Fra Francesco dei malati

Da oltre vent’anni accompagna i confratelli indisposti verso la guarigione o fino al trapasso. Nell’infermeria del convento antoniano, di cui è responsabile, fra Stocco ripercorre soddisfazioni e curiosità di un «mestiere» faticoso ma edificante.
27 Febbraio 2012 | di

Lo ricordo, compagno di classe, ritto, in piedi, intento a declamare la bellica potenza di un «naviglio d’acciaio» – osannato dal D’Annunzio, in una pirotecnica ode navale, come «diritto veloce guizzante / bello come un’arme nuda / vivo palpitante» –, ma invincibilmente incagliato nei fondali della sua memoria, già ai primi versi. In breve, la scuola con i suoi affanni non gli si addiceva, per cui, accantonata la scienza dei libri, si è addentrato nella scienza del cuore e del servizio agli altri, uscendone laureato a pieni voti.


Fra Francesco Stocco, settantenne, padovano di Pieve di Curtarolo, è nel convento del Santo dal 1986, ma nel Santuario antoniano non svolge alcuna mansione. In Basilica va a pregare per i devoti che sostano fiduciosi alla Tomba del loro patrono. Ci va per le sue pratiche di pietà e per raccomandare la salute del «piccolo gregge» affidatogli dai superiori, e cioè di quei confratelli che – incappati in qualche malanno o giunti nella fase della vita in cui il vigore del corpo viene meno –, hanno bisogno di particolari cure. Lavoro delicato e non facile, il suo, iniziato sul campo e poi perfezionato con un corso in infermieristica all’ospedale di Treviso.

Avvezzo a farsi coinvolgere anche emotivamente nelle disavventure altrui, fra Stocco ne esce spesso provato, eppure sempre spiritualmente edificato, grazie alle testimonianze di fede e amore che i suoi assistiti condividono con lui nei momenti più aspri della loro vita.
 
Gli inizi sul campo
Tutto comincia alla fine degli anni Sessanta a Rivoltella del Garda, dove fra Francesco fa il portinaio nel seminario francescano. In comunità c’è padre Bernardino Rizzi, un geniale compositore che, fiaccato dagli acciacchi, sta scrivendo le ultime note sul variopinto spartito della sua vita. I superiori affidano il musicista a fra Francesco che, memore della materna tenerezza del «poverello di Assisi» verso i frati malati, si applica nel compito sino alla fine, con amore e dedizione. Il frate provinciale, padre Vitale Bommarco, spesso in visita al suo conterraneo padre Bernardino (entrambi sono originari dell’isola di Cherso), rimane colpito dalla diligenza di fra Stocco e lo invita a trasferirsi a Treviso, nel convento di san Francesco, dove alcuni confratelli malati necessitano di assistenza. Non c’è ancora la casa di convalescenza di San Pietro di Barbozza, sulle colline trevigiane, che oggi accoglie religiosi anziani e malati. Fra Francesco accetta, e a Treviso compie un altro passo avanti in quella che, dopo il corso da infermiere all’ospedale cittadino, diventa la sua strada.

Quella strada, dunque, nel 1986 lo porta al Santo: una comunità numerosa, con rilevante presenza di religiosi anziani. Ma i malanni, si sa, ignorano l’anagrafe, e così, quando qualcuno incappa in essi, tra i primi a esserne informato è proprio fra Francesco, che si mette subito in moto. Contatta i medici, prende gli appuntamenti, accompagna i confratelli alle visite, procura le medicine, collabora nelle terapie e, infine, in caso di ricovero in ospedale, tiene i rapporti con i sanitari e con i familiari del malato.
Dopo un po’, all’ospedale di Padova fra Francesco è una presenza familiare. Medici e sanitari imparano a conoscerlo e a stimarlo per la sua disponibilità, la simpatia, la semplicità orlata di frizzante buonumore. Quando lo vedono fendere con il saio nero il candido biancore di sale e corsie, in molti lo fermano: un saluto, una rapida informazione sulle condizioni dei «suoi» malati, una richiesta, sottovoce, da portare a loro nome sulla Tomba del Santo. I medici sono sempre gentili e disponibili, assicura fra Francesco. Anche gli specialisti più accreditati gli danno il numero del loro telefono personale e, quando la necessità impone di chiamarli, loro non si fanno pregare. Tanta cortese sollecitudine commuove sempre fra Francesco. «Non lo fanno certo per me, per la mia bella faccia – dice convinto, abbozzando un sorriso –, ma perché vedono in ogni frate malato il confratello di sant’Antonio. E il Santo, si sa, da queste parti conta qualcosa».
 
Mille storie di fede e coraggio
Restio a parlare di sé, fra Francesco custodisce nella mente e nel cuore mille avventure grondanti fede e coraggio. Sono vicende che compongono la più umana e meno narrata delle storie, il racconto di come si vivono e si affrontano gli affanni della malattia e della vecchiaia, e di come, confortati dalla fede e dalla speranza, ci si congeda dalla vita. I frati ricordano sempre l’esempio del loro Santo, Antonio, che ha chiuso gli occhi alla vita, dopo averli spalancati su un orizzonte sconfinato di luce, entro il quale gli è apparso Gesù: «Vedo il mio Signore» sono state le sue ultime rassicuranti parole.
Fatte le debite proporzioni, più di un religioso ha vissuto un simile momento. Fra Francesco, che è stato talvolta testimone di queste circostanze, ricorda il trapasso di padre Odorico Comisso, uno dei primi confratelli assistiti a Treviso. «Gli occhi fissi in un punto, sembrava assorto in una celeste visione. Io non posso esserne certo – spiega fra Stocco –, ma qualcosa di insolito è avvenuto in quegli istanti». Altro esempio analogo è la morte di padre Gabriele Floriani, per anni confessore in Basilica. Ricoverato in ospedale, il religioso affronta l’ultima fase della malattia «edificando tutti per la serenità francescana», recita un necrologio. Quando fra Francesco ritorna nella camera di padre Gabriele, dopo averlo visto serenamente spirare, trova l’infermiera, inginocchiata a fianco del letto e con le mani giunte in preghiera, che gli dice: «È morto un santo». «Mi sono commosso fino alle lacrime», ricorda.

Vivissimo, pur nel trascorrere del tempo, anche il ricordo di monsignor Raffaele Radossi, frate conventuale e arcivescovo di Spoleto, che fra Francesco assiste nei primi anni da infermiere. Originario di Cherso, il monsignore sta veleggiando serenamente, pur tra le nebbie della mente e i mancamenti del fisico, verso l’ultimo porto. Il progressivo decadimento mentale non gli fa mai perdere dignità, la sua ricchezza interiore continua a trasparire. Prima di congedarsi dal mondo, in un momento di lucidità, monsignor Radossi esprime con un chiaro «grazie» la sua riconoscenza a fra Francesco; e sembra consapevole quando, bisbigliando forse preghiere, chiude gli occhi, per riaprirli nella casa del Padre.
Fra Francesco sembra ora felice di raccontare. Evoca frati che anche noi abbiamo conosciuto e stimato, con cui abbiamo condiviso tratti più o meno lunghi di cammino, fratelli provati da lancinanti esperienze di malattia, che sono tornati serenamente nel grembo del Padre. Come padre Giacomo Panteghini – per vent’anni direttore del «Messaggero di sant’Antonio» –, che fra Stocco ha assistito, con diligenza e affetto, sino all’ultimo respiro. O come tanti altri frati ritratti nel momento della loro massima debolezza fisica, ma, al contempo, della loro massima forza umana e spirituale.
  

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017