I giornali uccisi dalla tv

La curiosa storia di un
04 Giugno 1998 | di

Siamo abituati a vedere la sua firma sul 'Corriere della Sera'. Meno abituati a sentirlo parlare di sant'Antonio. Eppure la devozione e l'amore per il Santo fanno parte dell'infanzia di Gaetano Afeltra, giornalista amalfitano d origine e milanese d'adozione.

Con signorilità  non comune e una passione che non si spegnerà  mai, ci parla del giornalismo di oggi e di ieri; ma quando il pensiero va alla città  natale e a sant'Antonio, venerato anche nella splendida costiera amalfitana, gli occhi di Gaetano Afeltra si fanno lucidi e cristallini come quelli di un bambino, e il piacere di raccontare ha il sopravvento.

'Su sant'Antonio - dice il giornalista - ho un ricordo molto particolare. Provengo da una famiglia molto religiosa. Mio fratello Andrea divenne arcidiacono del capitolo metropolitano di Amalfi (formato allora da quaranta canonici), un'arcidiocesi ricca di tradizioni e di opere d'arte. Ancora oggi, il chiostro Paradiso, uno dei monumenti tra i più belli al mondo, è meta per turisti e per studiosi di arte.

'Ricordo perfettamente il giorno in cui io e mio fratello entrammo in seminario: era il 15 settembre e mio padre ci accompagnò tenendoci per mano. Io non avevo ancora dieci anni, ma rammento perfettamente le parole che mio padre usò per consegnarci nelle mani di don Felice, il rettore del seminario: 'Da oggi vostro padre sarà  questo'. Parole cariche di retorica e di solennità , che rispecchiavano perfettamente l'atteggiamento di mio padre e che appartenevano al costume di quel tempo. Io rimasi in seminario due anni, quelli del ginnasio. Allora entrare in seminario era quasi una necessità  per chi desiderava studiare, ma ci andai anche per un senso di invidia nei confronti di mio fratello; mi piaceva l'abito filettato di rosso su modello di quello vescovile; Andrea, invece, aveva una vera e propria vocazione'.

 

Msa. Lei è stato anche vestito da 'monacello di sant'Antonio'...

Afeltra. Allora a casa nostra c'era una devozione particolare: a quattro o cinque anni si usava vestire i bambini con il saio di sant'Antonio. Ciò, a volte, accadeva per adempiere a un voto che le mamme facevano prima che i figli nascessero, per propiziarsi sant'Antonio perché tutto andasse bene; o per devota gratitudine per una guarigione di una malattia contratta dal proprio bambino. Questa 'vestizione' apparteneva più al mondo dei bambini, ma spesso valeva anche per le femminucce. Noi eravamo fieri di quell'abito: ci chiamavano 'monacelli di sant'Antonio'. Una bella tradizione che mostrava la devozione di un popolo e al tempo stesso ne rivelava la sua cultura.

Cosa succedeva ad Amalfi il 13 giungo?

Il 13 giugno, ad Amalfi, c'era la processione di sant'Antonio con in testa i sacerdoti, i religiosi, i monaci di san Francesco del convento di Maiori e quella dei padri conventuali del monastero di Ravello. Per l'occasione affluivano pellegrini da tutte le zone circostanti. La statua di sant'Antonio veniva trasportata in barca, da Amalfi ad Atrani, per poi rientrare risalendo dalle spiagge e portata a spalle, nuovamente ad Amalfi dove i fedeli l'attendevano per poterla toccare, baciare un lembo della tonaca e farsi il segno della croce. Per sant'Antonio tutto è rimasto come allora; inalterati i riti del pane e dei ceri.

Gli amalfitani sono devoti al Santo?

Ad Amalfi c'è una devozione particolare per sant'Antonio. C'è un piccolo santuario antoniano, e per tradizione le chiavi della chiesa sono custodite dalla famiglia Barbaro, proprietaria dell'Hotel Luna, che è adiacente. Entrare e chiederle è normale consuetudine. In qualsiasi ora del giorno, chiunque abbia fatto un voto o voglia semplicemente entrare e pregare, sa a chi potersi rivolgere per poter accedere al santuario. La chiesa ha un coro del Duecento, bellissimo, ma ancor più bello è sant'Antonio che deve la sua popolarità , e l'affezione che suscita forse anche per quei pomelli rossi della statuetta teneri come quelli dei bambini. Nella sacrestia ci sono delle feritoie che erano del vecchio convento. Avvicinandosi a quelle fenditure si può godere uno spettacolo incredibile: da un lato del Golfo si vede Capri e dall'altro Palinuro. È lì che i due golfi si uniscono e si mescolano, il Golfo di Napoli e il Golfo di Salerno: un'immensa distesa azzurra, con a destra Sorrento, a sinistra la distesa di Pestum e di fronte la Calabria.

Da Milano è tornato spesso ad Amalfi?

Ad Amalfi, finché c'era mia madre e mio fratello sacerdote, anzi vicario vescovile della diocesi, ci andavo tutti gli anni. Poi scomparsi loro, per un po' di anni non ci sono più andato. Adesso ho ripreso ad andarci. Però sia prima che adesso non ho mai fatto la vita del turista. Tornavo a casa da mia madre, da mio fratello e dalle mie sorelle anche per poter riassaporare quei cibi che mi riportavano alla mia vera origine e dove i discorsi erano sempre teneri e casalinghi: dove avevano fatto la spesa le mie sorelle, e dove avevano comperato le alici e quanto le avevano pagate; frasi che riaccendevano in me quel forte legame con la mia terra, con quei luoghi, usando le parole leggere, insomma il lessico familiare.

Sono andato per anni anche a Stresa. Sul lungolago c'è la parrocchia e a sinistra dell'ingresso c'è una statuetta di sant'Antonio. Ebbene, ogni volta, che ci sono entrato ho acceso una candela, baciando il piede e la corona del santo, a portata di labbra come facevo da bambino ad Amalfi.

Dottor Afeltra, è più difficile fare il giornalista oggi o qualche anno fa?

Qualche anno fa voler fare il giornalista - mi riferisco al 'Corriere' - , era come entrare in un ordine monastico. Non esisteva la parola orario, c'era solo l'amore per il giornale, la passione del mestiere. Il giornale si pubblicava sempre a Pasqua, a Natale e a Capodanno. La notte di 'San Silvestro', a mezzanotte, il direttore entrava in redazione e in tipografia per fare gli auguri ai redattori e ai tipografi. L'unica sera libera era la festa del lavoro: il primo maggio. Ma Buzzati, Montanelli ed io ci trovavano ugualmente al 'Corriere': per noi, il lavoro al giornale, era un'abitudine che diventava necessità .

 

Il giornale era anche veicolo di cultura?

La cultura l'ha fatta il 'Corriere', non c'era la televisione: ci scrivevano Pirandello, D'Annunzio, poi Montale, Pasolini. Era l'unico mezzo per leggere quegli scrittori anche nelle più lontane località .

 

La televisione cosa ha cambiato?

Ha snaturato i giornali, che sono diventati sudditi della televisione. Il telecomando permette di spaziare nel mondo, ma non ha l'anima, lo spirito del giornale. Quando Vergani, Buzzati, Lilli, Max David, Montanelli facevano gli inviati riuscivano a trasferire nei loro articoli le emozioni della vita: drammatica o felice che fosse. Oggi può accadere di vedere un cronista avvicinarsi alla vedova di un agente della scorta, e chiedere: 'Cosa prova in questo momento?'.

 

Perché in Italia si leggono poco i giornali?

Questo fenomeno può trovare una sua giustificazione anche nelle condizioni economiche generali: ma anno dopo anno abbiamo visto che i lettori mano a mano aumentano.

 

Dall' 'Ambrosiano' al 'Corriere'

Afeltra esordì nel 1941 all' 'Ambrosiano' e fu assunto al 'Corriere della Sera' nel 1942. La notte del 25 luglio era lui di turno: gli toccò fare il 'Corriere' di quel giorno, come toccò ancora a lui fare quello dell'8 settembre col giornale listato a lutto e che aveva per titolo una sola parola 'Armistizio'. L'8 settembre del 1943 fu il suo ultimo giorno di permanenza al quotidiano di via Solferino, abbandonandolo poi per venti mesi per partecipare alla resistenza. Il 25 aprile, rientrato con Mario Borsa, fece il giornale di quella memorabile giornata. Al timone del 'Corriere Lombardo', 'Milano sera' e, successivamente, responsabile della celebre edizione del pomeriggio: il 'Corriere d'Informazione'. È stato vicedirettore del 'Corriere della Sera', poi direttore de 'Il Giorno', per tornare al 'Corriere', suo primo amore.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017