Genio italico in cambio di investimenti

Forum con Gianni Riotta, vicedirettore del Corriere della Sera e Maurizio Molinari corrispondente de La Stampa dagli Usa.
17 Maggio 2006 | di

NEW YORK

Bettero. Il peso politico degli ita-liani all’estero ha subito un’impennata inattesa dopo l’esito delle elezioni politiche in Italia. Ora che cosa succederà?
Riotta.
Credo che dove ci sono, i problemi verranno affrontati visto che l’esile maggioranza di governo è affidata proprio agli italiani all’estero. Però dobbiamo essere più realistici perchè i problemi degli italiani all’estero dipendono al 99% dai Paesi in cui essi vivono, non dall’Italia; e quindi sarà molto difficile che l’Italia possa davvero risolverglieli. Personalmente, devo dire che ero contrario alla legge sul voto in loco per gli italiani nel mondo. Sono iscritto all’Aire da oltre vent’anni, e quindi sono un vecchio italiano all’estero. Secondo me bisognava fare una legge che permettesse sì agli italiani di votare dall’estero, ma a due condizioni. La prima: avere contatti con l’Italia; lavorarci, venirci, esserci stati negli ultimi anni. La seconda: votare, come fanno gli americani, per i candidati dell’ultimo comune di residenza e non per bizzarre circoscrizioni che comprendono anche l’Antartide o tre continenti, né per candidati spesso improvvisati o di nessuna esperienza politica. La legge va riformata. E, soprattutto, bisogna permettere di votare anche agli italiani che vivono in un certo momento all’estero ma che non sono permanentemente residenti all’estero; come un italiano qualunque che non si trova in Italia nel giorno delle elezioni: deve poter votare al consolato o per posta.
Molinari. Accanto alla vecchia emigrazione italiana, c’è una nuova emigrazione arrivata verso la fine degli anni Ottanta. A New York, per esempio, è composta da persone che vivono principalmente a Manhattan. Si tratta in gran parte di professionisti: medici, avvocati, brokers finanziari, ma anche studenti. Questi italiani di ultima generazione hanno alcune caratteristiche: sono costantemente in contatto con l’Italia grazie al computer e al telefono; hanno redditi medio-alti, pari a quelli degli americani; vanno spesso in Italia; protestano con Rai International perché non trasmette i programmi che invece vanno in onda in Italia. Insomma è una costola dell’Italia che ha votato e che oggi chiede al nuovo governo italiano di essere trattata come tale. Ciò significa che, ad esempio, se parliamo di temi economici, molti di quelli che sono qui a New York potrebbero dare un contributo reale all’economia italiana, ma dovrebbero essere messi in rete con il sistema economico italiano. La mia impressione è che la carenza di iniziative politiche su questo fronte dipenda dal fatto che molti dei nostri rappresentanti politici viaggiano poco, meno dei nostri elettori che si trovano all’estero.
Come hanno reagito stampa e opinione pubblica, negli Stati Uniti, dapprima di fronte all’incerto esito delle elezioni italiane, e poi all’affermazione del centrosinistra?
Riotta
. Come si reagisce sempre in un Paese libero e democratico: c’è chi si è dispiaciuto per la sconfitta di Berlusconi; c’è chi ha gioito per la vittoria di Prodi; e c’è chi, analiticamente, ha detto: «adesso bisogna vedere cosa succederà». Quindi, bando all’idea che gli Stati Uniti abbiano una centrale di comando.
Molinari. C’è stata un’attenzione inconsueta per elezioni che avvengono in un Paese straniero che non sia la Gran Bretagna. E questo è dovuto al risultato molto risicato che ha fatto evocare ai giornalisti americani quanto era avvenuto in Florida nel 2000, e in Ohio nel 2004. Questa similitudine ha fatto avanzare dei ragionamenti su come le moderne democrazie vedono ormai scontrarsi coalizioni molto simili che si giocano il risultato per un pugno di voti. Per quanto riguarda il giudizio su Prodi, ovviamente bisognerà aspettare le sue decisioni concrete. Gli Stati Uniti, come governo ma anche come humus nazionale, sono un Paese molto razionale e concreto, e poco ideologico. Ciò che conta non è il colore di un governo, ma quello che un governo fa. Ed è chiaro che oggi l’interesse nazionale degli Stati Uniti si misura con il metro della guerra al terrorismo.
Il viaggio di Berlusconi negli Stati Uniti alla vigilia delle elezioni politiche, sembrò una sorta di atto d’investitura dell’«imperatore» Bush al «vassallo» Berlusconi. L’Italia è ancora uno Stato «a sovranità limitata»?
Riotta
. Assolutamente no, perché Bush non è imperatore di niente. Non riesce neanche a riappacificare uno Stato che ha conquistato militarmente, come l’Iraq. Berlusconi è stato un alleato fedele di Bush, e quindi Bush ha cercato di dargli una mano offrendogli la grande passerella di Washington e del Congresso. E che non ci sia stata nessuna investitura, si vede dal fatto che Berlusconi non è stato rieletto.
Molinari. Quel viaggio avvenne su invito del Congresso e non della Casa Bianca. Era stato il deputato di New York, Vito Fossella, ad aver esteso l’invito sei mesi prima attraverso il presidente del Senato italiano, Marcello Pera. Poi la cosa è maturata a ridosso del periodo elettorale. Non ci fu una partecipazione diretta della Casa Bianca. Non a caso l’incontro tra Bush e Berlusconi ha rischiato perfino di slittare perché Bush stava partendo per l’Asia. Io non credo che l’Italia sia un Paese a sovranità limitata. Del resto la strategia americana nel XXI secolo è quella di avere alleati forti che crescono economicamente. Quanto più un alleato è solido, indipendente, valido, e politicamente vibrante, tanto più è utile alla strategia americana.
Gli investitori americani come vedono l’Italia?
Riotta. Male, e mica per gli articoli della stampa mondiale. Perché il Fondo monetario internazionale continua a dire che siamo un Paese in difficoltà e, quindi, finché non mettiamo a posto i nostri conti, ci saranno pochi investitori in Italia. Questa è la prima sfida di Prodi.
Molinari. L’Italia è il 14° Paese per investimenti privati americani all’estero. Ciò significa che gli operatori privati non si fidano del nostro Paese. Ritengono che investire in Italia sia difficile, complicato, e che sostanzialmente non produca profitto. La cosa è tanto più preoccupante se teniamo conto che le stesse analisi delle grandi banche d’affari americane individuano invece in Italia un notevole potenziale di crescita nei prossimi anni. Quali sono i motivi? Sicuramente la carenza di infrastrutture e la debolezza sul piano giuridico: molto spesso si sentono operatori americani dire che hanno dubbi sulle garanzie giuridiche dei loro investimenti e sulla tenuta dei contratti.
Se si verificasse un’escalation della tensione in Medio Oriente, si raffredderebbero i rapporti tra Washington e l’Italia?
Riotta. L’Europa non accetterà l’opzione di un attacco all’Iran. Per quanto riguarda Medio Oriente e Palestina, mi pare che Prodi abbia già detto che si allineerà alla posizione dell’Europa: niente contatti con Hamas finché non riconosce Israele. Quindi la pressione su Hamas continua. Non credo, insomma, che si arriverà ad una «guerra fredda» tra il governo Prodi e gli Stati Uniti. Anche perché, con le recenti dimissioni del consigliere politico Karl Rove, e del portavoce Scott McClellan, il presidente Bush ha avuto ben altre gatte da pelare che non Prodi, Bertinotti e Fassino.
Molinari. Al momento la partita si gioca alle Nazioni Unite: con una risoluzione si chiederà all’Iran di rinunciare al suo programma nucleare. Ipoteticamente potrebbe essere seguita da una seconda risoluzione con le sanzioni economiche all’Iran. È lì potrebbero esserci delle tensioni tra gli Stati Uniti e quei due Paesi del G8 che hanno più stretti rapporti economici con l’Iran, cioè Italia e Giappone. Poi c’è la Russia per via degli affari nell’ambito dell’industria militare. Probabilmente una soluzione possibile potrebbe essere da una parte quella di imporre sanzioni mirate alla leadership della Repubblica islamica dell’Iran, cioè il blocco dei visti per i leader che si recano all’estero; e dall’altra quella di sospendere ogni tipo di fornitura che possa giovare al programma nucleare iraniano. Senza un accordo in sede Onu, gli Stati Uniti potrebbero promuovere una coalizione dei volonterosi che unilateralmente concordi l’applicazione di sanzioni come avvenne a suo tempo in Iraq.
Che cosa piace di più dell’Italia negli Stati Uniti? Sempre arte, cucina, moda e Ferrari, oppure anche qualcos’altro?
Riotta.
Anche la cultura. Il cinema italiano, quando produce dei buoni film, piace. Poi i libri che sono stati tradotti negli Stati Uniti. Gli autori italiani sono molto presenti, accanto alla moda che fa parte della cultura. E la tecnologia.
Molinari. Sicuramente il design. L’idea che l’Italia sia la patria del bello è qualcosa di molto radicato tra gli americani. A questo bisogna aggiungere che cinque anni di governo Berlusconi hanno fatto entrare nelle case degli americani notizie e immagini di un’Italia come solido alleato politico degli Stati Uniti.
Torneranno a casa i cervelli italiani «fuggiti» negli Stati Uniti?
Riotta. Credo di no finché l’università italiana è lottizzata ed è in mano ai «baroni». Un amico mi raccontava un episodio molto divertente di un «barone» universitario che scrive sempre sui giornali a favore del libero mercato e della liberalizzazione delle professioni, e che poi all’università aveva lottizzato il suo istituto come tutti gli altri. I cervelli italiani non possono tornare finché l’università e la ricerca in Italia funzionano come oggi. Io non sarei neanche favorevole alla possibilità che tornassero in toto perché sarebbe molto più utile far lavorare all’estero i cervelli italiani come formazione per i nostri ricercatori. Lo Stato potrebbe dire agli Usa: «prendete ricercatori italiani, formateli, e io mi faccio carico delle spese».
Molinari. L’Italia non è in grado di offrire condizioni comparabili a quelle che esistono negli Stati Uniti. Basti pensare che nei laboratori di San Francisco, in California, ci sono dei ricercatori di Trieste, in campo medico, che hanno scelto di lasciare la loro città e di andare a San Francisco perché a Trieste, nel laboratorio omologo, non era stato fatto uno stanziamento di 15 mila euro per un macchinario. La soluzione potrebbe essere di metodo opposto: quella, cioè, di non aspettare un improbabile ritorno degli italiani, ma di sfruttare gli italiani nel posto in cui si trovano. Cioè fare l’outsourcing al contrario. A New York, a San Francisco e a Los Angeles ci sono centinaia di italiani fra i 25 e i 45 anni che sono integrati nella società americana, ma che sono italiani a tutti gli effetti e vogliono aiutare lo sviluppo dell’Italia. Allora bisogna pensare a politiche economiche capaci di utilizzare questi italiani come teste di ponte, sfruttando il loro know how per l’azienda Italia anche se si trovano all’estero.
Oggi di che cosa ha più bisogno l’Italia dagli Stati Uniti?
Riotta. Del modello americano di stabilità politica, della sua amicizia e degli investimenti. E di seguire un po’ gli Stati Uniti come esempio di Paese che si sa sempre rinnovare.
Molinari. L’Italia ha bisogno degli investimenti economici americani e della ricerca scientifica.
E gli Stati Uniti?
Riotta. Hanno bisogno che l’Italia non compia un voltafaccia troppo repentino in Iraq, e che continui a fare un po’ da ponte tra Stati Uniti ed Europa.
Molinari. Gli Stati Uniti hanno bisogno del genio italiano: una dote che viene largamente riconosciuta a chi proviene dal nostro Paese.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017