Generosità in circolo

L’Italia è uno dei primi Paesi al mondo per numero di donatori e per trapianti eseguiti. Un successo reso possibile dalla nobile scelta di tanti cittadini, consapevoli che, grazie alla loro generosità, un’altra persona, condannata a morte, vivrà.
27 Gennaio 2009 | di
Nel 2008 si è tuttavia registrato un sensibile calo delle donazioni: nonostante questo fatto negativo, l’Italia resta salda al terzo posto in Europa, dopo Spagna e Francia, per numero di donatori e per trapianti eseguiti con successo. Dove per «successo» si deve intendere non tanto la riuscita dell’intervento dal punto di vista tecnico, quanto la sopravvivenza del paziente a distanza di anni dal trapianto. Alcuni dati lo dimostrano. Nel 91,4 per cento dei casi, le persone trapiantate di cuore lavorano o sono in condizioni di farlo; lo stesso dicasi per l’81,8 per cento dei trapiantati di fegato e il 92 per cento di quelli di rene. È una percentuale altissima di pieno inserimento nella normale attività sociale.
In Italia è il Centro nazionale trapianti (Cnt) a sovrintendere tutta l’attività, dal coordinamento delle liste d’attesa alla formazione del personale medico, chiamato a favorire e promuovere la cultura delle donazioni specie nei reparti di rianimazione.
Da questa fonte privilegiata arrivano informazioni lusinghiere, che dicono del passo avanti fatto dal nostro Paese: in dieci anni, dal 1997 al 2007, si è passati da 2.147 trapianti di organi a 2.920, con il picco più alto – 3.217 trapianti – nel 2004. Sono positivi anche i dati che si riferiscono ai tempi in lista d’attesa, sebbene più lunghi rispetto a quelli spagnoli e francesi. Secondo il Sistema informativo trapianti riferito al 2006, per il rene in media bisognava aspettare 3,03 anni mentre la mortalità in lista era dell’1,25 per cento; per il fegato 1,84 anni (mortalità 5,59 per cento); per il cuore 2,33 anni (mortalità 9,91 per cento).
 
Più richieste che donazioni

Tutte queste cifre dicono fondamentalmente una cosa: il trapianto è possibile ed è una realtà in Italia. Anche il Sud, pur segnando il passo in alcune regioni in termini di donatori, ha fatto balzi in avanti. Napoli, ad esempio, da zero donatori di vent’anni fa è passata a dodici per milione di abitanti, quando la media nazionale è venti.
Proprio nel capoluogo campano opera il dottor Fulvio Calise, responsabile del reparto di Chirurgia epatobiliare e trapianti di fegato dell’ospedale «Antonio Cardarelli», che ha fatto proprio un motto dei trapiantologi spagnoli: «Non portare i tuoi organi in cielo!». Calise alterna il bisturi con ogni strumento buono per diffondere la cultura della donazione. «A Napoli nel 2008 – spiega – abbiamo effettuato 42 trapianti di fegato contro i 57 dell’anno precedente, proprio perché le donazioni sono diminuite. Per questo dico sempre che ogni donazione mancata è un omicidio colposo, anzi più di uno, poiché una persona che la medicina non ha potuto salvare potrebbe mettere a disposizione più di un organo e salvare altra gente».
A Roma il professor Salvatore Agnes, direttore di Chirurgia sostitutiva dell’ospedale della Cattolica «Agostino Gemelli», traduce la soddisfazione che si può leggere nelle cifre offerte dal Cnt: «I trapianti hanno raggiunto livelli di eccellenza notevole. La qualità della prestazione e i risultati per il paziente erano inimmaginabili fino a qualche anno fa, in particolare nei trapianti del fegato e del cuore che sono salvavita, e anche in quelli del rene che, pur non essendo salvavita, modificano la qualità della vita, e di molto. Il problema – aggiunge – è un altro. Essendo grande il successo dei trapianti ed essendo stata estesa la possibilità di trapiantare anche in situazioni che prima non lo prevedevano, ad esempio oltre i sessantacinque anni di età, oppure in presenza di patologie che precedentemente lo escludevano, è parecchio aumentata la domanda, a fronte di un’offerta inferiore di donatori: il numero degli organi disponibili non è sufficiente per far fronte a tutte le richieste».
 
No alla cattiva informazione

Perché questa carenza di organi? Come mai il numero delle donazioni è calato, sebbene di poco? Le spiegazioni sono tante: c’entra anche la responsabilità di una cattiva informazione che, spesso, crea confusione tra coma e morte cerebrale, quel coma irreversibile, cioè, che è la premessa essenziale per il trapianto. Il coma irreversibile, seguendo un protocollo internazionale accolto dalla società medica, è regolato in Italia dalla legge 578 del 1993. La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni del cervello a seguito di un arresto della circolazione sanguigna – con elettroencefalogramma piatto per non meno di venti minuti – o di una grave lesione che ha danneggiato irreparabilmente il cervello. In questi casi devono essere presenti anche: stato di incoscienza, assenza dei riflessi del tronco e del respiro spontaneo e silenzio elettrico cerebrale.
È un collegio di medici esperti (un anestesista, un neurofisiopatologo e un medico legale) ad accertare la morte del paziente dopo un periodo di osservazione di sei ore, che diventano dodici per i bambini di età compresa tra uno e cinque anni, e ventiquattro nei bambini di età inferiore a un anno. Una volta verificata la morte, un medico coordinatore del prelievo riscontra se esiste un’espressa volontà del soggetto a donare i propri organi e, in mancanza di questo documento, propone tale possibilità ai familiari della persona deceduta.
«Il livello delle donazioni – dice in proposito Salvatore Agnes – è legato alla qualità del servizio sanitario. Strutture che hanno il problema del “pane quotidiano” evidentemente non possono destinare risorse, sia in termini di personale che di apparecchiature, per operare trapianti».
È poi opinione diffusa che la disponibilità a donare gli organi sia maggiore in quei reparti di rianimazione dove i familiari della persona defunta hanno potuto appurare che il proprio caro ha avuto la massima assistenza possibile, e che nella degenza tutto è stato sempre trasparente.
 
Assistenza psicologica

Lo conferma il dottor Giorgio Lovera, responsabile del Servizio di psicologia medica per i trapianti delle «Molinette» di Torino. Un medico che ha il compito di occuparsi dell’assistenza psicologica di chi si sottopone a un trapianto, ma anche dei familiari di chi ha donato e del personale sanitario che, di fatto, realizza i trapianti. «Se le cose – dice Lovera – vanno sufficientemente bene nelle rianimazioni (che non significa essere perfetti, ma solo non commettere grossolani errori legati magari a frettolosità o al non saper rispondere in modo adeguato alle domande dei familiari) e si è in grado di instaurare una buona relazione con la famiglia, ci sono ottime premesse perché la donazione possa avvenire». Quando questo succede, quando cioè il medico non si è «rinchiuso nel suo camice», allora i familiari donano. La stessa generosità e la consapevolezza che un’altra persona viva grazie al loro caro attenua il dolore.
Il dottor Lovera definisce il trapianto come un passaggio attraverso una barriera corallina: «È una fase a rischio, da cui non si torna indietro. Se hai la fortuna di non incappare negli scogli, hai davanti il mare ancora da navigare. Di fronte a questa prospettiva, ho trovato poche persone che abbiano rifiutato il trapianto, benché all’inizio non accettassero l’idea di avere nel proprio corpo un organo di un altro». Per molti è un vero dramma apprendere che il proprio cuore o il fegato o i reni saranno sostituiti. «In questa fase – sottolinea Lovera – aleggia il fantasma della morte, ma dopo lo spavento iniziale si accetta il rischio. Il nostro lavoro non è tanto un intervento psicologico di valutazione, accertare cioè se una persona può sottoporsi o meno al trapianto, quanto un accompagnamento psicologico del paziente e dei familiari che gli stanno vicino, anche dopo l’intervento».
 
I timori del trapiantato

È forse il trapianto di cuore quello che crea più ansia nell’ammalato. Una situazione che si può spiegare in vari modi: «C’è grande apprensione sia prima che dopo il trapianto – spiega lo psicologo torinese –. Quelli che vanno incontro a questo intervento spesso fanno testamento. Il cuore allerta di più perché è percepito come l’organo della vita, quasi come se lo fosse più degli altri. Lo senti nel petto e ti accorgi che sta cedendo. Poi, all’uscita dall’anestesia, una seconda ansia viene dalla sensazione estrema di sentirsi vivi. Si piange, ma di felicità e di gioia».
Condivide questo parere il professor Francesco Musumeci, primario dell’Unità operativa di cardiologia e centro trapianti dell’ospedale «San Camillo» di Roma. «Il cuore viene identificato con la vita, ma la paura nasce anche dalla consapevolezza che, una volta trapiantato l’organo, indietro non si torna. Stesso discorso per il fegato. Non è, insomma, come per il trapianto di reni che, se dovesse andar male, consente sempre di ritornare alla dialisi». Nell’ospedale romano, il professor Musumeci è pionere di un’alternativa al trapianto d’organo, proprio perché un cuore non è sempre disponibile e spesso si corre il rischio che il paziente vada incontro a un rapido peggioramento fino alla morte. A Roma ha trapiantato un cuore totalmente artificiale a un giovane di 38 anni. È il secondo caso in Italia. «Esistono − spiega a riguardo Musumeci − sistemi di assistenza ventricolare: pompe meccaniche che consentono di sostituire la funzione del ventricolo e possono mettere il paziente in condizione di aspettare il trapianto di un organo vero e proprio. È un intervento provvisorio, naturalmente, che però salva la vita. Il paziente può tornare a casa e aspettare in tutta tranquillità un vero cuore». Esattamente quello che sta facendo questo giovane trentottenne. Conta i giorni aspettando una telefonata che dica: «Venga, qualcuno, pur nel suo immenso dolore, ha voluto che il cuore del proprio congiunto non andasse “inutilmente” in paradiso».  
 
i numeri
2.674 i trapianti in Italia nel 2008;
3.217 i trapianti in Italia nel 2004, anno record;
il posto dell’Italia nella classifica europea delle donazioni, dietro Spagna e Francia;
10.386 le persone che sono in lista d’attesa;
85.877 i cittadini che hanno registrato presso le Asl il loro consenso alla donazione;
91,4% la percentuale dei trapiantati di cuore che lavorano o sono in condizioni di farlo;
3,03 gli anni di attesa per un rene;
1,84 gli anni di attesa per un fegato;
2,33 gli anni di attesa per un cuore.
 
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Come diventare donatori
Sulle donazioni l’Italia ha una bella legge che non è entrata mai in vigore. È la norma all’articolo 4 della legge 91/99 che introduce il principio del silenzio-assenso. In pratica, si chiede a ogni cittadino maggiorenne di dichiarare la propria volontà sulla donazione dei propri organi e tessuti e lo si informa che la mancata dichiarazione di volontà è considerata come un assenso alla donazione. Tuttavia la manifestazione di volontà ora è regolata dall’articolo 23 della stessa legge, che introduce il principio del consenso o del dissenso esplicito, esprimendo la propria volontà in merito alla donazione dei propri organi. Compiendo la scelta si è certi che la propria volontà non sarà violata dalle decisioni altrui, sia nel caso di una dichiarazione favorevole che sfavorevole alla donazione. Ci sono diversi modi per esprimere la volontà di donare. Si può compilare il tesserino blu del ministero della Salute, che va conservato insieme ai documenti personali. La registrazione della propria volontà di donare può poi essere fatta presso la Asl di riferimento o presso il proprio medico. Più semplicemente, il cittadino può portare con sé una dichiarazione scritta che è valida se contiene, oltre alle generalità, la dichiarazione di volontà anche negativa, la data e la firma. Infine è possibile rilasciare una dichiarazione all’Aido, l’Associazione italiana donatori di organi (nella foto il logo di una loro campagna) o ad altra associazione del settore che provvede a inserirla in una banca dati nazionale.
Il Centro nazionale trapianti sottolinea che non dare consenso alla donazione degli organi di un proprio familiare che non ha espresso la propria volontà in merito non comporta un prolungamento delle cure intensive, perché se è stata accertata la morte encefalica, non resta più nulla da fare e gli organi non donati sarebbero sprecati.
 
 
La testimonianza
Io, trapiantato di fegato
 
«Il vero protagonista di un trapianto è innanzitutto chi ha donato l’organo, la persona di cui non so nulla e che vorrei incontrare lassù per dirgli veramente grazie».
 
Quando sentii pronunciare la parola trapianto, lo ammetto, vacillai. Mi parve enorme, ben al di là della mia comprensione. Ebbi un tonfo, anche se il medico fu estremamente rassicurante. Il trapianto sarebbe stata la vera soluzione al male che mi portavo dentro da diversi anni: un’epatite da virus B che si era trasformata in cirrosi e aveva prodotto un tumore. «Trapianto del fegato? Com’è possibile?» mi ripetevo: era come se si fosse parata davanti a me una barriera enorme, un costone di montagna che a mani nude non avrei mai potuto scavalcare.
Sarei entrato in una lista d’attesa; avrei aspettato con angoscia vivendo i miei giorni futuri chiedendomi quando mi avrebbero chiamato; sarei sobbalzato a ogni squillo del telefono, temendo e sperando allo stesso tempo: «Ci siamo! Sono loro!». Invece decisi di cambiare strategia. Mi ripromisi di non arrovellarmi, di non macerarmi nell’angoscia e nella paura. Decisi di fare il possibile per non pensarci. Sapevo soltanto una cosa: il medico che mi avrebbe trapiantato, Mauro Salizzoni (nella foto) delle «Molinette» di Torino, era ed è considerato un mago. Mi sentivo in buone mani. La nostra mente, quella cioè di chi non è esperto di medicina, non corre veloce come corre la scienza. Abbiamo – o, almeno, io avevo – un concetto di cura fermo da alcuni decenni, quando guarire consisteva nel prendere un farmaco, fare un’iniezione o ingerire qualche pillola, e quando la stessa chirurgia si limitava ad asportare un pezzo malato. Ma il trapianto! L’idea che mi avrebbero tolto il fegato, per sostituirlo con quello di un altro, mi annichiliva.
 
Ricordo il professor Salizzoni quella mattina alle «Molinette». Guardò gli ultimi esiti della tac, bofonchiò qualcosa che non capii, poi disse in modo più chiaro: «Bene, bene. Facciamo un bel trapianto e sistemiamo la cosa». Accennai a un mezzo sorriso, poi, sbigottito, guardai mia moglie che in questi anni di malattia mi è sempre stata vicina. Anche lei celò a fatica lo stupore. Quando uscimmo commentai: «Ma hai sentito con che naturalezza ha parlato di trapianto? Fosse stato un dentista sarebbe stato più drammatico nel dirmi che mi avrebbe cavato un molare». Quindi pensai tra me: «Quello lì o è un pazzo, oppure…». E in quel preciso momento capii. Il trapianto oggi non è un’enormità: è una cura, forse un po’ più complicata del prendere una medicina, ma resta una cura. E allora mi rasserenai: io sono qui, chiamatemi quando volete, quando è possibile. Ho atteso così, senza eccessivi patemi d’animo, quel momento. Mi trasferii a Torino e, per non pensare all’«ora X», continuai nel mio lavoro di giornalista, raggiungendo ogni mattina la redazione milanese dell’«Avvenire». Avevo fatto i conti: se mi avessero chiamato, in qualsiasi momento, in poco più di due ore sarei stato alle «Molinette», pronto per la cura. E il giorno venne. Mi chiamarono ed entrai nella sala operatoria certo di uscirne vivo.
 
È sempre difficile raccontare queste cose (benché raccontare sia il mio mestiere) non perché l’argomento sia difficile, intimo e personale, ma perché chi scrive potrebbe passare per il protagonista. In questa storia, se i protagonisti fossero indicati in ordine di importanza, credo che starei alla fine. Perché il vero protagonista di un trapianto è innanzitutto chi ha donato l’organo, questa persona di cui non so nulla e che vorrei incontrare lassù per dirgli veramente grazie. Una riconoscenza, diciamo così, «rimandata». Gli dirò grazie non ora, non adesso, non con le parole che utilizziamo qui. Poi vengono i medici e gli infermieri. In una parola, la medicina. E veri protagonisti sono anche quelli che ti sono stati vicini nella malattia e nell’attesa. Sono i tuoi familiari, gli amici, i colleghi di lavoro. Quelli che non sono stati sempre bravi a nascondere la preoccupazione, ma che adesso sono felici, almeno quanto lo sei tu.
Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017