo non va bene neanche il federalismo tout-court, quello che fa di ogni regione un piccolo stato, perché risveglia le rivendicazioni di chi opta per la tradizione comunale e condanna alla paralisi le regioni più piccole o geograficamente meno favorite.
E così si ritorna all";unità  preferita dai nostri padri. Anche perché, se si riporta la solidarietà  da privilegio permanente ad aiuto temporaneo ai bisognosi, se si smantella l";apparato burocratico e si forma una classe amministrativa competente, se si snellisce e riduce l";imposizione fiscale, se si definiscono nettamente le competenze, se si applica non solo formalmente ma anche sostanzialmente l";attuale costituzione, non abbiamo bisogno di creare uno stato federale per superare il divario tra le due Italie e riportare serenità  e benessere in Italia.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017