Heidi e Klara, un mondo di storie
Ve la ricordate la piccola Heidi? Sì, proprio lei, la celebre bambina orfana allevata dal nonno tra le montagne svizzere, protagonista del cartone animato degli anni Settanta che ha tormentato la mia adolescenza insieme con l’omonimo romanzo di Johanna Spyri. Qualche mese fa, mentre mi trovavo a Belluno, circondato dalle Dolomiti, mi è tornata in mente proprio lei. Partecipando infatti a un incontro con gli studenti delle scuole cittadine per parlare di relazione e cultura dell’integrazione, ho pensato che Heidi è esempio lampante in tale ambito. Lo si vede bene nel suo rapporto con Klara, la ragazza in carrozzina con la quale la bambina instaura un rapporto d’amicizia affettuoso, ma fin troppo edulcorato.
La vera novità, però, è che quel giorno tra il pubblico, ad ascoltarmi, c’era anche un’altra Klara, anche se poco mitteleuropea. K. è una undicenne marocchina affetta da tetraparesi spastica. Come me comunica, con convinzione ed energia, attraverso la sua tavoletta di plexiglass.
Il nostro incontro, e successivo dialogo, mi hanno subito messo di fronte a una domanda più estesa e complessa, che oggi chiama l’educazione a un confronto sempre più serrato e frequente: se Klara e Heidi fossero nate in Oriente, in Asia o in Africa, che ne sarebbe stato di loro? Che ruolo giocano azione e relazione in contesti in cui la disabilità è più diffusa che in Occidente e meno tutelata, benché, talvolta, paradossalmente più rispettata? I dati emersi nel 2011 dal primo Rapporto mondiale sulla disabilità, condotto da Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e Banca Mondiale, parlano piuttosto chiaro. Il benessere delle persone con disabilità è direttamente proporzionale alla stabilità economica e alle condizioni di vita complessive dei Paesi d’origine. Non è certo una novità, ma fa sempre un certo effetto leggere che «i disabili hanno condizioni di vita pessime – dalla carenza di cibo, alle abitazioni povere fino alla mancanza di accesso all’acqua potabile – rispetto alle persone normodotate».
Si dice che il disagio economico non sia mai la causa primaria, che le ragioni siano quasi sempre da imputare ad altri ordini di fattori: culturali, religiosi e via dicendo. Eppure, dietro, c’è sempre un tutto che si tiene, un meccanismo causa-effetto difficile da arginare: la lotta alla sopravvivenza, la guerra dei poveri. Quando le risorse sono poche, come sempre, si tende al risparmio, a procedere, cioè, con l’eliminazione dello scomodo e del superfluo.
Per l’impiego di forze, personale e strutture che richiede intorno a sé, il disabile, si sa, è già per sua natura scomodo. Inoltre, è pure superfluo perché, almeno in apparenza, non può essere inserito nel ciclo produttivo. È come fare un salto indietro di cinquant’anni e ripartire da zero, ricominciare dai diritti senza dimenticare però che, come diceva il drammaturgo Bertolt Brecht, «prima c’è la pancia, poi la morale». In altre parole, e ideologie poco condivisibili a parte, ciò significa che il rispetto della qualità della vita va di pari passo con la vita stessa.
Capisco che il discorso è molto ampio, difficile da affrontare nel piccolo spazio «diversa-mente». Mi piacerebbe approfondire ancora l’argomento, ci torneremo sopra prossimamente. E voi cosa ne pensate? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.