La notizia, ormai archiviata ma ben incisa nella memoria, è di quelle che lasciano sbalorditi, increduli, incapaci di pensare la cosa come vera fino in fondo. Marzo 2006, seconda metà del mese: un cristiano di Kabul, Abdul Rahman, quarantunenne ex musulmano convertitosi in seguito a una lunga frequentazione di occidentali per motivi di lavoro, ha rischiato la vita a causa della sua apostasia. Infatti, abbandonare la religione predicata dal Profeta Muhammad è considerato reato gravissimo, almeno secondo l’interpretazione più rigida della legge islamica (la sharia), reato da punire implacabilmente con la pena capitale. Tra l’altro, la recente Costituzione afghana riconosce grande importanza alla legge coranica, anche se al contempo garantisce, nel suo preambolo, il rispetto dei diritti umani. Ma tutti ricordano le manovre a serpentina, tra sconti e compromessi, che hanno portato a stilare quel documento. L’Afghanistan, secondo la Costituzione, è una Repubblica islamica, e, se la sharia non è direttamente chiamata in causa, «nessuna legge può essere contraria al credo e alle disposizioni della sacra religione dell’islam».
L’appello del Papa, all’Angelus di domenica 26 marzo, è stato molto chiaro, pur nella massima discrezione: «Il mio pensiero si rivolge, in modo particolare, a quelle comunità che vivono nei Paesi dove la libertà religiosa manca o, nonostante la sua affermazione sulla carta, subisce di fatto molteplici restrizioni». Quel «nonostante la sua affermazione sulla carta» – l’abbiamo controllato –, ricorre più volte nell’ancor giovane magistero pontificio di Ratzinger, e ha raggiunto un momento particolarmente intenso e significativo quando, nel dicembre 2005, il Pontefice ha fatto pubblica memoria del quarto decennale del documento conciliare Dignitatis humanae (La dignità della persona umana), del 7 dicembre 1965, ricordandone il valore decisivo: «I Padri conciliari hanno approvato, proprio quarant’anni or sono, una Dichiarazione concernente la questione della libertà religiosa […]. E questo insegnamento conciliare resta ancora di grande attualità». Perciò Benedetto XVI, lanciando un fermo appello di intercessione per la vita di Abdul, ha compiuto un atto di coerenza più che di umanità, un gesto di verità contro ogni deriva ideologica e pseudoreligiosa.
La lettura di come sono andate le cose e delle convinzioni della Chiesa circa la libertà religiosa richiede, a questo punto, una riflessione nella linea dell’approfondimento. La fiammata di attenzione mediatica che si è creata intorno alla condanna comminata a un musulmano convertitosi al cristianesimo, è più che giustificata, anche perché con molta probabilità si tratta di un caso destinato a ripetersi, e un quadro di chiarezza sulle diverse posizioni è necessario fin da subito. Da parte laica la reazione è stata forte, accompagnata da profondo disgusto e vera ripulsa, non fosse altro per il fatto che una certa laicità ha combattuto la battaglia decisiva per il suo stesso esistere sul medesimo terreno: contro ogni guerra di religione e quindi in favore della possibilità per ognuno di praticare la religione solo per scelta, mai per costrizione. Da parte di Benedetto XVI, e della Chiesa in generale, gioca la lunga maturazione che ha fruttificato nel Concilio Vaticano II e poi nella sua creativa recezione, secondo la quale il diritto alla libertà religiosa è da intendere come cuore e sintesi dei diritti umani.
La vicenda del cristiano di Kabul sembra essersi conclusa con un doloroso compromesso. Non si può dire, infatti, che l’espatrio forzato sia una soluzione. E poi, quanti Abdul si trovano nella condizione di dover vivere la propria fede in clandesti-nità, sotto continua minaccia di morte? Se il Signore dona la grazia della conversione, ci auguriamo che da parte di tutti si conceda grazia a chi in buona fede si converte. Stiamo a vedere...