Gli alberi dei giusti
Questo secolo è stato definito il «secolo dell' odio». Ma anche nei momenti più tragici c' è sempre stato un giusto, che ha reagito alla violenza per il bene della collettività , salvando molte vite e aiutando il mondo a risollevarsi dalle sue ceneri. |
Il ventesimo è stato, a ragione, definito, il secolo dell' odio. Dell' odio: del male estremo, dello Metz Yeghern, come lo chiamano gli armeni, vittime, nel 1915, del primo genocidio sistematico del secolo. A dimostrare che tale definizione non è, purtroppo, esagerata basterebbero gli orrori della ex Yugoslavia ancora recenti e già rimossi nella coscienza collettiva.
Ma non sono i soli perché fin dai primi anni del Novecento i massacri si sono ripetuti, in una sequela impressionante, in Africa, in Cina, in Unione Sovietica... E nella Shoah sono morti quasi sei milioni di ebrei.
Gli armeni. Tornando agli armeni: nella notte tra il 24 e il 25 aprile del 1900 (questa resta la data commemorativa del genocidio armeno) prende avvio il piano di sterminio messo in atto dal partito dei «giovani turchi», in testa il ministro dell' Interno Talaat. Si comincia dalla soppressione della comunità armena di Costan tinopoli, e si procede, tra il maggio e il luglio, con lo sterminio degli armeni delle province di Erzerum, Bitlis, Van, Diyarbakir, Trebisonda, Sivas, Kharput. Oltre un milione e mezzo di armeni muoiono nelle marce forzate nel deserto, disidratati, per fame, bruciati vivi o rinchiusi nelle caverne.
Armin Teophile Wegner fu testimone oculare del massacro che volle, uomo giusto, documentare con foto da lui stesso scattate rischiando la vita. «Mi hanno raccontato - scriveva Armin Wegner - che Gemal Pascià , il carnefice siriano, ha proibito, pena la morte, di scattare fotografie nei campi profughi. Io conservo le immagini di terrore e di accusa legate sotto la mia cintura& So di commettere in questo modo un atto di alto tradimento, e tuttavia la consapevolezza di aver contribuito per una piccola parte ad aiutare questi poveretti mi riempie di gioia più di qualsiasi cosa abbia fatto». Wegner aiutò moltissimo gli armeni. Riuscì a far pervenire parte del materiale fotografico in Germania e negli Stati Uniti. E ancora oggi le sue foto sono tra le testimonianze storiche più preziose di quanto avvenne in quel periodo.
Ma l' impegno di Wegner non si fermò qui. Nel 1933 inviò una lettera a Hitler in cui protestava contro i comportamenti antiebraici e, per questo, fu arrestato dalla Gestapo, picchiato e detenuto per cinque mesi nei campi di concentramento. Tra il 1936 e il 1937 si trasferì in Italia e per tutto il resto della sua vita si adoperò con appelli e un' attività di scrittore militante dei diritti civili. Visse tra Positano, Stromboli e Roma, dove morì nel 1978. Nel 1968 Wegner aveva dichiarato che se i responsabili del genocidio degli armeni fossero stati puniti, non ci sarebbe stato il genocidio degli ebrei. Hitler stesso nell' agosto del 1939, a pochi giorni dall' invasione della Polonia, pronunciò la famosa frase: «Chi si ricorda più del genocidio degli armeni?».
Le ceneri di Armin Wegner sono state portate a Yerevan, in Armenia, dal figlio Misha e tumulate nel Muro della Memoria del monumento del genocidio di Dzidzernagapert. E lo stesso Misha Wegner, intervenuto nel novembre scorso a Padova al convegno internazionale: «Padova: città dei giusti?», raccontò in proposito: «Mi sono ritrovato a Yerevan, abbracciato da donne e anziani, che in me ritrovavano mio padre, che tramite me gli portavano riconoscenza e gratitudine. È stato il mio calvario, come coloro che a Pasqua nelle vesti di Gesù, portano la croce in processione».
Armin Wegner non fu solo. Egli stesso testimoniò che furono numerose le personalità turche che avevano deplorato il massacro degli armeni e che molti funzionari si erano rifiutati di accettare ogni complicità .
In Armenia, nel Muro della Memoria, vengono deposte le ceneri o la terra tombale di altri, di persone che di fronte al «male estremo» hanno avuto la forza di reagire, hanno salvato i deportati, raccolto gli orfani, protestato, testimoniato nei processi, hanno scritto memorandum e libri in favore delle vittime come Johannes Lepsius, fondatore di orfanotrofi; Franz Werfel, autore de I 40 giorni del Mussa Dagh; James Bryce, il lord inglese che compilò una relazione sul genocidio all' epoca dei fatti; Henry Morgenthau, ambasciatore americano; Anatole France, Giacomo Gorrini, console italiano, testimone oculare del genocidio a Trebisonda, che contribuì a salvare 50 mila armeni che stavano per essere inviati nei campi di sterminio del deserto di Deir es Zor.
Anche a Gerusalemme: nello Yad Vashem, il monumento che ricorda le vittime della Shoah, c' è il «giardino dei giusti» per gli ebrei, in cui ogni albero ricorda una persona che si è opposta alla barbarie nazista. Ha il suo albero, perché giusto tra le nazioni père Marie Benoà®t, noto col nome di padre Maria Benedetto, un frate cappuccino che, nascondendoli nel suo convento a Roma, salvò 2 mila 500 ebrei italiani e 1.500 profughi provenienti da Francia, Jugoslavia e da altri paesi. Il gruppo di padre Benedetto nascondeva i profughi essenzialmente in appartamenti e pensioni o in istituti religiosi. Un centinaio di conventi e 55 monasteri diedero rifugio ad altri 4 mila 447 ebrei. I salvatori italiani rischiavano la vita per sottrarre gli ebrei al carcere o alla deportazione, senza capire che li stavano salvando da una morte certa. Un' estesa rete di soccorso si era creata anche in tutto il nord Italia grazie a molti parroci come don Francesco Repetto e don Carlo Salvi a Genova, don Leto Casini e padre Cipriano Ricotti a Firenze (anch' essi insigniti col titolo di giusti tra le nazioni); don Angelo Dalla Torre e Giuseppe Simioni a Treviso (che hanno il loro albero in Israele); monsignor Giacomo Meneghello di Firenze, monsignor Vincenzo Barale di Torino o Giuseppe Sala di Milano.
Un altro giusto che ha il suo albero in Israele è il padovano Giorgio Perlasca. Nel 1944 e 1945 a Budapest salvò dalla deportazione oltre 5 mila ebrei (su di lui si sta girando anche un film, Il coraggio di un uomo giusto, interpretato da Luca Zingaretti, che verrà trasmesso da Raiuno in autunno). Perlasca a Budapest si autonominò, per meglio aiutare gli ebrei, nuovo rappresentante del governo di Franco (era andato a combattere per lui come volontario) e su questi fatti mantenne per tutto il resto della sua vita il più stretto riserbo. «Nemmeno in famiglia - racconta il figlio Franco - sapevamo la storia nella sua interezza. Mio padre non vendette la sua incredibile storia, come tanti, troppi, fecero nell' Italia del dopoguerra». La sua vicenda venne scoperta per caso e solo perché alcuni ebrei ungheresi da lui salvati vennero in cerca di lui alla fine degli anni Ottanta. «Eva e Pal Lang, coniugi ungheresi, vennero in Italia in un viaggio che toccava diverse città italiane. Alloggiavano - racconta Franco Perlasca - in piazza del Santo, alla Casa del Pellegrino e una mattina si presentarono a casa nostra, con tre oggetti di famiglia, gli unici che erano riusciti a salvare in quei giorni del ' 45». Solo dopo vennero il clamore e i giornalisti che gli chiesero perché l' avesse fatto. A loro, Giorgio Perlasca rispondeva: «Perché sono un uomo».
Etty Hillesum, giovane ebrea olandese, ha sempre rifiutato di fuggire e di nascondersi, e ha scelto, come funzionaria del Consiglio ebraico, di andare volontariamente nel campo di transito di Westerbork, e da qui è stata deportata ad Auschwitz e ha scritto dal campo: «Convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo, lo rende ancor più inospitale».
Ma questi giusti non sono tanto lontani da noi. Se una mattina, passando per strada, assistiamo a un' aggressione, possiamo tirar dritto pensando alla nostra incolumità oppure intervenire. Rinunciando a intervenire - secondo Pietro Kuciukian - perdiamo la nostra dignità . Il giusto e il testimone si sacrificano per gli altri, trovando unicamente dentro di sé la spinta all' azione, si mettono dalla parte di chi subisce abusi da parte del potere e, salvando la propria dignità , salvano anche quella della vittima.
D urante il convegno di Padova è stata lanciata l' idea di realizzare una foresta dei giusti in tutti quei luoghi che nel corso del ventesimo secolo sono diventati i simboli delle persecuzioni totalitarie e che hanno visto, come protagonisti, non solo gli aguzzini, ma anche gli uomini giusti che si sono opposti: a Erevan in Armenia, a Mosca; a Sarajevo, città prima simbolo della pacifica convivenza tra culture ed etnie diverse e poi dell' odio etnico più feroce, in tutta la ex Yugoslavia, in Ruanda, in America Latina& Tutti questi alberi concorrerebbero a creare una grande foresta mondiale, le cui piante metterebbero radici in ogni parte della terra, come monito e insegnamento per le generazioni future.
UNA PROPOSTA: TANTE FORESTE DEI GIUSTI