I nuovi migranti chiedono risposte

Le prime generazioni, non ancora integrate nelle chiese d'arrivo, e le successive generazioni ai margini delle istituzioni religiose, devono essere destinatarie di una nuova evangelizzazione.
11 Maggio 2010 | di
«Residuale» è un aggettivo molto in voga presso il governo per giustificare il drastico ridimensionamento delle politiche a favore delle comunità italiane all’estero. L’aggettivo è stato ripreso in ambito ecclesiastico per spiegare non solo la diminuzione dell’invio di nuovi sacerdoti dall’Italia, ma anche per riportare in Italia forze ritenute più necessarie nella penisola. Si va così consolidando l’idea che il prendersi cura degli emigrati italiani, vecchi e nuovi, quali i professionisti, gli studenti e i ricercatori che con sempre maggiore frequenza varcano le frontiere, non faccia parte delle priorità pastorali della chiesa italiana. A ben pensarci, in ambito cristiano non dovrebbe esistere il concetto di residualità. Agli occhi di Dio, ogni singola persona è importante.
Azioni adeguate ai tempi
Confrontati con l’ideologia della residualità, gli operatori pastorali attivi in campo migratorio si sono chiesti se il loro intento sia quello di difendere interessi di parte, riducendo la cura pastorale dei migranti a una difesa etnica della comunità oppure quello di sviluppare un cammino di riflessione teologica e di prassi pastorale innovativa all’interno di un progetto che si propone di vivere la multiculturalità come convivialità delle differenze. Purtroppo si tratta di un approfondimento lasciato spesso ai margini dai teologi di professione, sebbene la nostra sia definita l’era delle migrazioni. Questo disinteresse, oltre a favorire la proliferazione di progetti assistenziali in cui il dilettantismo e le inclinazioni personali hanno il sopravvento, porta a negare una storia densa di significati e che ha inciso profondamente sul volto di numerose chiese locali. La negazione della memoria è preoccupante perché, senza questo stimolo, le chiese locali sono condannate a vivere una monoculturalità che deturpa il volto cattolico della Chiesa. Non si tratta pertanto solo di ridefinire la funzione specifica delle Missioni per gli emigrati. Le Missioni tra gli italiani all’estero costituiscono una memoria storica e un modello di sperimentazione pastorale che, se studiati in profondità, permettono di individuare le linee pastorali da applicare ai nuovi flussi migratori in Italia.
L’accentuazione delle note della cattolicità e della comunione, induce le Missioni a formare i fedeli migranti a vivere la loro vocazione da protagonisti e non da assistiti. Si investe ormai quasi esclusivamente sulla formazione del laicato. Il coordinamento nazionale in Svizzera ha ripreso i corsi di Teologia, frequentati da giovani di seconda e terza generazione. In Germania si moltiplicano gli incontri di formazione per laici a livello nazionale e zonale. Le Missioni si sono messe a servizio della nuova evangelizzazione in un’Europa divenuta indifferente a Dio ma sempre sollecita a osteggiare la religione. Da tempo hanno avviato un cammino di comunione. Tante Missioni in vari cantoni svizzeri sono divenute esemplari per la comunione di intenti con le Missioni viciniori in progetti comuni, quali i corsi di formazione per fidanzati, i corsi per lettori e per i ministri straordinari dell’Eucaristia, l’impegno nel settore giovanile, e per l’unione sempre più salda con le parrocchie locali. Per favorire un contatto capillare con tutti gli emigrati, la stampa cattolica di emigrazione in Europa ha saputo aggiornarsi sia tipograficamente sia come contenuti.
In Svizzera viene pubblicato l’unico settimanale cattolico in lingua italiana al Nord delle Alpi, ora apertosi anche al Belgio. I mensili giungono puntualmente a tutte le famiglie di una determinata zona. Un’attenzione preminente viene data alle coppie vecchie e nuove per sostenerle nel loro amore reciproco con ritiri, incontri per giovani coppie e soprattutto con il contatto personale e la celebrazione di particolari ricorrenze. Il boom della terza età non vede le Missioni impegnate a offrire programmi religiosi e culturali di grande respiro per trasformare questa nuova stagione della vita in un’occasione di fede e di solidarietà. Si punta inoltre a sensibilizzare la società a rispettare i diritti specifici degli emigrati anziani. La sfida delle nuove generazioni assilla i missionari, desiderosi di far scoprire ai giovani la gioia della fede e a vivere tutte le potenzialità di una personalità trans-nazionale.
Occasioni di confronto per i giovani
Oltre all’invio di nuovo personale, sarebbe utile per le comunità residenti all’estero poter usufruire della presenza di giovani italiani che trascorrano l’anno di servizio civile in emigrazione lavorando all’interno dei mezzi di comunicazione sociale, nell’animazione dei gruppi giovanili, nel mondo degli anziani. Occorre chiedersi il motivo per cui nei seminari e nella facoltà di Teologia in Italia, i corsi di Storia ecclesiastica e di Pastorale trascurino il fenomeno delle migrazioni. Serve altresì domandarsi perché non si favoriscano occasioni di confronto tra operatori presenti in emigrazione, e operatori che lavorano tra gli emigrati per scambi di informazioni e per l’approfondimento di quei principi che devono guidare quanti vogliono dare all’accoglienza un volto autenticamente cristiano. Non si comprende perché non vengano favoriti stage tra gli emigrati per i giovani sacerdoti italiani. Don Primo Mazzolari, inviato tra gli emigrati ad Arbon, in Svizzera, da monsignor Geremia Bonomelli, imparò ad aprire gli occhi e il cuore di fronte a questa realtà, e divenne luce della chiesa. I giovani sacerdoti avrebbero la possibilità di apprendere un’altra lingua, di entrare in contatto con un’altra chiesa e di testare la loro educazione alla mondialità. Il cammino europeo che la chiesa italiana incoraggia con una lungimiranza esemplare, non passa forse anche attraverso questa «contaminazione»? Una mentalità meno provinciale aiuterebbe ad avvicinarsi con più umiltà e più gioia alle nuove culture che stanno ridisegnando il volto dell’Italia. L’aver appreso a valicare le frontiere e a confrontarsi con una nuova cultura, come hanno saputo fare gli emigrati, vorrebbe dire immettere una ricchezza impensata nella chiesa locale.
La domanda più vera, però, non verte sul futuro delle Missioni Cattoliche Italiane in Europa – tema ampiamente discusso, negli ultimi vent’anni, dagli organismi ecclesiali e che è sempre sfociato in ulteriori chiusure. I missionari insistono su «quale volto di chiesa» si intende privilegiare, e in quale tipo di chiesa si vuole praticare la pastorale dell’accoglienza. Occorre insomma una grammatica nuova, reperibile nella Bibbia e nell’ecclesiologia, che faccia spostare l’accento da una pastorale pensata per mantenere e conservare a una pastorale missionaria in cui l’aspetto più importante non sia tanto quello di percorrere la via del rafforzamento delle strutture quanto piuttosto la via debole dell’acquisizione identitaria profetica. Le Missioni invocano una «segnaletica» nuova, che indichi un popolo di Dio che sceglie di vivere la comunione delle differenze e non l’anti-cattolico appiattimento delle diversità.
Mentre qualcuno registra il passaggio dall’impegno alla residualità, altri intravedono nelle Missioni quel minuscolo germe che, sbocciando, indicherà quale debba essere la nuova frontiera della chiesa in Europa: una chiesa dove la differenza è di casa e dove i diversi doni dello Spirito, elargiti ai vari gruppi, non sono da considerarsi un mero ornamento, ma un contributo vitale per il bene comune. Le Missioni per i migranti, minuscolo laboratorio di cattolicità e di comunione, sono un invito alle chiese locali a verificare la loro cattolicità. Il pluralismo etnico e culturale nella Chiesa, infatti, non costituisce una situazione da tollerarsi in quanto transitoria, ma una sua dimensione strutturale.
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017