I nuovo vizi degli italiani. Irresponsabilità e indifferenza

28 Aprile 2009 | di

E liberaci dagli altri


di Umberto Folena


Questo è il motto che pare accomunare oggi buona parte dell’umanità. E invece c’è un’innegabile correlazione tra altruismo e felicità: le persone più altruiste sono in assoluto quelle che appaiono più felici.



Per cominciare



G. Ravasi, Commento alla Via Crucis. Stazione 5, 2007



Sono le 22 del 13 febbraio 2009 a San Vitale, quartiere periferico di Bologna. Una ragazza di 15 anni scende in strada per aspettare gli amici. Le si avvicina un uomo di 33 anni che la molesta. Le tira degli schiaffi e la trascina dietro i cespugli di un giardino, dove la violenta. Un vicino di casa di 44 anni sente la ragazza gridare e invocare aiuto. Accorre, vede la scena e chiama subito il 113. Intanto intima all’aggressore di lasciar stare la ragazza, ma quello se ne infischia, anzi lo minaccia. Il soccorritore cerca di fermare due auto, invano. Chiede aiuto anche a un uomo di passaggio. «Stanno violentando una ragazza» gli dice. E quello: «Non sono affari miei». E si allontana.
La polizia arresterà il violentatore. Il questore di Bologna ringrazierà di persona l’unico testimone. Ma non è questo il punto. Episodi del genere sono purtroppo frequenti. Una persona in difficoltà circondata dall’indifferenza dei passanti; e spesso la situazione si risolve perché, tra tanti indifferenti, qualcuno responsabile si trova ancora.
Il punto è che tutto sembrerebbe dar ragione a Melodie Beattie, autrice di un celebre manuale di «autoapprendimento» che negli Usa, dal 1987 in poi, ha venduto più di 5 milioni di copie. «Il modo più sicuro per impazzire – scrive la Beattie – è farsi coinvolgere negli affari altrui, e il modo più sicuro per essere sani e felici è farsi gli affari propri». Il titolo del suo best-seller, E lìberati dagli altri, non lascia spazio a equivoci.
Chi oserebbe dirsi d’accordo con lei? Apertamente, quasi nessuno. Però poi, all’atto pratico, moltissimi si comportano così. La regola non scritta che guida l’esistenza di una larga porzione di umanità è appunto questa: non lasciarsi coinvolgere; se ti lasci coinvolgere sei fregato; chi si fa coinvolgere non è più padrone della propria vita e condanna se stesso all’infelicità.

Poco importa che proprio l’esperienza suggerisca l’esatto contrario. Diametralmente opposta a quella della Beattie è la posizione di Matthieu Ricard, monaco e studioso di buddismo tibetano: «Il miglior modo per assicurarci la felicità, è assicurare quella altrui; essere reciprocamente altruisti è una situazione che comporta benessere per tutti». Non solo, egli afferma, tutto ciò è virtuoso, ma è anche ragionevole: «Gli studi condotti su centinaia di soggetti hanno rivelato che vi è un’innegabile correlazione tra altruismo e felicità: le persone più altruiste sono in assoluto quelle che appaiono più felici».

Chi si ostina sempre e assolutamente a farsi gli affari propri, anestetizzando la propria anima per non provare emozioni di fronte all’altrui grido di aiuto, sarebbe dunque irragionevole. Eppure l’indifferenza sembra prevalere, e non soltanto nei confronti dei nostri vicini, come la ragazza bolognese, ma anche nei confronti dei lontani. Pochi si sentono direttamente coinvolti nei drammi del Darfur o del Congo o della Birmania; e pochi, anche se politicamente impegnati, avvertono un sussulto di fronte alla mancanza di democrazia e libertà dei popoli della Corea del Nord o di certe pseudo-democrazie dell’America Latina, per non parlare dei diritti civili e della libertà religiosa in Cina.
Dov’è finito il celebre I care (vale a dire «M’importa, mi sta a cuore») che don Lorenzo Milani tendeva ad applicare a tutto, senza sconti?
E il senso di responsabilità, parola che letteralmente significa «rispondere in maniera abile, consona, appropriata»? Se la responsabilità è coraggio, l’indifferenza è vigliaccheria. Per George Bernard Shaw era ancora di più: «Il peggior peccato contro i nostri simili non è l’odio, ma l’indifferenza; questa è l’essenza della disumanità».


E noi cristiani?


Un’opportunità da non perdere


di don Chino Biscontin*


Chi ci chiede bontà ci sta offrendo, in realtà, la possibilità di diventare uomini e donne migliori.


Nella parabola del «ricco cattivo e del povero Lazzaro» (così intitola la nuova Bibbia di Gerusalemme, Lc 16,19-31), c’è un particolare che va sottolineato. Del ricco non si dice che era cattivo. Non si dice, ad esempio, che aveva ottenuto la ricchezza imbrogliando o magari derubando Lazzaro e riducendolo così in miseria, che non si recava al Tempio per le grandi feste, che era arrogante con la servitù, o altro ancora. Semplicemente lo si descrive come un uomo così ricco che non si limitava a cibarsi, ma ogni giorno «si dava a lauti banchetti»; che non solo si copriva, ma che «indossava vestiti di porpora e di lino finissimo». Eppure Gesù, dopo la morte, lo colloca «negli inferi tra i tormenti». Perché? La risposta che emerge dal racconto è questa: alla sua porta c’era un povero «coperto di piaghe», ma lui non se n’è mai curato. «Erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe», annota malinconicamente Gesù. È l’indifferenza di fronte alla miseria altrui, quindi, che ha determinato il fallimento totale, la perdizione di questo ricco. Il fatto è che ogni volta che noi reagiamo davanti a una provocazione che ci viene dal prossimo – nel caso di Lazzaro la provocazione alla solidarietà – decidiamo anche di noi stessi.

Quando riceviamo da Dio la nostra esistenza, essa è solo un progetto che Egli ha appena impostato e abbozzato; spetta a noi, nel corso della vita, condurla verso una figura personale che sia un capolavoro, in modo tale da raggiungere la piena fioritura del nostro essere. Ora, proprio il prossimo che mi sta davanti con il suo appello a un comportamento positivo, mi offre l’opportunità di dilatare la mia positività. Ma allora la decisione con la quale dono la mia solidarietà agli altri rappresenta anche il colpo d’ala che mi porta più in alto, che mi rende più grande. In fin dei conti, chi mi chiede bontà mi sta offrendo l’opportunità di crescere nella bontà.
La risposta negativa – sia essa quella dell’indifferenza o dell’irresponsabilità, entrambe risposte positive mancate – rattrappisce il mio essere, mi condanna alla piccineria. Al punto tale che san Paolo, nel celebre Inno alla carità (1Cor 13,1-13), afferma che «se non avessi la carità, sarei un nulla». Non è forse per questo che Gesù assegna un nome al povero – quello di un amico che gli è caro, Lazzaro – mentre il ricco rimane senza nome?
Se nel passato la predicazione ha peccato di moralismo (al punto tale che nel dizionario la parola «predica» ha come sinonimi: «sgridata», «rimprovero», «ramanzina», «paternale»), va detto che, attualmente, si sente l’esigenza di una chiara e insistita riaffermazione, nelle omelie e nella pedagogia catechetica, del fatto che nel cristianesimo l’amore verso Dio non può essere mai slegato dall’amore verso il prossimo. Deve essere chiaro a tutti che la decisione che prendiamo – consapevolmente o meno – riguardo al prossimo in difficoltà, la prendiamo anche riguardo a Dio (come insegna Mt 25,31-46), e che dall’apertura o dalla chiusura davanti a Dio dipende la nostra stessa salvezza o la nostra perdizione. L’amore verso il prossimo non può allora limitarsi a essere slogan che riempie la bocca e suona bene nel discorso, senza impegnarsi nell’analisi realistica dei problemi e dei bisogni altrui. E non può essere nemmeno sentimentalismo, che inonda il cuore di dolcezza ma si arrende di fronte all’amarezza che inevitabilmente richiede la ricerca dell’efficacia nel dare una vera mano agli altri. Dev’essere, invece, un amore che si possa «misurare» con l’orologio: tempo che sottraiamo a noi stessi e dedichiamo alle necessità degli altri; che si possa «vedere» nel portafoglio: denaro che decidiamo di donare agli altri. Un amore, cioè, fatto di gesti concreti, di disponibilità a offrire agli altri il nostro tempo, i nostri beni e, perché no?, anche la nostra competenza ed efficacia nel perseguire in modo tenace e fedele la solidarietà.       



Chi punta il dito


La denuncia del menefreghismo


Indifferenza? Irresponsabilità? Sono neovizi molto sentiti da quattro italiani su cinque. Analizzando i dati dell’indagine demoscopica condotta per il «Messaggero di sant’Antonio» da Astra Ricerche, a balzare agli occhi non sono tanto le differenze tra gli intervistati ritenenti gravi e diffusi tali atteggiamenti, quanto un sostanziale appiattimento senza picchi, come avviene di solito quando uno tsunami socio-culturale ha deturpato l’intero paesaggio. Alcune sottolineature, comunque, permettono di tracciare l’identikit dell’accusatore. A essere preoccupati – l’avreste detto? – sono più gli uomini che le donne. Altra sorpresa: sono più i giovani adulti che gli anziani. I picchi, infatti, si hanno nei 35-44enni (l’84 per cento ritiene gravi e diffusi indifferenza e irresponsabilità) e nei 18-24enni (80 per cento), soprattutto del Nord-ovest, e a maggior ragione in Lombardia. In quali centri abitati il fenomeno è accentuato? Qui tutto come nelle attese, perché sono le grandi città a svettare (83 per cento), anche se l’ambiente metropolitano non è l’unico a soffrire di isolamento relazionale: sono pure i residenti nei piccoli Comuni con meno di 10 mila abitanti a lamentare soprammedia il dilagare del menefreghismo, forse perché nei paesi il fenomeno è recente e meno accettato. Indagando il nucleo familiare, si vede come siano soprattutto i single a preoccuparsi del disinteresse per il prossimo. Evidentemente chi vive nella quotidianità di casa insieme ad altre persone è un po’ meno esposto a questa sofferenza. Anche internet non sembra aiutare: l’indifferenza inquieta chi naviga in rete più di chi non lo fa. Per concludere, il profilo non include la condizione sociale, che è quella media, formata da laureati o diplomati che lavorano come impiegati, docenti o tecnici.

A.F.



Di che vizio sei?


Meglio meneghino o meridionale?


di Giovanni Ventimiglia


Da Nord a Sud l’Italia è un Paese di indifferenti. Un’indifferenza che si manifesta in modi diversi, ma con identico risultato: allontanarci gli uni dagli altri.


Mio nonno faceva ancora le «visite di cortesia». Se in paese − Gangi per la precisione: una delizia di case arroccate su un monte al centro della Sicilia − in una famiglia di amici o conoscenti vi era stato un lieto evento (una nascita, un matrimonio o anche solo la laurea di una figlia), oppure una disgrazia (una malattia, un lutto), mio nonno si annunciava e andava, di solito il giorno dopo, a far loro visita di cortesia, peraltro molto gradita.
Altri tempi, altri luoghi. Ve lo immaginate un milanese oggi che vi telefona per annunciare la sua visita il giorno dopo per congratularsi per la laurea di vostra figlia o anche soltanto per la nascita di un figlio o in occasione di una malattia? Ma non gli passa neanche per la mente di «autoinvitarsi» e disturbarvi! È discreto ed educato lui, mica un terrone! O forse, a volte più verosimilmente, di voi e di vostra figlia non gliene importa assolutamente nulla, impegnato com’è a seguire, fra lo stress di mille impegni e mille happy hour, gli andamenti della Borsa. E ipocritamente spaccia per rispetto nei vostri confronti il suo sconfinato meneghino menefreghismo. Nelle grandi città del Nord Italia prevale di solito l’indifferenza.

In compenso al Sud in genere impera l’indifferenza nei confronti delle cose, specialmente quelle pubbliche. Tutti conosciamo il degrado in cui versano strade e parchi pubblici delle città del Meridione d’Italia. È un’indifferenza verso le cose che poi è indifferenza verso le persone che non si conoscono, possibili utenti di quel bene pubblico. D’altra parte, si sa che la cultura meridionale è tendenzialmente «familistica»: se l’altro è amico, allora appartiene alla mia «famiglia» e merita tutto, compreso quello che è illecito, se invece è uno sconosciuto, non appartiene alla mia famiglia e non merita nemmeno un giardino pubblico pulito. Per questo nella stessa città esistono case private pulitissime e strade pubbliche immonde. Della cosa pubblica non ci si sente responsabili. E noi? Di che «menefreghismo» siamo? Tipo «meneghino» o «meridionale» (essendo queste intese come «categorie dello spirito»)?
Domandine: salutiamo gli altri in ascensore? Se, posteggiando, tamponiamo un auto, lasciamo un biglietto con il nostro numero di telefono? E in coda, fermi in autostrada, spegniamo il motore dell’auto? E della cosa pubblica quanto ce ne importa? Quanta partecipazione dimostriamo agli amici negli eventi lieti o tristi della loro vita?
La scorsa estate sono tornato, dopo molti anni, nel paese di mio nonno. In tre giorni non sono riuscito a pagare una sola volta al bar. Gente a me ormai quasi sconosciuta si premurava di venirmi a salutare, offrirmi da bere, invitarmi a pranzo a casa sua. La signora Aurora ha persino aperto il suo ufficio di domenica, per darmi un documento che cercavo. Ero sommerso da un calore umano commovente. A Gangi, come in tanti altri paesi simili, non abita l’indifferenza. Così, alla cassa del bar, all’ennesimo mio tentativo di ricambiare tanta attenzione, il proprietario mi ha detto: «A me basta che mi stringi la mano... e poi tu sei il nipote di un galantuomo». Così mi sono tornate alla mente le «visite di cortesia» di mio nonno.
E la Chiesa, a che punto è? Quanto conta oggi nella Chiesa essere una compagnia per gli uomini, contro l’indifferenza dilagante? Nell’agenda di un cattolico conta più andare alle riunioni settimanali per contarsela sulla Chiesa e i suoi nemici o dedicarsi in silenzio alle opere di misericordia corporali e spirituali? Vi ricordate? Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, allog­giare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati...!



Spunti di catechesi.

“Qual è il posto degli altri nella tua vita?”


«Sia lodato Gesù Cristo».

«Sempre! Il Signore sia nel tuo cuore e nella tua bocca. Allora, che peccati hai fatto?».

«Mi dica qualcosa lei, io non so cosa dire…».

«Come mai? Non ti sei preparato?».

«È che, a essere sincero, io i peccati non ce li ho».

«E allora perché sei venuto a confessarti?».

«A essere sincero, è stata mia moglie. Dai, vatti a confessare! È tanto che non lo fai… Io, poi, ci tengo a essere cristiano. I miei genitori mi hanno insegnato così e io faccio così. Io non sono come quelli che...».

«Ho capito. Allora sentiamo un po’: sei in pace con tutti?».

«Certo! Io non do fastidio a nessuno. Io con tutti: “Buon giorno e buona sera”. Se uno mi fa del male, non lo odio. Per me è come se non esistesse».

«Ho capito. Ma in famiglia, nel condominio?».

«In famiglia tutto a posto. Nella famiglia mia, grazie a Dio, si fa come dico io e non c’è problema. Io non sono come quelli che…».

«E con gli altri, nel condominio, nel lavoro?».

«Nel condominio, l’ho detto: “Buon giorno e buona sera”. Alle riunioni ci mando mia moglie. Tanto servono solo per arrabbiarsi». 

«Ma, nel lavoro, ti interessi dei problemi di tutti, sei disponibile ad aiutare chi è in difficoltà?».

«Padre, lo sa anche lei, nel lavoro ognuno pensa per sé. Quando ho iniziato il mio lavoro, facevano di tutto per farmi commettere degli errori. Avevano paura che gli passassi davanti. Io questo non lo fo’. Però non mi voglio impicciare di niente e di nessuno. Ognuno per sé e Dio per tutti».

«Be’, in realtà Dio ha detto: portate ciascuno i pesi degli altri».

«Cioè?».

«Cioè, aiutatevi a vicenda, sempre».

«Caro padre, una volta si poteva fare, oggi no. Oggi se dai un dito, ti prendono anche il braccio. Io però a messa ci vengo sempre. Poi mi vede. Vengo alla mattina presto, quando c’è poca gente, quando non si fanno tutti quei canti, quelle storie… Per esempio, io quella di darsi la mano in chiesa proprio non la capisco. Ma che significa?».

«Significa che se uno si dà la mano durante la messa, se la deve dare anche fuori, in famiglia, nel condominio, nel lavoro, dappertutto...».

«A proposito, padre, adesso mi ricordo: una volta mi è scappata una bestemmia, ma me l’hanno proprio tirata fuori. Stavo a fare una pratica in Comune e c’era uno che voleva per forza passarmi davanti».

«Be’ si faceva i fatti suoi, come fai tu. Ma, tornando alla messa, la pace che ci si scambia lì è un impegno a creare pace anche nella vita, altrimenti è inutile venire a messa».

«Ah no! A messa io sempre! Me l’hanno insegnato i genitori, e io li rispetto. Ma…, padre, non mi ricordo, quante Ave Maria devo dire per penitenza?».

Tonino Lasconi
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017