Guareschi, l'emigrante
La guerra, i lager nazisti, il carcere per scontare una condanna per diffamazione, l'espatrio in Svizzera. Nella sua valigia nostalgia, dolore ma anche fede nella Provvidenza.
16 Maggio 2008
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L’emigrazione è un espatrio o uno spostamento territoriale a scopo principalmente economico, cioè per guadagnare il pane per sé e per la propria famiglia. Ci può essere un’emigrazione anche per senso dell’avventura. Ma di per sé, emigrare significa andarsene dal proprio paese, dalla propria terra sotto la spinta del bisogno, con tante speranze nel cuore, magari pure con bei progetti in mente, con la consapevolezza di non poter riuscire a realizzare i propri progetti, e di non rivedere l’amata piccola patria rappresentata dalla città, dal paese, dalla borgata.
Nel caso di Giovannino Guareschi, è stato egli davvero un emigrante? Se sì, in quali circostanze, con quali modalità ed esiti? Ho pensato che quella dello scrittore italiano del Novecento più tradotto nel mondo, se la si vuole definire emigrazione, lo è in senso lato. Perché andare in un lager nazista o in un carcere italiano significa per me «emigrazione coatta». Considerando le esperienze di Guareschi, prigioniero prima e detenuto poi, è da sottolineare come in entrambi i casi egli abbia trovato la forza di affrontare le avversità insite in quelle condizioni, nella fede religiosa che gli aveva trasmesso la madre. Non solo, ma per quel che riguarda l’internamento nei lager nazisti di Polonia e di Germania, dopo 1’8 settembre 1943 Giovannino ebbe modo di manifestare la sua generosità nei confronti dei compagni di sventura tenendo loro alto il morale. Come? Continuando a fare ciò che faceva nella vita civile. Se, infatti, in Italia era stato l’animatore del periodico umoristico della Rizzoli Il Bertoldo, l’attività di giornalista, vignettista, scrittore, umorista, continuò a praticarla fra i reticolati di filo spinato. Non poteva certo stampare un giornale ma poteva fare i «giornali parlati» cioè scrivere su fogli di carta scenette, racconti, frammenti di prosa, osservazioni, riflessioni, e quindi andarli a leggere nelle baracche agli altri internati.
In questa sorta di «emigrazione coatta», Giovannino ebbe l’occasione di rivelare agli altri e a se stesso, di quale pasta egli fosse fatto, di quali valori e di quali principi morali si alimentasse la sua azione. Sappiamo bene come in certe situazioni dell’esistenza l’uomo si riveli per quello che è veramente. Ed ecco allora emergere da ciascuno il meglio e il peggio. Ecco rivelarsi gli uomini di nessuna, o di poca fede, ma anche gli uomini di fede, e di fede vera, vissuta, testimoniata. In Guareschi si rivelò quest’ultima caratteristica. Fu in forza della fede nella Provvidenza se anche nei momenti terribili e drammatici dell’internamento, Giovannino resistette, non solo, ma aiutò anche gli altri a resistere. Così che da quella condizione egli tornò rafforzato nello spirito e nella consapevolezza di avere compiuto il suo dovere di cristiano.
Alla seconda «emigrazione coatta» Guareschi fu costretto nel 1954 quando, condannato in un processo per diffamazione a mezzo stampa nei confronti del leader democristiano Alcide De Gasperi, fu rinchiuso nel carcere di San Francesco a Parma per oltre 400 giorni, e successivamente subì una sorta di esilio in patria, dovendo scontare sei mesi di libertà vigilata nei ristretti confini del comune di residenza, a Busseto.
In quel lungo periodo se gli riuscì di scrivere la sceneggiatura di un film della serie di Don Camillo, peraltro di nascosto perché il regolamento carcerario dell’epoca lo proibiva, altro non riuscì a combinare. Gli riuscirono, comunque, delle buone azioni nei confronti di altri detenuti in quel carcere, e gli riuscirono delle pagine toccanti quali sono rappresentate da talune lettere inviate alla moglie e ai figli.
C’è un’altra forma di emigrazione: quella dell’ultima parte dell’esistenza di Giovannino. Egli fu anche un emigrante stagionale. L’incontro fra lo scrittore e la Svizzera avvenne nel 1954: un periodo cruciale per Guareschi. Querelato da De Gasperi per diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato un duro commento sul leader democristiano basato su due lettere a questi attribuite, Giovannino sapeva bene che lo scontro gli sarebbe costato tantissimo, ma riteneva suo dovere di italiano combattere la battaglia, anche senza speranza di vincerla, per non tradire i principi di uomo e di giornalista libero ai quali sempre si era attenuto. Non si fece dunque illusioni sull’esito del processo e, pensando che una volta finito tutto e pagato ogni debito non avrebbe più voluto vivere in Italia, cercò un posto nel quale rifugiarsi. Avendo conosciuto nel corso di una conferenza a Lugano un docente di botanica, il professor Oscar Panzera di Cademario, lo pregò di cercargli una dimora in quel villaggio. La casa proposta (e accettata) confinava proprio con quella del professor Panzera il quale mise Guareschi in contatto con Luigi Corti, capomastro di Aranno, al quale Guareschi diede incarico di ristrutturare l’edificio quando già si trovava in carcere a Parma dopo la condanna nel processo.
Saldato il debito con la giustizia italiana, Guareschi andò ad Assisi per ringraziare san Francesco, che molto amava, di averlo protetto nei momenti più amari. Ma il filo dei suoi pensieri era spezzato. Non riusciva a riannodarlo. Così, nella primavera del 1956 salì a Cademario, deciso a rimanerci per sempre e con la speranza di poter trovare sollievo ai suoi gravi problemi di cardiopatico. Il clima, il posto e le cure del dottor Fuchs, del Kurhaus, gli furono di grande aiuto. E molto lo aiutò anche la gente del luogo con la quale strinse rapporti molto amichevoli. Nei primi tempi gli sembrava sufficiente vedere l’Italia soltanto dalle finestre dello studio, attraverso l’azzurro riflesso dello splendido lago. In seguito, sentì la nostalgia della sua Bassa, e adottò una soluzione di compromesso: qualche settimana, nelle stagioni intermedie, a Roncole Verdi, dove cercava di sistemare e di seguire i suoi affari pratici; un mese in Romagna (a Cervia) nel periodo estivo; il resto dell’anno a Cademario dove riuscì a riprendere il filo dei suoi pensieri e a scrivere Il compagno Don Camillo (1963) e Don Camillo e don Chichì, pubblicato a puntate su Oggi nel 1966; quindi in volume, postumo (1969), dal titolo Don Camillo e i giovani d’oggi. Lavori che riuscì a fare nonostante i sempre più gravi problemi di salute. Da quell’emigrazione «stagionale» volontaria in terra elvetica, sarebbe derivato un altro felice esito. Infatti, il figlio di Guareschi, Alberto, avrebbe poi sposato la figlia del professor Panzera, Gabriella, e due loro figlie vivono nel Canton Ticino.
Le forme di emigrazione che hanno caratterizzato la vita di Giovannino Guareschi, se non gli procurarono quel maggior benessere materiale che gli emigranti «normali» cercano, concorsero tuttavia alla rivelazione di una personalità straordinaria che possiamo sintetizzare in questa definizione: un uomo vero, uno scrittore grande, un maestro degno del nome, un cristiano consapevole.
* Dall’intervento tenuto a Sedegliano presso il Centro Studi Padre Turoldo.
Nel caso di Giovannino Guareschi, è stato egli davvero un emigrante? Se sì, in quali circostanze, con quali modalità ed esiti? Ho pensato che quella dello scrittore italiano del Novecento più tradotto nel mondo, se la si vuole definire emigrazione, lo è in senso lato. Perché andare in un lager nazista o in un carcere italiano significa per me «emigrazione coatta». Considerando le esperienze di Guareschi, prigioniero prima e detenuto poi, è da sottolineare come in entrambi i casi egli abbia trovato la forza di affrontare le avversità insite in quelle condizioni, nella fede religiosa che gli aveva trasmesso la madre. Non solo, ma per quel che riguarda l’internamento nei lager nazisti di Polonia e di Germania, dopo 1’8 settembre 1943 Giovannino ebbe modo di manifestare la sua generosità nei confronti dei compagni di sventura tenendo loro alto il morale. Come? Continuando a fare ciò che faceva nella vita civile. Se, infatti, in Italia era stato l’animatore del periodico umoristico della Rizzoli Il Bertoldo, l’attività di giornalista, vignettista, scrittore, umorista, continuò a praticarla fra i reticolati di filo spinato. Non poteva certo stampare un giornale ma poteva fare i «giornali parlati» cioè scrivere su fogli di carta scenette, racconti, frammenti di prosa, osservazioni, riflessioni, e quindi andarli a leggere nelle baracche agli altri internati.
In questa sorta di «emigrazione coatta», Giovannino ebbe l’occasione di rivelare agli altri e a se stesso, di quale pasta egli fosse fatto, di quali valori e di quali principi morali si alimentasse la sua azione. Sappiamo bene come in certe situazioni dell’esistenza l’uomo si riveli per quello che è veramente. Ed ecco allora emergere da ciascuno il meglio e il peggio. Ecco rivelarsi gli uomini di nessuna, o di poca fede, ma anche gli uomini di fede, e di fede vera, vissuta, testimoniata. In Guareschi si rivelò quest’ultima caratteristica. Fu in forza della fede nella Provvidenza se anche nei momenti terribili e drammatici dell’internamento, Giovannino resistette, non solo, ma aiutò anche gli altri a resistere. Così che da quella condizione egli tornò rafforzato nello spirito e nella consapevolezza di avere compiuto il suo dovere di cristiano.
Alla seconda «emigrazione coatta» Guareschi fu costretto nel 1954 quando, condannato in un processo per diffamazione a mezzo stampa nei confronti del leader democristiano Alcide De Gasperi, fu rinchiuso nel carcere di San Francesco a Parma per oltre 400 giorni, e successivamente subì una sorta di esilio in patria, dovendo scontare sei mesi di libertà vigilata nei ristretti confini del comune di residenza, a Busseto.
In quel lungo periodo se gli riuscì di scrivere la sceneggiatura di un film della serie di Don Camillo, peraltro di nascosto perché il regolamento carcerario dell’epoca lo proibiva, altro non riuscì a combinare. Gli riuscirono, comunque, delle buone azioni nei confronti di altri detenuti in quel carcere, e gli riuscirono delle pagine toccanti quali sono rappresentate da talune lettere inviate alla moglie e ai figli.
C’è un’altra forma di emigrazione: quella dell’ultima parte dell’esistenza di Giovannino. Egli fu anche un emigrante stagionale. L’incontro fra lo scrittore e la Svizzera avvenne nel 1954: un periodo cruciale per Guareschi. Querelato da De Gasperi per diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato un duro commento sul leader democristiano basato su due lettere a questi attribuite, Giovannino sapeva bene che lo scontro gli sarebbe costato tantissimo, ma riteneva suo dovere di italiano combattere la battaglia, anche senza speranza di vincerla, per non tradire i principi di uomo e di giornalista libero ai quali sempre si era attenuto. Non si fece dunque illusioni sull’esito del processo e, pensando che una volta finito tutto e pagato ogni debito non avrebbe più voluto vivere in Italia, cercò un posto nel quale rifugiarsi. Avendo conosciuto nel corso di una conferenza a Lugano un docente di botanica, il professor Oscar Panzera di Cademario, lo pregò di cercargli una dimora in quel villaggio. La casa proposta (e accettata) confinava proprio con quella del professor Panzera il quale mise Guareschi in contatto con Luigi Corti, capomastro di Aranno, al quale Guareschi diede incarico di ristrutturare l’edificio quando già si trovava in carcere a Parma dopo la condanna nel processo.
Saldato il debito con la giustizia italiana, Guareschi andò ad Assisi per ringraziare san Francesco, che molto amava, di averlo protetto nei momenti più amari. Ma il filo dei suoi pensieri era spezzato. Non riusciva a riannodarlo. Così, nella primavera del 1956 salì a Cademario, deciso a rimanerci per sempre e con la speranza di poter trovare sollievo ai suoi gravi problemi di cardiopatico. Il clima, il posto e le cure del dottor Fuchs, del Kurhaus, gli furono di grande aiuto. E molto lo aiutò anche la gente del luogo con la quale strinse rapporti molto amichevoli. Nei primi tempi gli sembrava sufficiente vedere l’Italia soltanto dalle finestre dello studio, attraverso l’azzurro riflesso dello splendido lago. In seguito, sentì la nostalgia della sua Bassa, e adottò una soluzione di compromesso: qualche settimana, nelle stagioni intermedie, a Roncole Verdi, dove cercava di sistemare e di seguire i suoi affari pratici; un mese in Romagna (a Cervia) nel periodo estivo; il resto dell’anno a Cademario dove riuscì a riprendere il filo dei suoi pensieri e a scrivere Il compagno Don Camillo (1963) e Don Camillo e don Chichì, pubblicato a puntate su Oggi nel 1966; quindi in volume, postumo (1969), dal titolo Don Camillo e i giovani d’oggi. Lavori che riuscì a fare nonostante i sempre più gravi problemi di salute. Da quell’emigrazione «stagionale» volontaria in terra elvetica, sarebbe derivato un altro felice esito. Infatti, il figlio di Guareschi, Alberto, avrebbe poi sposato la figlia del professor Panzera, Gabriella, e due loro figlie vivono nel Canton Ticino.
Le forme di emigrazione che hanno caratterizzato la vita di Giovannino Guareschi, se non gli procurarono quel maggior benessere materiale che gli emigranti «normali» cercano, concorsero tuttavia alla rivelazione di una personalità straordinaria che possiamo sintetizzare in questa definizione: un uomo vero, uno scrittore grande, un maestro degno del nome, un cristiano consapevole.
* Dall’intervento tenuto a Sedegliano presso il Centro Studi Padre Turoldo.
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017