Giovanni Paolo II cinque anni dopo

Un ricordo di Karol Wojtyla, il Papa comunicatore, il Papa amico, il Papa della gente. Il Papa che ha accompagnato la Chiesa per oltre un quarto di secolo, guidandola sulle soglie del terzo millennIO.
26 Marzo 2010 | di

C’è un gran silenzio davanti alla tomba. Eppure, se chiudo gli occhi, risento il vociare e gli applausi della folla riunita in piazza San Pietro. È la sera di quel 16 ottobre 1978. L’annuncio dalla loggia centrale della basilica: «Habemus Papam!». E poi quel nome strano, che qualcuno scambiò per africano. E quel volto da ragazzo polacco. Era emozionato e sorpreso, ma una luce negli occhi dimostrava già il piglio arrembante. «Se mi sbaglio mi corrigerete…». Fu simpatia a prima vista.

Aveva cinquantotto anni, era forte, atletico, sportivo. Qualche giorno dopo lanciò quel messaggio che diventò il programma del suo pontificato: «Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!». E al termine della cerimonia, impugnando il pastorale, scese tra la folla, per stringere mani e abbracciare bambini. Nessun Papa prima di lui lo aveva fatto. Le guardie svizzere non sapevano come comportarsi.
Rivedo poi un’altra folla, quella del 13 maggio 1981, il giorno dell’attentato. Volti attoniti, sguardi persi nel vuoto. La jeep bianca che corre, il Papa riverso, don Stanislao che lo regge, l’inizio di un lungo rapporto con la sofferenza.
Tanto si è scritto e si è detto sui record di papa Wojtyla. Ma al di là delle statistiche e dei numeri, quel che più conta è il contenuto che Giovanni Paolo II ha voluto dare alla sua missione e ha messo in chiaro fin dalla prima enciclica, la Redemptor hominis, in cui scrisse che «l’uomo è la via della Chiesa». Ogni uomo, con la sua dignità di creatura voluta da Dio e i suoi diritti fondamentali, primi fra tutti il diritto alla vita stessa e alla libertà religiosa.

Da questa centralità dell’uomo e della sua inalienabile dignità Giovanni Paolo II ha fatto derivare tutti i suoi gesti e le sue decisioni. Qualche tempo dopo l’elezione, in un colloquio con André Frossard, rivelò: «Se Dio me lo permetterà, andrò nella maggior parte dei luoghi dove sono stato invitato». Ha mantenuto la promessa. «Il Papa – disse una volta ai giornalisti – deve avere una geografia universale, ogni giorno c’è una geografia spirituale che percorro, la mia spiritualità è un po’ geografica». Il viaggio come forma di spiritualità, strumento pastorale e mezzo di comunicazione. Ad alcuni cardinali, molti dei quali non avevano nascosto il loro dissenso nei confronti delle sue frequenti trasferte, Giovanni Paolo II spiegò: «Mi sento come san Paolo, costretto a viaggiare. Questo andare nell’immensità delle folle è il carisma dell’odierno ministero di Pietro sulle vie del mondo». Un Papa viaggiatore perché missionario. Parroco del mondo, lo definirono i giornali. Un parroco deciso a riabbracciare nell’unità i fratelli cristiani delle altre confessioni, perché, come disse più volte, non possiamo essere credibili se restiamo divisi.

A Roma, il 18 gennaio 2000, per la prima volta nella storia, una Porta santa, quella della basilica di San Paolo fuori le mura, fu aperta da sei mani. Accanto al Papa di Roma c’erano il primate anglicano e il metropolita del patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Un gesto simbolico fortemente voluto dal Pontefice, che nell’enciclica Ut unum sint («Perché siano una cosa sola») mise l’impegno ecumenico al centro della vita della Chiesa. In cima ai suoi sogni c’era il viaggio a Mosca, l’incontro con il patriarca di tutte le Russie, Alessio II. Un sogno rimasto tale, ma che continua ad animare le speranze di dialogo con i fratelli d’Oriente.
Aprire tutte le porte possibili, parlare a tutti, provare percorsi nuovi. Quel «non abbiate paura» è stato messo in pratica dal Papa polacco in prima persona. È stato il primo Pontefice a entrare in una sinagoga e in una moschea, il primo a rivolgere la parola in uno stadio a una folla di giovani musulmani, il primo a chiedere perdono per le colpe commesse dai figli della Chiesa, il primo a pregare davanti al muro del pianto di Gerusalemme.
Dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, «crimine di terribile gravità», vide subito il pericolo dello scontro di civiltà, dell’uso strumentale della religione per fomentare i conflitti. Di qui la sua azione diplomatica senza precedenti, per dire no all’uso della forza come mezzo di soluzione delle controversie internazionali e all’utilizzo del nome santo di Dio per giustificare il ricorso alla violenza. Il mondo deve scegliere, disse, tra la legge della forza e la forza delle legge.

Il 24 gennaio 2002 ad Assisi, su invito del Papa, undici rappresentanti di altrettante religioni risposero all’appello per una comune preghiera di pace, una pace da costruire sul rispetto della dignità delle persone e dei popoli. Per recarsi nella città di san Francesco prese il treno, come nel 1962 aveva fatto Giovanni XXIII. Il Papa che prega e guarda dal finestrino lo scorrere del paesaggio. Il Papa pellegrino. Già nel 1986, un altro frangente drammatico, aveva convocato ad Assisi tutte le religioni del mondo. «Mai più la violenza! Mai più la guerra! Mai più terrorismo! In nome di Dio, ogni religione porti sulla terra giustizia e pace, perdono e vita, amore!». È l’eredità che ha voluto lasciarci. È la sua testimonianza, vissuta fino all’ultimo, anche quando non ebbe più la possibilità di far ascoltare la sua voce.

«All’umanità, che talora sembra smarrita e dominata dal potere del male, dell’egoismo e della paura, il Signore risorto offre in dono il suo amore che perdona, riconcilia e apre l’animo alla speranza». Sono parole che Karol Wojtyla, morto la sera del 2 aprile 2005, aveva preparato per la messa del giorno dopo. Non gli fu possibile pronunciarle. I Papi passano, ma la loro testimonianza resta. E quella di Giovanni Paolo II, il Papa venuto da lontano, continua ad accompagnarci e a darci coraggio.



Joaquín Navarro-Valls

Il Papa comunicatore

di Aldo Maria Valli


L’intervista

Fu il Papa delle porte aperte. A Cristo, ma ancor prima all’uomo. Fu infatti un’incessante «attenzione per l’uomo concreto, con i suoi bisogni, le sue difficoltà, le sue speranze a permettergli di entrare in contatto con tutti». Parola di Navarro-Valls, per ventidue anni portavoce di papa Wojtyla.


«Lo ricordo bene. Il Papa era lì, nella cappella privata, davanti al tabernacolo, e cantava sommessamente in polacco. Dire che pregava è riduttivo. Io dico che parlava. Parlava con una Persona».

Joaquín Navarro-Valls, per ventidue anni portavoce di Giovanni Paolo II, risponde così quando gli si chiede qual è la prima immagine che gli viene in mente ripensando a papa Wojtyla. Un Papa grande comunicatore, proprio grazie a quel rapporto d’amore che aveva con Dio.
«Per lui ogni momento e ogni luogo andavano bene per pregare: le lunghe ore in aereo durante i viaggi internazionali, le passeggiate sui sentieri di montagna. Pregava nella sua lingua, e io capivo poco, ma ogni tanto distinguevo il nome di una persona o di una località e allora mi rendevo conto che era una preghiera di intercessione. Per ogni cristiano la preghiera è una cosa buona e doverosa, ma per lui era soprattutto necessaria, come respirare».

Msa. Quando ti chiamò a dirigere la sala stampa vaticana, nel 1984, che cosa ti chiese? Ti diede indicazioni particolari?

Navarro-Valls. Mi disse che voleva migliorare e ampliare il modo di comunicare non solo e non tanto della Chiesa in quanto istituzione, ma della Chiesa in quanto insieme di valori umani e spirituali. Non mi chiese altro. In seguito fu sempre così. Dava alcune indicazioni generali, ma lasciava massima libertà circa i modi e i tempi.

Come si realizzava il suo carisma della comunicazione nella vita quotidiana, nei contatti di lavoro?

Dopo ogni incontro con un capo di Stato o di governo mi raccontava tutto e poi lasciava che fossi io a decidere che cosa poteva essere interessante per i giornalisti. Era molto aperto, sempre disponibile. Già a Cracovia, da vescovo, aveva l’abitudine di accogliere chiunque ne facesse richiesta, e da Papa fece lo stesso.

Qual è l’incontro più memorabile?

Mi viene in mente quello con Andrei Sakharov, il grande dissidente, premio Nobel per la pace. Nel 1989, dopo l’esilio negli Stati Uniti, di ritorno in Russia volle conoscere il Papa e Giovanni Paolo II lo ricevette di pomeriggio. Fu una conversazione stupenda e alla fine Sakharov disse: «L’unica cosa bella del ventesimo secolo è stata l’elezione di quest’uomo». Ma riceveva anche persone semplicissime e sconosciute, e poi gli amici e i compagni polacchi di un tempo.

È vero che approfittava anche dei pranzi per stare in compagnia degli ospiti?

Certamente, e posso dire che molte encicliche sono nate proprio così. Lui aveva in mente lo schema generale e gli obiettivi, ma sentiva il bisogno di sapere, di documentarsi, e per questo invitava a pranzo moltissime persone. Una volta, in vista di una delle sue encicliche sociali, riunì attorno al tavolo ben sette fra i più grandi economisti del mondo!

Anche il viaggio era per lui una forma di comunicazione e di incontro. Come preparava le sue trasferte?

Studiava la storia, la letteratura e la cultura del Paese nel quale doveva recarsi. E nel caso, a dire il vero molto raro, che non ne conoscesse la lingua, si impegnava a studiare anche quella. Ricordo che nel 1981, per il viaggio in Estremo Oriente, volle imparare a leggere il giapponese. Non gli fu possibile riconoscere i segni, ma i suoni sì, e quando i giapponesi lo ascoltarono rimasero stupefatti.

E una volta rientrati a Roma c’era modo di commentare la trasferta appena conclusa?

Sì, facevamo sempre un bilancio, spesso seduti a pranzo. Si commentava un po’ tutto, con grande libertà.

Che cosa lo preoccupava di più delle diverse realtà incontrate?

Non posso dire di averlo mai visto preoccupato. A volte soffriva per le difficili condizioni sociali ed economiche di alcu­ni Paesi e chiedeva a noi collaboratori: «Che cosa può fare il Papa per aiutare questa gente?». L’ho anche visto commosso, ma preoccupato mai, perché aveva una grande fiducia in Dio e negli uomini. Quanto alle difficoltà personali, cercava sempre di vedere il lato comico delle situazio­ni. Ricordo che una volta, quando, non so più dove, alcuni contestatori lo accolsero con uno striscione che diceva «Tu sei l’anticristo», lui mi guardò con un sorriso, come per dire: mi stanno sopravvalutando.

E per te, come direttore della sala stampa, qual è stato il momento più difficile?

Non posso dire che ci sia stato un particolare momento difficile. Per quanto riguarda il rapporto con l’Occidente, la difficoltà fu sempre una sola: riuscire a far passare il messaggio cristiano in una società così ampiamente e profondamente secolarizzata. Nel campo della comunicazione le difficoltà sono molte, ma alla fin fine si riducono a due. La prima è avere qualcosa da dire e la seconda è capire il mezzo con il quale hai a che fare. Circa la prima, la questione è molto semplice: se non si ha nulla da dire, meglio stare zitti. Circa il mezzo, occorre invece una preparazione specifica. Se parlo con una televisione, per esempio, devo sapere che non posso esprimermi come se tenessi una predica, altrimenti, come dite voi italiani, sai che pizza! Ogni mezzo ha la sua semantica. Giovanni Paolo II in questo era abilissimo, e io cercavo di imitarlo.

Non avete mai avuto un contrasto?

Sinceramente non mi vengono in mente contrasti o incomprensioni. I compiti erano ben definiti. Lui fissava l’agenda, e lo faceva con grande capacità, senza mai andare al rimorchio di argomenti imposti da altri. Io dovevo comunicare i temi che aveva scelto.

Si dice sempre che Wojtyla fu un comunicatore di successo. Ma da che cosa dipendeva questa efficacia?

Dipendeva da quello che diceva e dal modo in cui lo diceva. Non era mai formale. Perfino nelle occasioni più solenni, quando le immagini esteriori e i simboli rischiano di prevalere sui contenuti, lui riusciva a tenere ben desta l’attenzione di tutti sul messaggio che voleva far passare.

Oggi quando le persone lo ricordano si sente dire spesso: era simpatico. Il che è vero, però è anche vero che diceva cose a volte molto dure ed era assai esigente.

Per un cristiano la dimensione apostolica, la missionarietà, consiste non tanto nel rendere simpatico se stesso, ma nel far diventare simpatica la virtù. E in questo Wojtyla era imbattibile. Penso agli incontri con i giovani, molti dei quali, in quei grandi raduni, non erano neppure praticanti e a volte neppure cattolici. In quei casi lui riusciva a far vedere che la virtù è una cosa bella, il che è veramente decisivo, perché se dici che la virtù è una cosa bella ma la rendi antipatica hai fallito la tua missione!

Qual era il segreto del suo rapporto speciale con i giovani?

Consisteva nel fatto che lui diceva a tutti: guarda che tu sei molto migliore di quanto pensi di essere o di quanto gli altri dicano di te. Dava fiducia, ma non a scopo strategico. Lo faceva perché ci credeva, perché vedeva davanti a sé creature di Dio. In questo era un padre vero, e come un vero padre era anche esigente. Infatti non ha mai coccolato nessuno, tanto meno i giovani. Sono i politicanti che coccolano la gente, per conquistare il consenso. Lui invece la sferzava, andando controcorrente rispetto alla cultura dominante, perché in un’epoca come la nostra, così pessimista circa l’essere umano, lui esprimeva un’antropologia ottimista.

Ti sei mai chiesto perché Giovanni Paolo II abbia scelto proprio te?

All’epoca ero il presidente dell’Associazione della stampa estera in Italia e forse pensò che quel mio ruolo avrebbe potuto aiutarmi nel rapporto con i colleghi.

Veniamo agli anni della vecchiaia del Papa e della sua malattia. Come li visse, lui che amava così tanto comunicare e che progressivamente rimase prigioniero del suo corpo, fino a non poter più parlare?

Potrà sembrare strano, ma quegli anni sono stati felicissimi dal punto di vista comunicativo. Le encicliche pubblicate furono tredici, ma ce ne fu anche una quattordicesima: la scrisse senza parole, continuando a essere pastore nonostante la malattia. In un mondo che spesso nasconde la sofferenza, la vecchiaia e la morte, lui volle dimostrare che l’ideale più alto non è il benessere fisico, ma la fedeltà. La gente capì.

Fu il Papa delle porte aperte. Ma che cosa gli permetteva di aprirle e di farsele aprire?

Ricordo che una volta, in preparazione di un incontro interreligioso, un esponente della curia si lamentò sottolineando quanto fosse difficile trovare qualcosa in comune con gli esponenti delle altre religioni. Al che il Papa sbottò: «Ma il punto in comune è l’uomo!». Ecco che cosa gli permise di entrare in contatto con tutti. Fu questa attenzione per l’uomo concreto, con i suoi bisogni, le sue difficoltà, le sue speranze.

Un’ultima domanda: adesso che cosa fa il dottor Joaquín Navarro-Valls?

Sono tornato alla medicina, il mio primo amore. Sono presidente del Comitato di consulenza e indirizzo dell’Università Campus Biomedico di Roma.

E il libro di memorie quando arriverà?

Non lo so. Ho raccolto tutto il materiale, ma sono ventidue anni di storia, e per scrivere avrei bisogno di tempo. Comunque resta un imperativo morale.


La scheda

Joaquín Navarro-Valls nasce a Cartagena, nella regione spagnola della Murcia, il 16 novembre 1936. Medico specializzato in psichiatria, si è laureato anche in giornalismo e in scienze della comunicazione. Corrispondente del Nuestro tiempo e inviato del quotidiano di Madrid Abc, è stato presidente dell’Associazione della stampa estera in Italia nel 1983 e 1984, anno in cui Giovanni Paolo II lo ha chiamato alla guida della sala stampa della Santa Sede, incarico mantenuto fino al 2006, quando ha passato le consegne al padre gesuita Federico Lombardi. Membro numerario (cioè laico ma celibe) dell’Opus Dei, ha pubblicato libri sul giornalismo, la pubblicità e l’educazione. Del 2009 è il volume A passo d’uomo (Mondadori) nel quale, attraverso articoli pubblicati per «La Repubblica» e altri inediti, ricorda i tanti protagonisti della storia da lui incontrati e riflette sui temi etici attuali.



Wanda Poltawska

Il Papa amico

di Lorenzo Fazzini


L’intervista

Karol Wojtyla era anche un uomo capace di profondi gesti di affetto. Aveva la «persona» nella testa e nel cuore. Filosofo dell’amore, hasaputo coltivare e custodire rapporti di amicizia, talvolta durati tutta la vita. Come quello con Wanda Poltawska.


Ha avuto come parrocchia il mondo, ma il suo cuore batteva per gli amici di gioventù. Ha girato il pianeta, eppure era capace di profondi gesti di affetto, di legami intensi e duraturi. Karol Wojtyla aveva la «persona» nella testa e nel cuore: filosofo dell’amore, era aduso a coltivare e custodire rapporti densi di vicinanza con amici. E amiche. Qualche settimana fa il «Corriere della Sera» riportava alcune lettere inedite dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini a Giovanni Paolo II. Due uomini diversissimi, il capo di Stato socialista e il Papa polacco: eppure quest’ultimo capace di intessere un’amicizia con l’ex partigiano fatta di pranzi in segreto, sciate «diplomatiche» sull’Adamello, discussioni su film visti. «Andava a visitare amici in ospedale, sia da vescovo che da Papa» racconta Wanda Poltawska, 89enne psichiatra polacca, amica di gioventù di Wojtyla. Che con lei aveva una sì grande confidenza da farsi chiamare «fratello» e chiamarla cristianamente «sorella». Le grandi amicizie si riconoscono dai dettagli: se si ripensa a quando per la prima volta si è incontrata quella persona, ci si ricorda anche dei particolari. Proprio come fa Wanda Poltawska nel suo libro Diario di un’amicizia. La famiglia Poltawski e Karol Wojtyla (San Paolo): «Stavo inginocchiata quando entrò, con addosso un cappotto verde, don Karol Wojtyla».

La signora Poltawska, nonostante la veneranda età e le terribili esperienze di una vita contrassegnata da due regimi totalitari (dal 1941 al ’45 fu prigioniera nel lager nazista di Ravensbrück e sottoposta ad atroci esperimenti medici, rievocati in E ho paura dei miei sogni, Edizioni dell’Orso), può vantare ancora uno spirito arzillo («non rispondo a domande sciocche» dice subito). In questo colloquio lascia trasparire la grandezza di Karol Wojtyla, uomo prima che prete, amico prima che vescovo, confidente prima che Papa. Capace di vivere momenti così: «Nel 1967, quando il Santo Padre tornò a Cracovia dopo essere stato creato cardinale, abbiamo fatto una grande festa di famiglia e due mie figlie hanno fatto la prima comunione – esordisce la signora Wanda –. Abbiamo cenato tutti insieme e mia madre gli disse: “Lei, eminenza, sarà Papa. Ma io non potrò vederla arrivare fin là”. E infatti è morta prima del 1978».

Msa. Lei ha avuto don Karol Wojtyla come direttore spirituale...

Poltawska. Sono convinta che tutti i credenti abbiano bisogno di un padre spirituale perché la persona umana si deve sviluppare come un insieme armonioso di intelletto, corpo e anima. Come psichiatra lavoro spesso con le coppie: quando nasce un contrasto tra di loro, mi accorgo che c’è bisogno di un apporto spirituale, perché l’uomo non è un animale. Io ho sentito questa esigenza fin dalla mia infanzia, quando avevo come padre spirituale un vecchio e saggio parroco. Come diceva don Karol, se non si prende in considerazione l’uomo nella sua interezza, questa dimensione della persona non si sviluppa. Il ricorso frequente alla guida spirituale è una tradizione della Polonia cattolica, anche se, a causa della guerra, fui costretta a rinunciarvi per un lungo periodo.

Come conobbe il futuro Pontefice?

Una volta tornata dal campo di concentramento, non riu­scivo più a comprendere la gente che viveva come se non dovesse morire mai. Sono andata a studiare a Cracovia, alla facoltà di Medicina, proprio mentre don Karol Wojtyla era stato inviato dal cardinale Sapieha a occuparsi dei medici. In quel periodo abbiamo avuto molte discussioni sul ruolo del medico, e ho iniziato ad apprezzare il suo modo di parlare, pregare e celebrare la messa. Era un sacerdote santo, lo capivi dal primo momento. Dopo la guerra ho incontrato un altro sacerdote polacco tornato dai campi di lavoro della Siberia, che prima della guerra era mio confessore. Anche lui mi ha parlato di un bravo prete che stava a Cracovia (lui era stato mandato a Varsavia): ancora don Wojtyla. Dopo quattro anni di «ritiro spirituale» nel lager, avevo perso la fiducia negli uomini, ma non in Dio: ero stata trattata in maniera disumana dalla gente, ma al contempo nel campo di concentramento avevo visto anche tanti gesti di eroismo. Mi interrogavo su questa differenza enorme tra i nazisti, che ci trattavano come bestie, e quelle persone che avevano compiuto atti di eroismo e di bontà, e trovai una risposta proprio nei lavori di antropologia di Karol Wojtyla. Lui scriveva che l’uomo è figlio di Dio ed è creato a sua immagine e somiglianza. Per questo può essere capace di grande bontà, oppure comportarsi come la Gestapo o i dittatori comunisti: la scelta dipende da ciascuno di noi.

Come coltivò la sua amicizia con lui?

Io e Wojtyla ci occupavamo di esseri umani, lui come prete e io come medico. E l’amicizia nasce anche quando ci sono gli stessi interessi nel campo professionale. La sua filosofia mi aiutava nel mio lavoro con i ragazzi difficili. Karol Wojtyla è sempre stato pieno di ammirazione per la persona umana che considerava una creatura perfetta. Per lui, il valore della persona era incommensurabile. Voleva che questo lo capissero tutti, perché l’uomo creato da Dio è un capolavoro, sempre! Wojtyla, inoltre, voleva salvare la santità dell’amore umano: Dio ha creato l’uomo per la sua abbondanza di amore. Il segreto del santo Padre come sacerdote consisteva nel fatto che lui amava tutti e voleva salvare ogni persona, senza eccezioni. Per lui ogni uomo era degno di rispetto perché creatura di Dio, e per questo chiamata a essere santa.

Come è cambiato l’amico Karol Wojtyla quando da prete è diventato vescovo, poi cardinale e quindi Papa?

Non è cambiato in niente, era sempre lo stesso. Non so come si debba comportare un Papa, ma io non ho notato cambiamenti in lui. Era sempre un sacerdote, con gli stessi problemi di tutti i sacerdoti, solo che la sua parrocchia era diventata il mondo. Lui voleva davvero che ogni uomo si salvasse. I tanti viaggi che ha fatto in tutto il mondo rappresentavano il suo tentativo di portare in Cielo tutti. Guardando a lui, alla sua esperienza, a come molti lo seguivano, ci si può davvero convincere che un giorno giungeremo a essere un solo gregge con un solo pastore, come dice il Vangelo.

Qual è stato per lei il momento più bello passato con Wojtyla?

Difficile scegliere un solo momento in un’amicizia durata cinquant’anni! Per me forse l’istante più bello era quando consacrava il pane eucaristico: lo faceva in un modo che non ho mai visto in un altro sacerdote. Sembrava davvero che stesse di fronte a Dio. Poi mi ricordo anche una gita sui monti Beschidi (a un’ora di automobile da Cracovia). Era il momento del tramonto e ci siamo messi a guardare, don Karol, mio marito e io, il sole che scendeva. E ci siamo aperti alla preghiera: lui, del resto, pregava sempre.

Quanto era importante l’amicizia per Wojtyla?

Per lui era una forma dell’amore. Si comportava in modo tale che tutti potessero vedere qual era il suo obiettivo: ogni momento libero lo riservava alle persone, ai suoi giovani, per i quali spesso organizzava gite e vacanze. Ogni istante del suo tempo lo consacrava ad annunciare Dio. Lui amava davvero tutti: ladri o santi, credenti o non credenti. In questo era un vero successore di Cristo. Per me il processo di beatificazione non si fa per capire se lui è santo; si fa il processo proprio perché è santo.

Posso chiederle di raccontarci un episodio in cui ha sentito in modo particolare l’«unicità» di Karol Wojtyla?

Ricordo un episodio che mi ha coinvolta personalmente. Ero giovane dottoressa e lavoravo in ospedale. Dalla portineria mi chiamarono perché un uomo sui 30-35 anni mi cercava. Andai a incontrarlo: mi chiese di firmare il permesso perché sua moglie potesse abortire. Io gli risposi: «Ma se lei mi ha cercato, mi conosce e sa che io non firmo questi documenti». E lui proseguì: «Sì, lo so. Ma proprio per questo sono venuto da lei». E raccontò che otto anni prima sua moglie aveva partorito un bambino, ma aveva avuto una grossa depressione post partum per la quale era stata ricoverata per diversi anni in psichiatria. Ora era di nuovo incinta. I medici le avevano detto che non doveva più avere bambini per non ripetere l’esperienza del lungo ricovero. E concluse dicendomi: «Anche noi siamo credenti, ma preferiamo che mia moglie abortisca piuttosto che andare di nuovo in ospedale psichiatrico». Io gli chiesi di potergli rispondere dopo il fine settimana. Durante il sabato e la domenica lessi tutta la letteratura scientifica sul post partum. E andai pure a confessarmi in una chiesa di gesuiti proprio di fronte all’ospedale. Al confessore chiesi un consiglio: «Che cosa devo fare?». E lui: «Io sono un prete, lei un medico: è lei che deve decidere». Poi però mi suggerì di recarmi da don Karol Wojtyla. E allora io andai a una messa da lui celebrata, al termine della quale lo interpellai. Mi rispose così: «Dica a quel signore che prometto di dire ogni giorno la messa per l’intenzione della sua famiglia durante tutta la gravidanza. E che deve fidarsi di Dio». Don Karol così fece: la bambina nacque sana, e la mamma non ebbe alcun problema.

Quale aspetto del suo «amico» e «fratello» Karol vorrebbe che la gente conoscesse?

Ricordo le sue lezioni a Lublino sull’amore umano. Lui voleva che tutti comprendessero la bellezza dell’amore, amore che deve essere creativo, perché il padre e la madre sono chiamati a dare la vita. La famiglia non è un programma di vita solo personale, non è un fatto privato, ma divino. Per questo Giovanni Paolo II voleva restituire dignità all’amore umano, invitando i coniugi a creare quello che lui definiva «il bell’amore». E si è occupato intensamente di questi aspetti, giungendo a creare l’Istituto di teologia del matrimonio di Cracovia. Soffriva molto quando vedeva girare in tv donne nude, trattate come bambole: per lui la persona umana era destinata a più alti valori.

Che cosa provò quando venne eletto Papa?

Dentro di me sentivo che sarebbe stato eletto lui. Non fui sorpresa della scelta del Conclave: Wojtyla era già stato il cardinale più giovane creato da Paolo VI. Quando fu chiamato a Roma per eleggere il successore di Giovanni Paolo I, gli chiesi quale nome avrebbe voluto assumere se fosse stato eletto Papa. E mio marito rispose al suo posto: «Ma naturalmente Giovanni Paolo II!».



Caro Papa

di Elisabetta Lo Iacono


Il dialogo continua

Karol Wojtyła è ancora presenza viva per le migliaia di persone che ogni giorno scendono nelle Grotte vaticane a pregare davanti alla sua tomba. Come testimoniano i messaggi che, a centinaia, i fedeli continuano a indirizzargli.


Sulla lapide dove riposa Giovanni Paolo II, nelle Grotte vaticane, sono riportate, sotto il nome, due date: 16.X.1978 e 2.IV.2005, il giorno dell’elezione a successore di Pietro e quello della morte. L’alfa e l’omega di un lungo pontificato che ha avuto fine nell’aprile di cinque anni fa. Ma proprio la seconda data è divenuta non il segno del distacco quanto l’avvio di un nuovo rapporto con il Papa polacco, la scoperta di un possibile ulteriore legame forte e personale che ha introdotto molti in una dimensione sino a quel momento sconosciuta. Quella data ha fatto comprendere, d’improvviso e in maniera inattesa, innumerevoli aspetti del suo messaggio, risvegliando nel profondo anche quanti, lontani dalla religione, erano stati trascinati dai mass media sulle frequenze di un dolore e di un’agonia seguita e condivisa a livello globale.

L’esposizione mediatica del pontificato ha toccato il suo punto estremo nei giorni precedenti e successivi al 2 aprile di cinque anni fa, quando milioni di persone hanno voluto rendere il loro omaggio, reale o virtuale, al primo Pontefice slavo della storia. La durata del pontificato, la connotazione fortemente umana di questo Papa, la dimostrazione di una fede convinta e la sua grande carica comunicativa sono stati un potente acceleratore della sua immagine e quindi del suo messaggio. Da questa forte intesa maturata sia sul piano religioso sia su qu

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017