Il bambino dei sogni
L’altra sera sono venuti a cena degli amici con un nipote di due anni, bellissimo. Mi ha fatto una strana impressione rivedere in casa uno di questi bambolotti alti ottanta centimetri, che pure già camminano veloci, e si infilano dappertutto. Non sono più abituata ad averne in giro, di questi tipi piccoli che si sbrodolano quando mangiano, e maneggiano ogni cosa con la curiosità di marziani appena atterrati. E mentre mia figlia inseguiva ridendo il giovane ospite, io sono stata travolta dalla nostalgia.
Nostalgia, grande, di quando i miei erano così; dell’incantevole tempo in cui tutto è scoperta e meraviglia. Quando le mani paffute afferrano, aprono, smontano ogni cosa. Sì, proprio come alieni che devono formulare un rapporto su uno sconosciuto pianeta: che cos’è questo? e quello? e quest’altro, a che serve? e questa roba, si mangia?
E al cane, per esempio, si può mettere un dito negli occhi, e si può tirare la coda? (il nostro cane, dopo dieci minuti di «esperimenti», si è nascosto, disperato, sotto al tavolo).
«Non perderlo di vista nemmeno un istante», ho intimato alla figlia dodicenne, mentre noi si beveva il caffè. E quei due passavano, ripassavano, sempre di corsa, lui davanti, ridente, lei dietro, affannata, meravigliata: «Com’è faticoso guardare un bambino!».
Già, faticoso. Mi ricordo bene. Sono degli esseri pericolosi. Ti volti un attimo e li trovi intenti a leccare come un gelato uno stick di colla, con aria beata. O a comporre sul telefono un numero lunghissimo, con un sacco di zeri, probabilmente dell’Australia – non osi pensare a quanto ti costerebbe se qualcuno, dall’altro capo del mondo, alzasse la cornetta –.
Furbi e al tempo stesso candidi. Disarmanti. E così seri, quando esaminano un nuovo oggetto cascato, per sua sfortuna, nelle loro mani. La bocca semi aperta nella meraviglia, le dita grassocce che tastano, carezzano, grattano. Sarà buono? Una leccata, tanto per farsene un’idea (e il vecchio orologio del nonno sottoposto all’esame probabilmente trema fra sé. La prossima prova, è per vedere se è infrangibile).
Ma cosa – ti domandi retrospettivamente mentre osservi il piccolo ospite – in questa fatica seduce e incanta, tanto che ancora, se potessi, ai tuoi amici stasera diresti: «Per favore, prestatemelo»? Che cosa, anche se è tardi e ha sonno, spinge mia figlia Caterina ancora a prendersi in braccio quel bambino, a sorridergli mentre lui di nuovo le scappa via?
Vedo nei dodici anni di mia figlia l’emergere di una radice forte e antica, di un femminile istinto di abbracciare, di accogliere, di proteggere. Qualcosa scritto nelle pieghe del Dna, stampato addosso. E che quando avrai un figlio, penso guardando Caterina, ti farà sussultare se sentirai il pianto di un bambino, anche non tuo, magari, per caso, tra le pareti di un albergo di una città lontana. Sussulterai nel sonno anche se con quel bambino non c’entri, aprirai gli occhi perché qualcosa ha toccato un codice originario, inciso addosso.
E come sono belli questi due, questa sera assieme. Lei che gli concede tutti i peluches di cui è gelosissima; glieli lascia strapazzare, perfino l’orso, il preferito. Lui che le fa ampi sorrisi, e infine le regala una carezza con le sue manine appiccicose. Gran seduttore, il piccolo: mia figlia si è perdutamente innamorata. «È il bambino dei miei sogni», mi fa poi, quando è andato.
E anche dei miei. Mentre si va a dormire, faccio tra me due conti di anni. Quando ritornerà a correre per questa casa un nuovo, petulante piccolo alieno, quando ritornerà a imbrattare, sbrodolare, guastare, a farsi prepotentemente amare? Ce ne vorranno, di anni. E poi, chissà. Chissà se nella mente di Dio c’è quel bambino che ho in mente, e attende il tempo che venga la sua ora.