Federico Rampini. Uscire dalla crisi guardando a Oriente

La crisi economica è ormai una crisi di sistema, che ci costringe a riconsiderare il nostro modello di sviluppo. E l’Oriente in questa fase può insegnarci molto. Intervista a uno degli editorialisti più famosi de «la Repubblica».
25 Giugno 2010 | di

L’economia e la crisi viste dalla strada hanno tutto un altro sapore rispetto ai discorsi degli economisti e dei politici e alle reticenze poco rassicuranti dei Tg. Le affermazioni si rincorrono e sovente si contraddicono. Nel frattempo la disoccupazione continua a crescere, le fabbriche chiudono nel nostro Paese e vanno a produrre in Asia. Rimangono sul tappeto le domande che davvero ci interessano: abbiamo toccato il fondo o ci aspetta qualche altro amaro capitolo? Come uscire da questa crisi in modo dignitoso?

Federico Rampini, giornalista de «la Repubblica», ha tutti i numeri per rispondere a queste domande. Attualmente è corrispondente da New York, dopo esserlo stato per cinque anni da Pechino. Ha alle spalle la vicedirezione de «Il Sole 24 ore» e l’insegnamento in due prestigiose università (Berkeley e Shanghai). Conosce i mercati occidentali e quelli orientali, ma soprattutto ha scritto un libro, Slow economy (Mondadori, 2009), letteralmente «Economia lenta» che ha un sottotitolo significativo «Rinascere con saggezza» e un altrettanto interessante sommarietto: «Tutto quello che noi occidentali possiamo imparare dall’Oriente».

Msa. Rampini, scusi, già il termine «economia» vicino a «lento» suona strano, se poi il termine «lento» lo colleghiamo alle economie orientali, che sono velocissime, sembra addirittura un paradosso.

Rampini. Mi rendo conto del paradosso. In realtà i mie cinque anni in Oriente mi hanno mostrato che velocità e lentezza possono perfettamente convivere. Per esempio i cinesi, che sono un popolo con dei livelli di produttività eccezionali, hanno conservato l’abitudine di alzarsi all’alba e fare thai chi che è una disciplina quasi dell’immobilità, ancora più lenta dello yoga indiano. Altro distillato della loro saggezza è quello di non confondere mai la velocità con la fretta. La slow economy di cui parlo si riferisce soprattutto ai nostri Paesi. Sono convinto che essa sia l’orizzonte a cui dobbiamo abituarci nei prossimi anni. È una formula aperta, perché può voler dire «economia lenta» nel senso di un’economia senza crescita o può diventare un’opportunità se, all’interno di una crescita lenta, ci impadroniamo della lentezza intesa come ricerca della qualità, cambiamento delle nostre priorità e delle gerarchie di valori che hanno dominato l’economia in anni recenti. Ciò si traduce in maggiori investimenti nel benessere sociale, nella qualità civile delle nostre comunità, nell’istruzione. Solo così la slow economy è una prospettiva serena.

Ma economia lenta significa anche «decrescita», un ritorno al tenore di vita dei nostri nonni?


Sarà, ma in Italia la Cina fa paura.

È una paura comprensibile e non solo guardando alla crisi di alcuni settori industriali italiani, quali il tessile o il calzaturiero, colpiti pesantemente dalla concorrenza cinese. I fallimenti, i licenziamenti sono tragedie umane che non si possono ignorare. Ma allargando lo sguardo, in Asia si sta verificando un evento senza precedenti nella storia umana: un numero inimmaginabile di persone – 1 miliardo e 300 milioni i cinesi e 1 miliardo e 150 milioni gli indiani – sta facendo irruzione nell’economia globale. In Occidente questo processo è avvenuto in scala molto più ridotta e nell’arco di due o tre secoli. È normale che faccia paura. Nella paura naturalmente c’è anche una parte dell’egoismo dei detentori della supremazia, cioè la razza bianca, che ha dominato incontrastata negli ultimi tre secoli. Questa fase si sta per chiudere e il pendolo della storia sta tornando in Oriente, dove ha sostato in passato per un paio di millenni. La paura è legittima, dobbiamo accettarla, conviverci e al tempo stesso ragionare su come adattarci a cambiamenti che comunque non possiamo fermare.

Lei auspica una contamina­zione tra Oriente e Occidente, ma qual è la qualità degli orientali che può davvero esserci utile per uscire dalla crisi?

I miracoli economici asiatici – primo tra tutti quello del Giappone, che fu in qualche modo già pianificato all’inizio del ’900, poi quelli dei dragoni del Sud-Est asiatico, infine quelli della Cina, dell’India e del Vietnam – sono anche il risultato di una grande umiltà, apertura culturale e curiosità intellettuale di quei popoli. Essi hanno studiato l’Occidente, hanno cercato di capire che cosa potevano e dovevano imparare da noi, e, rielaborandolo, l’hanno poi introdotto nella loro civiltà. Io credo che, nella contaminazione, noi dobbiamo impadronirci di quella lezione di umiltà e diventare capaci di imparare. L’abitudine a essere i primi della classe può rendere pericolosamente provinciali e autoreferenziali. Sempre parlando di contaminazione positiva, sottolineerei poi l’attenzione che alcune civiltà asiatiche stanno dando alla ricerca di un equilibrio tra crescita materiale, centralità della persona, valori etici e spiritualità. Per esempio il Bhutan, piccolo Stato poverissimo appollaiato alle pendici dell’Himalaya, è all’avanguardia mondiale perché ha studiato un nuovo modo di concepire lo sviluppo, che ha attirato l’interesse anche del presidente francese Sarkozy. Il Bhutan, elaborando un nuovo indicatore, il Fil (Felicità interna lorda), come alternativa al Pil (Prodotto interno lordo), ci ha fatto capire che stavamo usando le cifre sbagliate e che questo errore ci ha portato a scegliere spesso strategie di sviluppo distruttive.

Sì, ma non è facile guardare a lungo raggio. Non si sa quando la crisi avrà fine e ora colpisce gli Stati.

Non era difficile immaginare questo epilogo. Abbiamo creduto di tappare la falla nel sistema bancario mondiale con costosissimi interventi di finanza pubblica e ora è arrivato il conto. I costi hanno scardinato gli equilibri di alcuni Stati particolarmente indebitati, che non riescono più a finanziarsi sul mercato e rischiano la bancarotta. Tuttavia non bisogna fare una lettura apocalittica di questo rischio perché, nella storia, gli Stati sono falliti molto più spesso di quanto si creda. L’Italia ebbe una sorta di fallimento mascherato sotto Mussolini. In epoche più recenti sono fallite la Russia e l’Argentina. Non sono eventi senza ritorno, anche se possono causare drammi sociali, quando a detenere i titoli sono i piccoli risparmiatori o i fondi pensione.

Tuttavia la slow economy va al di là dell’emergenza: dobbiamo costruire un futuro migliore per noi e per i nostri figli qui e ora, senza lasciarci fuorviare dalle palpitazioni convulse dei mercati finanziari.

Il guaio è che nel mondo del­l’economia molti segni di ravvedimento non si vedono.

In tutto l’Occidente ci sono delle caste, delle oligarchie: non è bastata una crisi per colpire il loro potere. Ci sono battaglie ancora aperte: riportare sotto controllo un sistema della finanza impazzito, ridurre gli spazi della speculazione, dare regole più severe al sistema bancario e quindi al tempo stesso renderlo meno rischioso. C’è da augurarsi che almeno i cittadini abbiano imparato a essere più vigili. Già negli Stati Uniti vedo segnali d’inversione di tendenza, la gerarchia dei valori sta cambiando.

Da dove ha origine la sua critica alla società dei consumi?

Nella mia vita ho attraversato varie fasi: sono stato un giovane cattolico impegnato; da adolescente, in Belgio, lavoravo a favore degli immigrati italiani. Ho avuto tra i miei primi educatori sacerdoti formidabili: già da quelle esperienze ho cominciato a capire che un certo modello di sviluppo capitalistico dovesse essere messo in discussione. Una volta in Italia, ho lavorato nel Partito comunista italiano di Enrico Berlinguer, grande pensatore dell’austerità. Credo anzi che il declino di popolarità del leader del Pci cominciò proprio quando iniziò a dire cose scomode per gli italiani, a parlare di questione morale e austerità. Sicuramente la mia esperienza di vita in Asia è stata importante; il Tibet, però, mi ha segnato particolarmente. I tibetani hanno una scala di valori molto speciale e una spiritualità straordinaria, nonostante la grande sofferenza causata dalla brutale oppressione della Cina. Dal Tibet ho guardato l’Occidente ed è stato inevitabile per me riflettere sulla nostra concezione della vita.


La scheda

Federico Rampini nasce a Genova nel 1956. Debutta nel giornalismo nel 1977, a «Città futura».Nel 1979 passa a «Rinascita», dove rimane fino al 1982. In seguito è prima vicedirettore de «Il Sole 24 Ore», quindi capo della redazione milanese e, successivamente, inviato del quotidiano«la Repubblica» a Parigi, Bruxelles e San Francisco. Nel 2004 si trasferisce a Pechino, per aprire,sempre per «la Repubblica», l’ufficio di corrispondenza. Ha insegnato alla Berkeley University in California e alla Shanghai University of Finance and Economics. Dal 2009 è tornato a fare l’inviato de «La Repubblica» negli Stati Uniti. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui: Le paure dell’America, (Longanesi, 2003); L’impero di Cindia. Cina, India e dintorni: la superpotenza asiatica da tre miliardi e mezzo di persone, (Mondadori,2006); Slow Economy. Rinascere con saggezza. Tutto quello che noi occidentali possiam oimparare dall’Oriente, (Mondadori, 2009).

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017