Igor Man: «Non ho perso la fiducia nell’uomo»

La guerra e le guerre; le efferatezze di un terrorismo spietato; la possibile convivenza tra popoli diversi: il passato e il presente... in un lungo colloquio con uno dei maestri del giornalismo italiano.
06 Gennaio 2002 | di

 Igor Man, inviato, editorialista de «La Stampa», e nostro collaboratore, è uno dei maestri del giornalismo italiano. Nel 1998, a suggello di una vita tutta spesa a raccontare con onestà  e precisione quanto di bello e di brutto avviene nel mondo, gli è stato conferito il premio giornalistico Saint Vincent alla carriera. Uno dei tanti incamerati negli ultimi anni.

Entrato nel giornalismo dopo la liberazione (aveva militato nelle file della Resistenza) al «Tempo» di Roma, fu subito inviato a Vienna a raccontare l`€™invasione russa dell`€™Ungheria. La prima di una lunga serie di guerre e di tragedie di cui fu testimone: dalla crisi del Canale di Suez nel 1956, al Vietnam negli anni Sessanta, alla guerra del Golfo del 1991...

Per questa sua lunga esperienza che lo ha portato a conoscere un`€™infinità  di situazioni, di persone semplici e di personaggi importanti, lo abbiamo scelto a iniziare questa serie di interviste ai «testimoni del nostro tempo» che si protrarrà  per tutto il corso dell`€™anno.

Msa. Dati i tempi, tempi di guerra, la prima cosa che ci viene da chiedere a lei, che di guerre ne ha viste, è se tra le tante ne abbia trovata una che sia stata utile a qualcosa.

Man. Odio la guerra non fosse altro perché obbliga il fratello a uccidere il fratello. Odio la guerra ma il destino ha voluto che in ragione del mio lavoro, vi inciampassi non poche volte. Odio la guerra e tuttavia debbo ammettere che l`€™ultima, quella che gli storici chiamano la seconda guerra mondiale, fu «utile». Liberò, infatti, l`€™Italia, l`€™Europa dal nazifascismo. Una guerra ineludibile che vide il popolo americano impegnarsi in una sorta di «crociata moderna» contro il maligno: Hitler portatore di una blasfema ideologia satanica, il nazismo, appunto. Chi, come il sottoscritto, ha vissuto i nove mesi di Roma occupata dai nazifascismi, chi ha subito la strage delle Fosse Ardeatine, chi ha rischiato di morire `€“ letteralmente `€“ di fame per non vendersi all`€™occupante e ai suoi sinistri lacchè, ha accolto, il 4 di giugno del 1944, i GI come liberatori. Certo, sappiamo che gli Stati Uniti sono scesi in guerra anche per segare una Germania grande potenza industriale ma rimane il più ampio impegno: quello di dare all`€™Europa il frutto prezioso chiamato democrazia.

Quella in corso, servirà  a qualcosa? Il terrorismo provocato da frange estremiste del mondo islamico, che pure ci mette angoscia, avrebbe potuto essere combattuto in altro modo, oltre che militarmente?

Servirà  senz`€™altro ad arricchire i mercanti di cannoni. Ma questa, a ben vedere, è una battuta forse troppo cattiva. Gli è che il terrorismo, quello praticato da «estremisti islamici», non sembra possibile sradicarlo con una guerra convenzionale, ancorché gonfia d`€™armi sofisticate al massimo. Come l`€™Afghanistan insegna, si possono vincere molte battaglie, si possono mettere con le spalle al muro personaggi sinistri che hanno in dispregio la morte (altrui), quali il troppo reclamizzato Omar e l`€™ex palazzinaro e, poi, mercante di droga, Osama Bin Laden. Si possono inventare governi se non illuminati certamente migliori di quello del Talebani, presuntuosi «studenti del Corano» (ignoranti cattivi, fanatici ignorano il libro dei musulmani, ne manipolano il senso e la lettera, bestemmiano in fatto il Dio unico), gente senza onore pronta al compromesso più osceno pur salvare la ghirba, personaggi infoiati dal «gusto di uccidere». Kipling ha scritto che gli afghani uccidono per il gusto di uccidere: oggi sappiamo che sbagliammo definendo «razzista» uno scrittore in ogni caso grande.

È possibile combattere il terrorismo in altro modo? Innanzitutto accorre distinguere tra azioni terroristiche e motivazioni delle stesse. Sappiamo che i terroristi arruolati da Osama Bin Laden erano mossi da un odio profondo verso l`€™Occidente cristiano e i suoi (orgogliosi) simboli, tanto forte il loro odio nei nostri riguardi da spingerli a uccidersi per uccidere, per distruggere uomini e cose occidentali. Più importante: sappiamo che codesti terroristi lucidi erano persone agiate se non addirittura ricche, inserite nel tessuto del benessere postindustriale. Stando cosi le cose, possiamo soltanto condannarli in forza dei nostri parametri cristiani.

Qualcuno riuscirà  forse a perdonarli, come i famigliari di Bachelet, ucciso dalle Br, che seppero perdonare gli assassini del loro caro. Ma questo è un altro discorso.

Per quanto riguarda il vecchio cronista, posso dire che li condanno e insieme li compiango: perché hanno sciupato con la propria, la vita di tanti innocenti.

Anche i terroristi suicidi di Hamas, coloro che si fanno saltare in aria provocando con la loro orribile morte la fine straziante di persone innocenti, di bambini, anche costoro sono da condannare. Tuttavia nel loro caso è consentito domandarsi «perché si uccidono per uccidere». La risposta più secca sarebbe: perché odiano il nemico che gli nega tutto e questo nemico che deve avergli confiscato anche la speranza, loro lo individuano in ogni israeliano. Al contrario degli assassini benestanti di Osama Bin Laden, quelli di Hamas sono giovani disperati. Persone che si sentono tradite dalla storia, combattenti sconfitti da un nemico che negherebbe loro il diritto di avere una patria, una vita serena, un lavoro, una famiglia. L`€™islam considera il suicidio peccato mortale. Ma il vecchio imam Khomeini, leader spirituale degli sciiti, avallò il terrorismo suicida spiegando che chi uccide per uccidere non pecca bensì sublima se stesso consegnandosi al martirio, scorciatoia per il paradiso. Furono gli hezbollah, (quelli del «partito di Dio») nati dalla costola dei pasdaran, spediti da Khomeini in Libano negli Ottanta, a praticare per primi il terrorismo suicida contro i soldati israeliani. Il deteriorarsi della situazione politica, la presa di coscienza da parte di molti giovani palestinesi (sunniti) della Destra israeliana non il avrebbe mai consentito di riavere la patria confiscata nel 1948 dal sionismo invasivo, questa miscela, esplosiva davvero, ha fatto sì che l`€™assunto di Khomeini contagiasse giovani palestinesi sunniti di buona fede. Per essere onesti sino in fondo, aggiungo che Hamas assicura alle famiglie dei terroristi suicidi un generoso vitalizio. Ma mi sembra importante sottolineare che quando era in corso una si pur stentata trattativa di pace fra palestinesi e israeliani scemavano i «martiri» in lista di. attesa. È consentito a questo punto ipotizzare che l`€™«altro modo» di combattere il terrorismo di Hamas sia trattare una pace possibile, cioè con un minimo di giustizia? Forse si.

La questione mediorientale, che comunque va risolta, come si inserisce in questa vicenda di terrore: a Bin Laden e amici sta veramente a cuore la sorte dei palestinesi, come dicono, o è solo un pretesto per ottenere qualcos`€™altro?

A Osama, ai suoi tristi «compagni di merenda», non importa una cicca spenta della Palestina. Osama ne ha rivendicato i diritti per pura ruffianeria per accattivarsi il consenso delle masse arabe. Osama ha sempre puntato a rovesciare la monarchia saudita. In artiglieria esiste il cosiddetto «falso scopo», una legge balistica per la quale tu miri al campanile per colpire a valle. Osama ha distrutto le Torri Gemelle ma il suo vero obiettivo è Riad, l`€™Arabia Saudita. Cui dovrebbero seguire l`€™Egitto, il Marocco eccetera. Egli sogna (o sognava) uno stato islamico globale. Ovviamente sotto la sua ferula.

Si dice che in ogni guerra a essere sconfitta è sempre la verità  e a guadagnarci è sempre il partito degli affari: è vero anche in questo caso?

La prima vittima della guerra è la verità : purtroppo è così. Sin dal tempi di Cesare, se non prima. Un magnate americano ha detto che chi ci sa fare, in guerra arricchisce comunque. Si fanno i soldi producendo, vendendo armi. Si fanno i soldi vendendo strumenti e beni per la ricostruzione. A rimetterci son sempre i poveri insieme con gli onesti.

Nel dialogo con il mondo islamico s`€™erano fatti dei passi in avanti, pur tra non poche difficoltà : questa guerra, con tutto quello anche di equivoco che trascina con sé, non rischia di mandare all`€™aria tutto?

Sarò un povero sognatore ma penso che nonostante questa infausta guerra, il dialogo non andrà  in malora. Il dialogo con l`€™islam, soprattutto. Meglio: con alcuni fratelli maomettani. Ma occorre intendersi sul dialogo, sulla preghiera comune (riproposta recentemente dal Papa): dobbiamo avere il coraggio di fermarci di fronte a certi «ostacoli». Voglio dire che il dialogo deve puntare su di un tema essenziale: la pace tra gli uomini di buona volontà . Sarebbe sciocco pensare al dialogo come esercizio propedeutico alla conversione. Ognuno si tenga la sua religione, meglio: ognuno veneri il Dio unico (è lo stesso quello che veneriamo cristiani, ebrei, musulmani) secondo la propria liturgia, nel rispetto di quella degli altri. Nessun sincretismo ma un solo «scopo» nella preghiera comune: la pace. Così concepito, il dialogo può andare avanti, e in futuro dar frutti migliori degli attuali.

Una domanda da un milione di dollari: per l`€™esperienza che ne ha, la convivenza tra mondo cristiano e islam è possibile? I contrasti sono una questione di credo religioso o derivano da qualcosa di più materiale ma non meno importante, come l`€™enorme divario tra paesi poveri (molti fra questi islamici) e paesi ricchi: una questione di ingiustizia, insomma?

La convivenza è possibile nel rispetto del modo di essere, di credere di ciascuno. Lasciamo stare il paragone classico: la scuola di Toledo fucina di ingegni musulmani, ebrei, cristiani e più modestamente guardiamo a una cittadina siciliana: Mazara del Vallo. In essa convivono oramai da anni cattolici e islamici, sin dalle elementari. Ognuno ha le sue leggi morali in forza delle quali rispetta quelle dell`€™altro. Mazara, tuttavia, è una cittadina felice, non depressa economicamente dove esisteranno certamente le«ingiustizie sociali» ma direi di routine. Altrove, invece, e penso all`€™Africa, al Sudamerica, noi coltiviamo il seme dell`€™odio poiché ricchi e poveri a separarli non è un divario diremo fisiologico bensì uno spietato abisso fra l`€™opulenza più sfacciata frutto di antica rapina mai interrotta, e l`€™eterna miseria miserabile, quella che uccide. Nel terzo mondo del terzo mondo, ogni sessanta secondi muore un bambino. Per fame.

Le tante brutte cose viste le hanno fatto perdere la fiducia nell`€™uomo?

Cinquant`€™anni fa quando ho cominciato a fare il giornalista diffidavo dell`€™uomo. Ma ho cercato, ostinatamente, di conoscerlo. Ho imparato a temerlo. Infine ho imparato ad amarlo.

Lei è stato testimone anche di eventi di tutt`€™altro segno: quali in particolare hanno inciso sulla sua vita?

La mia vita di cronista nel mondo è sferruzzata di incontri e momenti che mi hanno profondamente segnato. Ho dentro di me molte ferite ma anche non poche gioie. In modo diverso hanno inciso nella mia vita l`€™incontro con padre Pio, con Ernesto Che Guevara, quello, recentissimo, con quel profeta postmoderno che è papa Giovanni Paolo II.

Oggi si lamenta la mancanza di «maestri», di modelli di riferimento. Un tempo c`€™erano: lei ne ha trovato qualcuno sul suo cammino?

Premesso che la gente ha sete di autenticità , crede più ai testimoni che ai maestri, e chi crede ai maestri è perché sono testimoni. Detto questo le dirò che il mio cammino professionale è stato confortato da grandi maestri: da Giulio de Benedetti a Paolo Monelli, da Mario Pannunzio a Sergio Quinzio, da Luigi Barzini junior a Vittorio Gorresio. Ma il primo maestro è stato mio padre che sacrificando non poco la sua carriera di scrittore è riuscito a colmare il vuoto lasciato dalla morte precoce di mia madre, un`€™esule russa che prima di morire mi disse: «Ricordati che nella vita non si é mai buoni abbastanza».

Chi loda il tempo passato fa solo un`€™operazione di nostalgia o c`€™era davvero qualcosa un tempo, tipo ideali e valori, che aiutavano a vivere e ad affrontare la vita, che era meno facile di adesso?

Nulla e mutato, la vita è sempre la stessa sotto abiti diversi. I valori, i disvalori ci son sempre stati, è cambiato il nostro modo esteriore di essere uomini. La vita è stata sempre difficile, è stata sempre facile: bisogna vedere come si nasce, come e dove si vive. La società  in cui viviamo, dicono in molti, è diventata disumana. No, è sempre la stessa, solo che, oggi, abbiamo «strumenti» up to date che ci consentono di eccorgercene immediatamente. Piuttosto vorrei dire che, girando il mondo, e la mia Italia, sento salire una immensa domanda di fede specie dai più giovani. Domanda che spesso viene disattesa. Da sacerdoti affogati nella routine e quindi dicitori di omelie fuori del tempo, spesso banali. Non si chiamano i giovani in chiesa con la chitarra o i videogiochi. Se le chiese diverranno di nuovo luogo di aggregazione. sarà  più facile pei giovani tornare alla preghiera, interrogarsi. Certo, non è facile. Non tutti nascono missionari poiché nella giungla postmoderna il sacerdote è in fatto un missionario. Se già  convertire è difficile, è impresa tremendamente ardua riconvertire. La Chiesa «è» e rimane: è il modo di «essere Chiesa» che a mio parere andrebbe ripensato, insieme con la liturgia. Certo, credere non è facile, non lo è mai stato ma padre Pio mi disse:... «certum est quia impossibile»: e tu aggrappati a `€™sta zattera, eguagliò, e troverai Dio». Così mi disse, poi mi benedì e congedandomi concluse: «Felice viaggio di vita, guagliò».

Quali di questi valori vedrebbe bene riproposti con forza e vissuti con coerenza?

Seguo con commossa attenzione gli sforzi del presidente Ciampi per restituire agli italiani il senso dell`€™appartenenza alla patria e, per conseguenza, alla famiglia. Mi conforta il messaggio di fede, instancabile, del Papa.

Lei è stato testimone di tutto questo da giornalista: si ritiene un privilegiato? C`€™è qualche diversità  nel modo di fare giornalismo oggi rispetto al passato?

Certamente mi ritengo un privilegiato: ho avuto in sorte una bella famiglia, conosco il successo, faccio un lavoro che amo. Un lavoro che non è cambiato nel tempo, Oggi è più facile trasmettere, viaggiare, incontrare uomini e mascalzoni. Ma la consegna è sempre la stessa: andare, vedere, riferire. Scarpinando, nella consapevolezza che il giornalista è lo storico dell`€™istante e qualche volta lo stenografo della verità .

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017