Ottocento anni fa nasceva l’Ordine francescano. Nel 1209 un giovane di Assisi, con alcuni compagni, si reca a Roma dal «signor papa» per chiedere la conferma del suo progetto di vita secondo il Vangelo. Tutti noi, nella scia dei non pochi film dedicati alla vita del Poverello, abbiamo negli occhi questo giovane vestito di panni ruvidi e con atteggiamento impacciato che muove i suoi passi verso il Papa, allora Innocenzo III, tra due ali sfarzose di prelati piuttosto diffidenti. Erano infatti tempi burrascosi per la Chiesa, dal momento che alcuni movimenti ereticali, richiamandosi con forza e con rigidità (oggi useremmo la parola fondamentalismo) alla povertà evangelica, la giudicavano infedele nei confronti della missione ricevuta da Cristo. In una situazione ecclesiale di grande tensione, la novità di Francesco non poteva non essere notata e, forse proprio per la sua sorprendente connotazione evangelica, appoggiata da parte della Curia romana: non vi era infatti alcuna intenzione, da parte di quel giovane assisiate e dei suoi primi compagni, di separare il Vangelo dalla Chiesa, concretamente da preti, vescovi e Papa, sue guide legittime.
Quale strabiliante novità! Realizzare una riforma della Chiesa cominciando con il convertire innanzitutto la propria vita, dimostrandosi esigenti verso se stessi, accettando la debolezza propria e altrui come stimolo per fare meglio, ma soprattutto non imponendo la propria particolare esperienza di fede come criterio assoluto di fedeltà al Vangelo. Ce n’è quanto basta per riflettere a lungo e per ripensare atteggiamenti unilaterali che oggi come allora rischiano di falsificare il cristianesimo e di renderlo una religione triste, quasi aggressiva. Si vorrebbe la conversione altrui, magari anche in fretta, e così si criticano gli altri fino allo sfinimento, mostrandosi intransigenti nei loro confronti mentre le proprie colpe sono invece percepite come lievi e irrilevanti; si vorrebbe universalizzare la propria esperienza di fede, il proprio modo (pio, devoto, intellettualistico, emozionato, militante, testimoniante, ecc.) di vivere in rapporto a Cristo e alla Chiesa. Per Francesco non è questa la porta d’ingresso all’autentica fede cristiana, e lo dimostra quando, nel 1219, recandosi in mezzo agli infedeli (allora i saraceni) non si lascia coinvolgere dallo spirito della crociata: l’unica crociata che vale la pena di intraprendere è quella verso se stessi.
Più passano gli anni, più mi rendo conto che quando si parla di Francesco bastano pochi cenni per accendere un grande fuoco. Lui attrae, seduce, attiva un’attenzione tutta particolare, quasi un’attesa, come d’altronde sanno fare i grandi santi. Di lui scrive Ratzinger in una dissertazione giovanile dedicata a san Bonaventura: «Nella Chiesa del tempo ultimo si imporrà il modo di vivere di san Francesco che, in qualità di simplex e idiota, sapeva di Dio più cose di tutti i dotti del suo tempo, poiché egli lo amava di più». Il tempo ultimo non è il tempo che verrà, un futuro indefinito che un giorno, chissà quando, ci sarà dato da vivere. Il tempo ultimo è il presente attraversato dall’«oggi» di Dio, da una possibilità sempre nuova di schierarsi dalla parte del Vangelo e delle sue Beatitudini. Il segreto di Francesco, se vogliamo semplificarlo al massimo, consiste proprio nel suo attaccamento al presente che gli permette di cogliere senza esitazione le risorse di grazia che sono nascoste in ogni vicenda umana e in ogni frammento del creato. Lo sguardo francescano che si posa su ogni uomo e su ogni cosa è uno sguardo di fraternità, di simpatia, che vuole creare legami con tutti, lanciare ponti ai lontani, aprire varchi in ogni muro. Solo uno sguardo così libero e coraggioso può custodire e alimentare quella gioia del cuore che è il tratto distintivo di Francesco e dei suoi numerosi discepoli.