Giovani in tempo di crisi
Non il calciatore, né il medico o l’astronauta. In tempo di crisi anche i sogni fanno i conti con la dura realtà. E così nei desiderata dei giovani italiani il lavoro – generico, anche a tempo determinato – è il primo oggetto del desiderio. Non potrebbe essere altrimenti, in un Paese dove, secondo l’Istat, un giovane su tre (29,2 per cento) è disoccupato. Tra di loro ci sono i Neet (Not in education, employment or training), quelli che non studiano, non lavorano e non seguono neanche un corso di formazione. Costituiscono, secondo la Banca d’Italia, una popolazione di 2 milioni e 200 mila persone tra i 15 e i 29 anni. Poi ci sono quelli che almeno ci provano, gli stagisti: lavorano, per pochi spiccioli o niente, per brevi periodi, presso aziende pubbliche o private sperando prima o poi in un’assunzione di qualche tipo. Secondo Unioncamere, nel 2010 solo 38 mila di loro, su 310 mila, hanno avuto un contratto, un 12,2 per cento contro la percentuale europea del 16 per cento.
Chi un lavoro lo trova percepisce un primo stipendio pari a quello che hanno avuto i suoi genitori molti anni addietro: «I salari di ingresso nel mercato del lavoro oggi in termini reali sono su livelli pari a quelli di alcuni decenni fa» ha dichiarato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. «I giovani che si affacciano sul mercato del lavoro sembrano esclusi dai benefici della crescita del reddito occorsa negli ultimi decenni».
Insomma è vero che il lavoro non è tutto, ma sicuramente se gli orizzonti del «futuribile» si restringono è ben difficile lasciare spazio ai sogni. Anche per questo è stato bene accolto il segnale di attenzione che il professor Mario Monti ha voluto lanciare appena ricevuto l’incarico di capo del Governo: tra le varie parti consultate per la formazione dell’esecutivo, infatti, ha chiesto di incontrare i rappresentanti del Forum nazionale dei giovani. Una prima assoluta. «Era una giornata convulsa, abbiamo atteso in anticamera un bel po’, ma quando Monti ci ha ricevuti, e si è scusato per il ritardo, gli abbiamo risposto: “Non si preoccupi, aspettiamo da una vita”».
Giuseppe Failla, 32 anni, segretario nazionale dei giovani delle Acli, è anche consigliere della piattaforma nata nel dicembre 2004, che raccoglie 82 sigle di organizzazioni giovanili italiane ed è riconosciuta dalla legge 311. Un organismo eterogeneo, trasversale, che va dalle organizzazioni giovanili di partito alle più importanti sigle sindacali, dalle aggregazioni ecclesiali al terzo settore, dalle associazioni studentesche alle diverse fedi religiose, dalle associazioni professionali a quelle di volontariato, per un totale di 4 milioni di iscritti tra le singole realtà. A Monti i giovani hanno presentato una nota su quelli che ritengono i punti fondamentali per il loro futuro. «La prima cosa di cui abbiamo parlato è il lavoro: non temiamo la flessibilità come prospettiva, ma chiediamo che sia a termine e che non diventi precarietà», dice Failla. In concreto, il Forum ha chiesto il rilancio dell’occupazione giovanile attraverso alcune misure: agevolazioni fiscali per le imprese che non assumono con contratti precari; misurabilità quantitativa dello strumento dello stage («sia sufficiente sapere che la Presidenza del Consiglio dei Ministri non ha mai nemmeno conteggiato quante persone svolgono stage nella Pubblica amministrazione»); servizio di orientamento allo studio omogeneo fra Nord e Sud Italia. «Il secondo capitolo che ci è sembrato fondamentale aprire è l’accesso al credito anche per giovani con contratti precari» spiega Failla.
Una richiesta chiave da vari punti di vista: per una possibilità di emancipazione dei giovani dalle famiglie di origine (cioè dando una mano ai tanti «bamboccioni forzati»); per sostenere politiche di aiuto a chi vuole mettere su famiglia; per finanziare lo start up di nuove aziende e quindi per favorire l’imprenditorialità giovanile. Il Forum ha inoltre chiesto la salvaguardia del fondo per il Servizio civile, minato dalle varie riforme fatte negli anni: «Nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia ci sembra importante fare una politica a favore del servizio civile per favorire la partecipazione giovanile». Il Forum, con grande senso di responsabilità, dice di essere disposto a farsi carico di ulteriori sacrifici ma a condizione che ci siano un progetto e una prospettiva lungimirante per il Paese: «No a ulteriori tagli e politiche estemporanee», sintetizza Giuseppe che, pur soddisfatto dell’incontro, spera che non si riduca a una vuota «passerella», ma che resti quel filo del dialogo promesso sulla scia dello slogan coniato dal premier: «Ciò che giova al Paese giova ai giovani».
La trasversalità del Forum ha inevitabilmente fatto emergere solo alcune questioni, lasciando nell’ombra o sul tavolo della discussione altre tematiche su cui non esiste una convergenza: basti pensare al tema della cittadinanza italiana per i ragazzi nati in Italia da famiglie straniere, sollevato ultimamente più volte dal presidente della Repubblica Napolitano e dal neoministro dell’Integrazione Andrea Riccardi. È la speranza di migliaia di ragazzi e di giovani che parlano perfettamente l’italiano declinato nei vari dialetti della Penisola: si sentono romani, napoletani e cittadini del nostro Paese a tutti gli effetti, frequentano le scuole italiane da quando sono nati, ma sono considerati stranieri in base alla legge dello ius sanguinis (secondo la quale è italiano chi nasce da genitori italiani, a prescindere dal luogo di nascita).
Una formazione qualificata
Se il lavoro è la prima «speranza» in un mondo di potenziali disoccupati, al secondo posto si colloca sicuramente il diritto a una formazione qualificata. «Negli ultimi anni l’università è stata solo vista come un capitolo di spesa, senza puntare alla qualità»: Alberto Ratti e Francesca Simeoni sono i due presidenti della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana). Ventiquattro anni entrambi, studi in economia a Milano lui, in filosofia a Padova lei, i due giovani sono reduci da un appuntamento tradizionale della Federazione, la Settimana dell’università: «Ancora una volta ci siamo detti che l’università è un luogo da abitare: gli anni dello studio universitario sono fondamentali nella costruzione della persona, sono il passaggio dalla vita di ragazzi a quella adulta», dice Alberto. «Al di là dell’oggetto, pensiamo che studiare sia importante perché aiuta a formare il pensiero, a concentrarsi, a capire, a ricercare. È una forma di carità, diceva papa Montini, perché è un modo con cui i giovani danno qualcosa alla società. In questi anni si formano le persone», aggiunge Francesca. Per questo motivo uno Stato che spende solo l’1,2 per cento del Pil per questo settore non investe nel suo futuro: «I soldi per lo studio sembrano un investimento a perdere, ma in realtà sono un sacrificio a buon rendere». Nonostante le difficoltà e la mancanza di soldi, tanti giovani continuano a investire nell’università facendo domanda di dottorato e cercando di portare avanti la ricerca in qualche modo. «Sostenere la ricerca, aprire un dialogo serio tra istituzioni e mondo universitario, garantire il diritto allo studio per tutti» sono i primi passi per ricominciare a parlare un linguaggio condiviso.
Lavoro e studio
I giovani intervistati hanno ben chiaro che lavoro e studio sono le due variabili principali su cui si gioca il futuro della loro generazione. Ma anche la stessa identità presente. Lo spiega in maniera molto suggestiva il sociologo Ambrogio Santambrogio, in un testo scritto per la rivista «Dialoghi», edita dall’Azione cattolica e dedicata proprio al rapporto tra le generazioni. «Oggi i giovani sono per lo più estromessi dalle collocazioni sociali che contano, vivono in una specie di limbo apparentemente sereno, nel quale viene loro negata la possibilità di pensare e di costruire un loro futuro. Essere giovani è una zavorra». Nella situazione attuale, dice Santambrogio, sono pressoché sparite le generazioni: gli anziani devono rimanere sempre giovani – sia perché così li vuole la società dell’apparire, sia perché sono ancora loro il principale fattore di cambiamento – e lo stesso destino sembra toccare ai giovani, che non devono diventare adulti. «I più giovani hanno la sensazione di essere esclusi dal mondo: rintanati dentro a processi formativi che formano sempre meno, incapaci di farsi un’immagine del loro futuro, giocano per lo più sulla difensiva. Pensano che al massimo potranno mantenere ciò che i loro genitori hanno conquistato. Se per i loro padri il lavoro poteva diventare un aspetto importante di autorealizzazione, per loro è solo un miraggio al quale sacrificare anche le proprie ambizioni e passioni».
Generazione limbo?
Generazione-limbo, giovani inchiodati al presente, che pongono domande alle istituzioni e anche alla Chiesa. È interessante che quest’anno il Papa abbia voluto intitolare il messaggio della Giornata della Pace del primo gennaio «Educare i giovani alla giustizia e alla pace». Sull’educazione puntano i lineamenti decennali della Conferenza episcopale italiana. E i giovani sono al centro di una lettera che il generale dei gesuiti, padre Adolfo Nicolás, ha inviato a tutti i superiori della Compagnia: «Dio ha molto a che fare con i giovani e la loro gioia» scrive il gesuita, che esorta a considerare l’attività tra i giovani una priorità su cui ripensare l’apostolato dei gesuiti in tutto il mondo.
«I giovani chiedono di essere aiutati a tirar fuori quello che sono, senza dover per forza essere perfetti. Uno dei compiti, per noi educatori, è far capire che Dio li incontra lì, anche nelle loro contraddizioni», dice padre Loris Piorar, responsabile nazionale del Movimento eucaristico giovanile. Padre Loris ha capito che per mantenersi in contatto con i giovani che incontrava in parrocchia, ai convegni e ai ritiri, doveva entrare in quei canali che oggi i ragazzi usano: «Imparare a stare con loro vuol dire partecipare lì dove sono. I social network, Facebook in particolare, sono importanti per mantenere le relazioni di un incontro che va poi rinnovato di persona». Ogni giorno, sul suo profilo, padre Loris posta una breve spiegazione al Vangelo, che viene usata da tanti ragazzi in giro per l’Italia come spunto per la preghiera. Piorar contesta l’immagine negativa che viene solitamente associata al mondo giovanile: «Sono ragazzi che vivono relazioni profonde piene di affetto e di voglia di comunità, cosa che in nuce è anche un desiderio di Chiesa. Sono attenti a chiedersi cosa possono fare di positivo per aiutare questo mondo. E a volte si sentono inadeguati o sopravvalutati. In questo vanno accompagnati, aiutati a prendere le decisioni secondo quanto sentono e gustano nel loro cuore, direbbe sant’Ignazio».
Un lavoro, quello di cui parla padre Loris, che le diverse aggregazioni ecclesiali, ognuna a suo modo e con il suo stile, vanno facendo accompagnando il cammino nella vita di migliaia di giovani e giovanissimi. Ma anche le esperienze «laiche», per esempio del terzo settore, non mancano. È originale, per esempio, il progetto «XXL: spazi larghi di protagonismo giovanile», realizzato dal Movimento di volontariato italiano (Movi), che in otto regioni ha coinvolto circa 1.200 giovani, tra i 15 e i 30 anni, nel corso dell’intero 2011. Le circa cinquanta iniziative realizzate avevano gli obiettivi di intercettare le voci dei giovani per avvicinarli al mondo del volontariato, della solidarietà e dell’impegno civile e di favorire il dialogo interculturale come forma privilegiata di esercizio della cittadinanza attiva. In Friuli, per intenderci, circa 300 studenti hanno partecipato a degli stage presso associazioni di volontariato e 100 hanno lavorato sui temi del carcere, delle dipendenze e delle economie sostenibili. Nel Lazio tra due scuole sono stati realizzati laboratori di cinema interculturale. In Calabria si è creata una web radio, e così via. L’iniziativa, spiega il presidente del Movi, Franco Bagnarol, è stata suggerita dall’Anno europeo del volontariato: «Saper attivare spazi inediti di partecipazione con i ragazzi e i giovani, costruendo inedite alleanze educative è una sfida centrale per il volontariato. È un modo per capire cosa sarà il volontariato di domani».
Le speranze della primavera
Uno degli esiti del progetto è stata la partecipazione di XXL al Meeting giovani del Mediterraneo, che si è tenuto a Cosenza a fine ottobre. In quell’occasione i giovani italiani si sono confrontati con coetanei provenienti dai Paesi che sono sulle altre rive di questo mare, oggi attraversati dai fermenti e dalle contraddizioni della cosiddetta primavera araba. «Drawing our future, disegnamo il nostro futuro. Spazi di partecipazione dei giovani nei cambiamenti sociali» è stato lo slogan del Meeting, che, attraverso laboratori e testimonianze, incontri sul territorio e momenti assembleari, ha spaziato dalla questione palestinese ai new media, dalla formazione politica alle culture discriminate, all’uguaglianza di genere. Partorendo, alla fine, proposte operative per mantenere in vita la rete di relazioni e riflessioni creata durante i giorni di Cosenza: stage formativi, giornali on line, scambi e gemellaggi. «Sono qui perché ora possiamo pensare a costruire il nostro futuro», ha dichiarato May, ingegnere libico, 30 anni, che in patria segue due Ong. «In passato nessuno poteva uscire dal Paese, né potevamo avere movimenti indipendenti. Oggi stiamo ricostruendo e tante Ong stanno lavorando per formare le persone». L’occasione del Meeting, dice la giovane donna libica, e le iniziative che da esso sono scaturite, sono tutte opportunità che i giovani della Libia, e di tutti quei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, vogliono cogliere. «Studiare, imparare a conoscere l’altro, acquisire gli strumenti e il metodo per il discernimento – sostiene Francesca della Fuci – sono un modo per costruire quella pace di cui parla Benedetto XVI nel suo messaggio». Sono le «speranze» della primavera giovane a ogni latitudine.
Il Censis
I giovani e la crisi
«La crisi si è abbattuta come una scure sui giovani (15-34 anni): tra il 2007 e il 2010 il numero degli occupati è diminuito di 980 mila unità e tra i soli italiani le perdite sono state pari a oltre 1.160.000 occupati», scrive il Censis nell’ultimo rapporto sulla situazione del Paese. «Investita in pieno dalla crisi, ma non esente da responsabilità proprie, la generazione degli under 30 sembra incapace di trovare dentro di sé la forza di reagire. La percentuale di giovani che decidono di restare fuori sia dal mondo del lavoro che da quello della formazione è in Italia più alta rispetto alla media europea: se da noi l’11,2 per cento dei giovani di età compresa tra 15 e 24 anni, e addirittura il 16,7 per cento di quelli tra i 25 e i 29 anni, non è interessato a lavorare o studiare, la media dei 27 Paesi dell’Ue è pari al 3,4 per cento e all’8,5 per cento. Di contro, risulta da noi decisamente più bassa la percentuale di quanti lavorano, pari al 20,5 per cento tra i 15-24enni (la media Ue è del 34,1 per cento) e al 58,8 per cento tra i 25-29enni (la media Ue è del 72,2 per cento)».
Intervista a Vincenza Pellegrino
Volontariato under 30
«Partecipano, ma con dinamiche diverse dal passato: per esempio non aderiscono alle associazioni storiche, ma preferiscono fondarne di nuove»: i giovani sono un pianeta intorno al quale Vincenza Pellegrino ha viaggiato a lungo. Sociologa (insegna a Parma per Sociologia dei Processi culturali e comunicativi e a Trieste a Sociologia della scienza), ha seguito per conto del Movimento di volontariato italiano (Movi) tutto il progetto «XXL: spazi larghi di protagonismo giovanile», dal quale è poi scaturito anche il Forum dei giovani del Mediterraneo, tenuto a fine ottobre a Cosenza.
Msa. Volontariato e cittadinanza: come si declinano oggi queste parole nel mondo giovanile?
Pellegrino. Vanno considerati vari elementi: i giovani sono educati in contesti emancipatori, dove ciascun individuo può e deve dire la sua, ed è quindi difficile per loro immaginarsi in forme di partecipazione gerarchiche, semplicemente ereditate o parte di un grande ingranaggio, come per esempio le grandi associazioni. Inoltre, la fine del lavoro stabile è anche la fine del tempo libero, chi è precario non percepisce più la dimensione del tempo «liberato». Il volontariato, poi, non è più visto come completamento della cittadinanza, ma come sua unica forma, il che rende più difficile un confronto intergenerazionale. Queste e altre dimensioni – attenzione al protagonismo, fine del tempo libero e fine del salario, sfiducia nelle istituzioni sino ad arrivare a forme potenziali di antagonismo – sfidano il vecchio modello di volontariato, sviluppatosi su altri presupposti.
Che proposta il «vecchio» volontariato può fare per attirare i giovani?
Bisogna concepire nuovamente il loro protagonismo, perché la partecipazione giovanile non può essere semplicemente alle attività storiche del volontariato. Riflettendo sul progetto XXL abbiamo tratto alcune conclusioni: un livello più semplice di partecipazione riguarda l’informazione attiva dei giovani circa il mondo esistente. Vale a dire condurre i ragazzi attraverso la realtà sociale utilizzando strumenti e forme della comunicazione che davvero permettano loro di sentire e interagire: insomma il «vecchio volontario» non racconta le attività del volontariato ma accompagna il giovane attraverso la città, le esperienze, le realtà sociali che conosce o può raggiungere in base alla sua esperienza. Il secondo livello individuato è quello dell’ascolto attivo: l’obiettivo non è tanto quello di indicare attività e realtà sociali, ma di scoprire quali sono quelle che i giovani identificano come problematiche o che vivono come positive. Il terzo livello, il più complesso, è quello della cittadinanza attiva, che non può essere che intergenerazionale. Questo livello significa lavorare per attività di co-progettazione applicate alla realtà sociale. Si tratta di individuare linguaggi attivi che trasformino davvero la cittadinanza, cioè che permettano, per esempio, di parlare dei problemi della realtà non in senso astratto, da esperti, ma in senso concreto, da concittadini che elaborano insieme. Per facilitare il protagonismo giovanile bisogna coltivare «spazio» per la loro azione: da un lato cedere loro lo spazio degli adulti (dentro e fuori le associazioni), dall’altro favorirli nella speranza di ottenere spazio da altri (fare in modo che vi siano strumenti per far udire più forte la loro voce, ecc.).
Attraverso le diverse iniziative che avete portato avanti con XXL, che tipo di conclusione avete tratto per il futuro?
Si è capito che la posta in gioco non è la partecipazione in sé. Coinvolgere i giovani significa immaginare in che modo la loro presenza potrà cambiare le cose; è importante porre ai ragazzi obiettivi di trasformazione della realtà sociale in termini più vasti di progettualità politica: cosa possiamo fare insieme? Come intendere oggi il bene comune? Nelle associazioni di volontariato va incrementata la progettazione sociale a discapito dell’invito alle cose già esistenti, perché è l’idea di futuro che mobilita non tanto quella di azioni già pronte e preparate da fare per l’oggi. Spesso nelle associazioni gli adulti sono chiusi e dirigisti, anche se non consapevolmente. Occorre invece cedere spazio ai giovani, valorizzando le loro specifiche competenze. Ad esempio, al Forum è maturata l’idea di una rete mediterranea di giovani giornalisti civici: questo lo possono fare solo giovani in rete che vivono oggi in contesti sociali sui quali gli adulti hanno perso capacità critica. Insomma, per le associazioni è importante mettere in evidenza le specificità della partecipazione giovanile, perché sia desiderata e sostenuta.
Il Papa
Educare alla giustizia e alla pace
Benedetto XVI per la celebrazione della quarantacinquesima Giornata Mondiale della Pace del primo gennaio 2012 ha scelto il tema: «Educare i giovani alla giustizia e alla pace». Occorre ascoltare e valorizzare le nuove generazioni nella realizzazione del bene comune e nell’affermazione di un ordine sociale giusto e pacifico dove – sostiene il Papa – possano essere pienamente espressi e realizzati i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo.
Risulta quindi un dovere delle presenti generazioni porre le future nelle condizioni di esprimere in maniera libera e responsabile l’urgenza per un «mondo nuovo». La Chiesa accoglie i giovani e le loro istanze come il segno di una sempre promettente primavera, e indica loro Gesù come modello di amore che rende «nuove tutte le cose» (Ap 21,5).
I responsabili della cosa pubblica sono chiamati a operare affinché istituzioni, leggi e ambienti di vita siano pervasi da un umanesimo trascendente che offra alle nuove generazioni opportunità di piena realizzazione e lavoro per costruire la civiltà dell’amore fraterno coerente alle più profonde esigenze di verità, di libertà, di amore
e di giustizia dell’uomo.
Il tema di quest’anno si inserisce nel solco della «pedagogia della pace» tracciato da Giovanni Paolo II nel 1985 («La pace ed i giovani camminano insieme»), nel 1979 («Per giungere alla pace, educare alla pace») e nel 2004 («Un impegno sempre attuale: educare alla pace»).