Giacomo Poretti. Una risata che fa...del bene

Gli artisti sono un po’ folli e un po’ bambini. I comici hanno una chiave di lettura della vita carica di gioia. Parola di Giacomo, artista e comico che, con Aldo e Giovanni, fa ridere tutta l’Italia.
29 Marzo 2011 | di

«Quando rifletto sul senso della vita, non posso fare a meno di pensare che siamo stati creati da un gesto d’amore di Dio il quale desidera per noi tutta la felicità possibile».
A pronunciare queste parole è Giacomo Poretti, attore dalla comicità intelligente e, a tratti, surreale. Per il pubblico, insieme con i colleghi Aldo e Giovanni, ha interpretato personaggi memorabili come il circense bulgaro, l’avvoltoio o il mitico signor Tafazzi.

Una lunga gavetta e poi il grande successo in teatro e al cinema con il film Tre uomini e una gamba. Nell’ultima prova cinematografica, La banda dei Babbi Natale, il trio interpreta una storia costruita con attenzione, dove la comicità è garbata ed è arricchita da un solido impianto narrativo che lascia lo spettatore felicemente sorpreso. Una vocazione alla comicità, quella di Giacomo Poretti, che si fa strada lentamente. Intorno agli anni Settanta, all’età di quindici anni, lascia la scuola per geometri per andare a fare l’operaio. In seguito si diploma come infermiere ed esercita la professione per ben undici anni passando anche per il reparto di oncologia. Contemporaneamente coltiva la sua passione per la recitazione; nel 1984 si iscrive all’Accademia teatrale e qualche anno più tardi incontra Aldo Baglio e Giovanni Storti con i quali inizierà un sodalizio che continua tutt’ora con grande successo. Poi, un incontro casuale durante una conferenza presso il Centro culturale San Fedele di Milano spalanca il cuore a una domanda profonda che per Giacomo si trasforma in una riscoperta della fede. Da allora, con la moglie Daniela, partecipa intensamente alle attività del San Fedele e ha una sua rubrica sulla rivista dei gesuiti «Popoli».

Ma l’incontro di Giacomo con Dio è arrivato quando era bambino ed è lui stesso a raccontarlo con una vena di umorismo: «In famiglia mi hanno insegnato a pregare sin da piccolo e io, allora, pensavo che Dio fosse come una mamma, un papà e un maresciallo dei carabinieri messi insieme e che le preghiere funzionavano di più se fatte con qualcuno anziché da soli. A cinque anni chiesi a Dio di farmi tornare dalla colonia dove mi mandavano d’estate, ma Lui non mi ascoltò, almeno così credetti! Verso gli undici avevo cambiato tipo di preghiere – o forse è meglio dire richieste – e gli domandavo di farmi diventare alto perché una vita sotto il metro e cinquanta per me non era immaginabile. Naturalmente non mi ascoltò, almeno così credetti! Poi smisi di pregare per anni, finché non accadde un fatto che mi segnò profondamente. Una grave malattia in pochi mesi portò una mia amica verso la fine. Volli pregare di nuovo Dio, ma non gli chiesi di restituirle la salute, piuttosto di sostituire la paura e l’angoscia di sentirsi sola con la possibilità di vivere gli ultimi momenti della sua vita serenamente. In quella situazione di profondo dolore, capii che il miracolo per il quale stavo pregando si era già realizzato. La mia amica, infatti, non era sola: c’eravamo noi amici e la sua famiglia. Compresi che insieme a Lui possiamo essere gli artefici di un miracolo. Bisogna però avere voglia di realizzarlo perché sono convinto che Dio desideri fare cose bellissime con noi».

Msa. Lei ci parla dunque di comunione dei santi, di libertà di appartenere a un disegno buono sulla nostra vita, che a volte non corrisponde a quello che noi abbiamo in mente (quando pregava per diventare più alto, per esempio). È una persona felice, signor Giacomo Poretti?
Poretti. È difficile dare una definizione di felicità che non sia banale, ma credo che quando nel Vangelo si dice che il Regno è tra noi, si intenda proprio che la promessa di quella felicità non è né lontana né irraggiungibile. La felicità può passare attraverso molte strade, spesso inaspettate o faticose, come sono a volte le relazioni con gli altri. C’è poi un momento della vita che manifesta al meglio la vera gioia ed è sicuramente quello dell’infanzia, ma la gioia si può coltivare e ritrovare anche nell’età adulta. Nel mio caso, per esempio, credo che la comicità sia stata il concretizzarsi di quella promessa di felicità.

Un grande scrittore francese dice che se non abbiamo mai visto un bambino che ride, non conosciamo la gioia. Quanto di questo spirito dell’infanzia deve rimanere in una persona che fa il suo mestiere?
Ne deve rimanere molto, ma non è qualcosa che decidi di avere o non avere. Mantenere lo spirito dell’infanzia per me ha significato utilizzare al meglio il talento che mi era stato dato. Gli artisti sono un po’ folli e un po’ bambini, vedono e raccontano la realtà con categorie diverse da quelle di un altro adulto: il loro sguardo è profondo, ma possiede una grande leggerezza. I comici hanno una chiave di lettura della vita che, per natura, è carica di gioia. Tutti dovrebbero coltivare questo aspetto del loro spirito.

E la fede?
Credo che Dio ci pensi dentro un progetto buono nel quale Lui ci racconta il suo amore attraverso una relazione paterna che in qualche modo ci mette anche in relazione con gli altri. La fede ci chiede di incarnare questa Relazione in azioni concrete. Se ci riusciamo, possiamo cambiare in meglio noi e le persone che ci stanno vicine senza cadere nel tranello dell’egoismo che, nel caso della coppia, finisce per indebolirla. Nel caso di relazioni ben più ampie il danno si moltiplica.
Mi viene da sorridere, per esempio, al pensiero di quanto sia difficile partecipare a una semplice assemblea condominiale!

Insieme con sua moglie Daniela, psicologa, collabora in modo attivo con il Centro culturale San Fedele. Come ha cominciato? Dieci anni fa mi fu chiesto di partecipare a un incontro su un nostro film appena uscito. Ci andai e incontrai Daniela (ci saremmo sposati un anno dopo). Il San Fedele ha avuto un importante ruolo nella relazione con mia moglie e l’ha arricchita. Lì entrambi abbiamo trovato una proposta di fede importante e ne abbiamo condiviso il percorso con pochi amici. Inoltre, quel luogo è stato per noi l’opportunità di operare in uno spazio della città dove si fa anche cultura. Mia moglie si occupa di un progetto con i giovani artisti. Io ho collaborato alla cura di una mostra di meditazioni sulla morte. È un ambiente in cui è possibile coltivare la propria fede; un luogo di confronto, di libertà e di rispetto delle opinioni di tutti: questo è importante, dato che viviamo in una società dove tutto è urlato. Siamo in un’epoca in cui vi è una crisi di credibilità della Chiesa; è perciò importante riflettere su come essa possa proporsi in termini di comunicazione. Il messaggio cristiano ci chiede di dare delle ragioni alla nostra fede e di domandarci come mai chi non crede o chi sarebbe interessato rimane lontano, visto che tutti noi abbiamo bisogno di assoluto.

I nostri giovani sembrano aver perso la capacità di sognare. Nella vita questo è un fattore fondamentale. Quanto ha sognato, signor Poretti?
Ho sognato molto e credo che lo facciano anche i ragazzi che apparentemente sembrano non sognare. Hanno dentro di loro un forte desiderio di felicità, ma stanno pagando gli errori della generazione che li ha preceduti. La mia generazione, infatti, in un certo senso ha fallito. Abbiamo ottenuto il benessere, ma siamo pieni di frustrazioni. Grazie alle nuove tecnologie il mondo ha subito una rivoluzione e ora si propone ai giovani come un grande supermercato di contenuti, ma non di relazioni. Il modo di fare notizia falsifica spesso i rapporti di base tra le persone. Allora, quando mi domando cosa conti davvero nella vita, al primo posto metto la volontà di entrare in relazione, il che significa, il più delle volte, attuare dentro di noi una vera e propria rivoluzione.

Abbiamo forse abbassato il livello dei sogni?
Nella società italiana abbiamo tutto, addirittura la libertà di fare tutto, ma non siamo liberi perché siamo assoggettati a un meccanismo che ci ha dato il benessere, ma non ci permette di fare una scelta. Sono crollate le grandi «narrazioni ideologiche» e ci sono nuovi sensi di appartenenza, molto più ordinari, come quello a una squadra di calcio o altro. Nei primi anni Settanta, nel nostro Paese si combatteva per condizioni di lavoro più umane, per un salario equo. Ora abbiamo tutto. Non c’è più la fame del pane, ma c’è ancora quella del cuore. Ricorderò sempre la frase che ci disse il prete che sposò me e Daniela e che in seguito battezzò nostro figlio: «Questo vostro progetto adesso è diventato un corpo. Ora deve diventare un’anima».        
 
La vita di Giacomo
Giacomo Poretti nasce il 26 aprile 1956 a Busto Garolfo, in provincia di Milano. Dopo aver conseguito svariati diplomi e praticato diversi mestieri, nel 1984 decide che la sua strada è il teatro e si iscrive all’Accademia teatrale di Busto Arsizio. In quegli anni recita in numerose pièce teatrali, alle quali si affiancano le prime apparizioni televisive. Nel 1991 incontra Aldo Baglio e Giovanni Storti e nasce il famoso trio. Li accomuna una visione vivace e semplice della comicità, fatta di un equilibrato ed efficace connubio tra l’immediatezza della battuta verbale e l’abilità mimica. Inizia per il gruppo un’intensa attività televisiva e radiofonica senza mai lasciare il teatro, dove il trio continua a riscuotere un grande successo. Nel 1997 il loro primo film, Tre uomini e una gamba, si rivela il caso cinematografico dell’anno e riceve importanti riconoscimenti tra cui il David di Donatello per la miglior Opera Prima. Seguono negli anni altre importanti produzioni. La banda dei Babbi Natale, film campione d’incassi a Natale 2010, è la loro ultima fatica.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017