I mutanti e il rischio del normale
Il discorso sulla disabilità soffre spesso di fraintendimenti grossolani. Il primo è pensare la persona diversamente abile come bisognosa di aiuto e assistenza, dimenticando di riconoscerla come soggetto con diritti e doveri, capace di azione, pensieri, relazioni. Affermo da sempre quanto sia necessario passare da una visione statica della persona disabile, come «oggetto di cura», a una dinamica, che consideri la persona come «soggetto di cultura».
Questo fraintendimento – vera banalizzazione dell’individuo – si rinnova ogni volta che si pensa a come è affrontato il tema ampio della disabilità: convegni grigi per specialisti, riviste di settore, libri di stampo scientifico, didattico o sociale. Eppure non immaginate quanti film, canzoni, libri e favole affrontino l’argomento con prospettive talmente inaspettate, che spesso non cogliamo nemmeno i riferimenti alla disabilità che contengono. Tali produzioni artistiche apportano idee e visioni interessanti, soprattutto se l’elemento estetico non si trasforma in pratica estetizzante, cioè quando si rinuncia a mitizzare e a sclerotizzare la figura del disabile, parlandone in maniera indiretta, inserendolo in un contesto non prevedibile, o presentandolo «sotto mentite spoglie». Un esempio positivo è La Cosa di John Carpenter, che ben descrive l’imbarazzo di fronte al non conosciuto, che ci si rifiuta di capire.
Di solito faccio proprio fatica a vedere i film di fantascienza. Un giorno, però, alcuni amici mi invitarono al cinema per X-Men 3 – Conflitto finale. Accettai, senza conoscere i due episodi precedenti, soprattutto per la birra che avremmo bevuto insieme dopo la proiezione: ma a posteriori posso dire che ne valse davvero la pena! Eppure in che modo questo film si inserisce nel filone di quelli che affrontano l’argomento della diversità e del rapporto che l’uomo sa instaurare con essa? Credo che il regista non avesse la minima intenzione di esprimersi in proposito: ricordate la trama del film? Il governo Usa, temendo di perdere potere, elabora una cura capace di annientare per sempre il gene mutante, quello appunto che dà vita e forma diversa ai vari Wolverine, Tempesta, Magneto, eccetera. Sottesa a questa azione c’è un’idea della diversità come di una malattia da debellare: la visione diffusa e condivisa di «normalità» porta molti mutanti a chiedersi se non sia il caso di accettare questa cura, incerti se considerare la propria diversità un difetto da estinguere o, al contrario, una risorsa da conservare, approfondire e ampliare, in un mondo in cui vivere la propria diversità comporta comunque rischi, ostacoli e mille difficoltà.
Credo che partendo da questo film si possano toccare temi fondamentali, come l’idea erronea che la diversità e la disabilità debbano per forza essere affrontate come patologie, creando con esse un rapporto solo di tipo assistenziale e curativo. È un atteggiamento giusto, ma solo in prima istanza, perché poi a esso deve subito far seguito una relazione più articolata, alla pari.
Un altro nodo centrale è il tema dell’identità: se una persona sente di doversi adeguare a un modello diffuso, avvertendo nell’ambiente che lo circonda una richiesta, anche tacita, di normalità, questo non può che portare alla rinuncia di ciò che si è realmente. Il film, per l’appunto, è in grado di parlarci di ciò che percepiamo come normale, di come questa percezione tende a fagocitare identità e rappresentazioni di sé differenti, inducendo gli stessi «portatori» di diversità a considerarsi come un’anomalia da correggere. Un argomento, in questo periodo, di stringente attualità.
Morale della favola? A volte, per ragionare su argomenti complessi e contradditori, è sufficiente andare al cinema! E voi, che genere di film prediligete? Cliccate su claudio@accaparlante.it