'Ho vinto sul Talidomidee ora cerco quelli come me'
Entra in redazione con passo leggero, quasi sfiorando il pavimento. Solo dopo, un bel po' di tempo dopo, scopro che quell'incedere leggero, quasi una danza, è dovuto al fatto che ha una gamba normale e una artificiale. Perché di Nadia Malavasi, 45 anni (ne dimostra di meno), colpisce soprattutto il volto, simpatico e minuto, puntato di lentiggini attorno al naso, l'espressione vivace e il sorriso contagioso.
Nadia è una persona focomelica. Una delle tante vittime del Talidomide, il principio attivo contenuto in alcuni farmaci di uso comune (antipiretici, antinfiammatori, blandi antidepressivi, antinausea....) distribuiti in Italia tra la fine degli anni '50 e i primi anni '60, che, assunto da donne in gravidanza, ha causato la nascita di migliaia di bambini privi di qualcuno o di tutti gli arti e la morte di moltissimi altri. Alla madre di Nadia, il Talidomide era stato prescritto per sedare la tosse: l'aveva preso nelle prime settimane di gravidanza e proprio per questo aveva causato una embriopatia particolarmente grave.
È una fredda giornata autunnale quando Nadia viene alla luce in un ospedale bolognese. Com'era normale all'epoca, i sanitari suggeriscono subito ai genitori di farla ricoverare in un istituto. Ma loro sono irremovibili: la bambina non si tocca. Quella creatura fragile e indifesa e al contempo bellissima, con quel faccino così simile a quello del primogenito nato pochi anni prima, è il frutto dell'amore: com'è possibile staccarsene così? Il loro è un sì davvero incondizionato e totale. Per gli anni in cui le saranno accanto, ameranno Nadia di un amore profondo, e lei della sua infanzia trascorsa a Padova, dove nel frattempo la famiglia si è trasferita, ha un ricordo splendido, ben diverso da quello di tanti, disabili come lei. Tenuti nascosti, segregati in casa, come qualcosa di cui vergognarsi..
Fino all'età di otto anni la porta a scuola in braccio la mamma. «In seguito - racconta Nadia - grazie a una protesi applicata alla gamba sinistra, ho potuto camminare da sola. Di quel periodo ricordo la grande spensieratezza: ero spesso in giro per il quartiere, sempre in mezzo alla gente. Ricordo anche i lunghi periodi trascorsi al mare: i miei non mi hanno mai tenuta nascosta, mi dicevano che non avevo fatto nulla di male e dunque non dovevo vergognarmi...».
Il fratello, di tre anni più grande e «bellissimo» come Nadia lo descrive, le è d'aiuto nell'affrontare gli anni difficili della prima adolescenza. «Le ragazze - racconta - si avvicinavano a me per cercare di arrivare a lui, ma intanto diventavano mie amiche. E i suoi amici erano allo stesso tempo anche amici miei... In questo modo sono cresciuta circondata da tante persone e ho imparato ad avere un rapporto sereno anche con l'altro sesso».
Tutto scorre serenamente nell'esistenza di Nadia, fino a quindici anni, quando la morte improvvisa della madre le mette in subbuglio la vita. «La mamma per me era una presenza fondamentale - confida - non solo per il naturale e fortissimo legame affettivo che ci univa, ma anche perché era lei a occuparsi delle mie cose, mi confezionava i vestiti, mi accompagnava dappertutto...».
Ancora una volta, però, è il supporto di una «famiglia meravigliosa e la vicinanza di tante persone» a impedirle di soccombere sotto il peso del dolore. «Papà decise di assumere una governante fissa in casa - prosegue Nadia - che mi aiutasse nella gestione quotidiana delle cose. In questo modo riuscii ad andare avanti...».
Alla soglia dei 24 anni, un'altra tragedia la colpisce. «Ero in casa, quel pomeriggio - racconta Nadia - quando ricevetti una telefonata dall'ospedale di Rovereto: mio padre e mio fratello erano stati ricoverati in condizioni gravissime, in seguito a un incidente stradale. Ma era una pietosa bugia, perché in realtà erano già morti entrambi. A quel punto cominciò per me il periodo più difficile della vita. Ero letteralmente allo sfacelo, completamente sola. Per mesi non sono più riuscita a leggere un giornale, perché avevo paura di vedere immagini di macchine accartocciate; non rispondevo al telefono, perché la notizia terribile mi era giunta via cavo. È stata davvero molto dura. Alla disperazione è poi seguito l'imbarazzo, perché leggevo negli occhi dei miei conoscenti la pena. Qualcuno arrivò a dirmi che Dio ce l'aveva proprio con me e per un breve periodo l'ho temuto anch'io: poi, però, mi sono detta che così era troppo.... che Dio non poteva volermi tanto male e dunque che non era responsabile per quanto mi era accaduto».
Il ritorno a una vita serena
Per reazione, Nadia decide di cambiare città per un po'. «In quel periodo ero iscritta alla facoltà di lingue e letterature straniere - racconta -. Così me ne sono andata in Germania, a Wà¼rzburg, per perfezionare il tedesco, grazie a una borsa di studio semestrale dell'università . Sono partita in treno e sono ritornata in auto, perché in Germania avevo preso la patente. In Italia, a quel tempo, per una persona con una disabilità come la mia guidare una macchina era impossibile. In Germania, invece, era normale vedere ragazzi disabili anche in modo grave, come i tetraplegici, portati in braccio fino all'auto e poi partire da soli. E così mi sono chiesta: e perché io non posso farlo?».
La patente è una iniezione di fiducia che ha rivoluziona la vita di Nadia. Anche i conoscenti cominciano a guardarla in modo diverso: gli occhi pietosi lasciano spazio a una sorta di stupita ammirazione, quasi avessero di fronte una specie di marziano.
«La possibilità di guidare - spiega Nadia - mi rese autonoma. Prima non mi arrischiavo ad allontanarmi dal quartiere, nemmeno con i mezzi pubblici perché una volta, in seguito a una manovra azzardata dell'autista che si era scordato di chiudere le porte del mezzo, ero letteralmente volata fuori da un autobus. Dipendevo dagli altri, dovevo delegare tutto, anche la spesa... Adesso, invece, potevo andare a fare shopping, in vacanza con gli amici. Mi iscrissi persino a un corso di nuoto».
Il raggiungimento di questo obiettivo dà a Nadia la forza di aprirsi ancor di più agli altri. Comincia così a fare volontariato in associazioni che si occupano di disabilità . Due per tutte: l'Anglat (l'associazione nazionale guida legislazione andicappati trasporti) e il «Gruppo donne diversamente abili» che lei stessa ha contribuito con altre persone a fondare a Padova. Sono esperienze, queste, che la fanno sentire utile e le offrono l'occasione per stringere tanti altri rapporti di amicizia.
«Gli amici, in effetti, non mi sono mai mancati - precisa sorridendo -. Sembra un paradosso, ma io, rimasta sola giovanissima e in una situazione di disagio, non ho mai sofferto di solitudine. Anzi, ho sempre fatto fatica a ritagliarmi un po' di tempo per me soltanto. Ho visto la Provvidenza muovermi tante pedine attorno. Ho sentito il Signore prendersi cura di me anche in questo modo e questo mi ha aiutato a non perdere la fede, anche se devo ammettere che dopo la morte dei miei non è stato facile».
Una sera, durante una cena a casa di amici, Nadia conosce Giovanni. Nasce subito una bella amicizia che ben presto si trasforma in qualcosa di più profondo. Nel 1993 i due si sposano e nel 1994 nasce Marco, il loro unico figlio. «Ho vissuto la maternità in modo pieno e sereno - conclude Nadia - dedicando a mio figlio gran parte del mio tempo. Ho cercato di dargli tutto l'amore che i miei genitori hanno saputo dare a me. La consapevolezza di aver avuto una famiglia meravigliosa mi ha molto aiutato nella vita e il calore dei miei io lo sento ancora... Anche adesso, in alcuni momenti, mi pare di sentire la voce di mia madre che mi dice che cosa devo fare...».
Da qualche mese Nadia ha fondato l'Associazione thalidomidici italiani onlus. «Voglio aiutare altre persone come me - spiega - a uscire allo scoperto: dobbiamo metterci in rete e ottenere finalmente il riconoscimento giuridico del nostro status di talidomidici e il risarcimento che ci spetta». E Nadia, ne siamo certi, saprà vincere anche questa battaglia.