Il cardinale e il giornalista
Pare impossibile condensare la storia di un uomo in appena duecento pagine. Tanto più se l’uomo in questione si chiama Carlo Maria Martini, l’arcivescovo che ha guidato per oltre un ventennio la diocesi più grande del mondo. Eppure Aldo Maria Valli, vaticanista del Tg1, scrittore dalla prosa limpida e mai banale, è magistralmente riuscito nell’intento. Al cardinale Martini è infatti dedicato il suo ultimo libro, a metà settembre nelle librerie per i tipi di Àncora con la prefazione di Ferruccio de Bortoli: un fedele e lucido ritratto di uno degli uomini che più hanno saputo gettare in avanti il cuore del cristianesimo.
Msa. Cominciamo con una domanda un po’ provocatoria. Un libro sul cardinale Martini: se ne sentiva il bisogno?
Valli. Credo di sì. Ci sono molti libri scritti dal cardinale Martini, spesso anche a sua insaputa, come ha detto una volta lui stesso sottolineando che gli editori mettono assieme i suoi testi, prodotti in occasioni diverse, e li trasformano in libri a sua firma. Pochi sono invece i libri su di lui, sul suo insegnamento e su ciò che la sua parabola umana, spirituale e intellettuale ha rappresentato per la Chiesa, non solo per quella italiana. Così abbiamo pensato, l’editore e io, di realizzare un’opera in questo senso, non certo esaustiva, però in grado di rivolgersi a tutti, anche ai non specialisti, delineando un profilo di Martini e individuando i punti forti del suo pensiero: la centralità della Sacra scrittura, la promozione umana, il dialogo con tutti, anche con i più lontani per fede religiosa e cultura. Punti che mantengono tutta la loro attualità e anzi meritano di essere riscoperti.
Dal suo libro emerge il ritratto di un uomo prudente, che parla chiaro...
Martini è un innamorato della parola biblica, quella contenuta nelle Sacre scritture. A questa parola ha consacrato la sua vita, come studioso e come pastore. Ma questo amore lo ha portato a considerare importanti tutte le parole, che meritano rispetto. Di qui la sua grande chiarezza nell’argomentare, la sua precisione nella scelta delle parole, la sua attenzione e il suo rispetto per ogni tipo di interlocutore e di pubblico. Ascoltarlo e leggerlo è sempre stato un piacere, per tutti. Non gira attorno alle questioni, è puntuale e incisivo, e sa come suscitare l’attenzione di chi lo ascolta e lo legge. Non per niente da giovane coltivò il sogno di diventare giornalista. Quanto alla prudenza, bisogna intendersi. Non è certo un uomo prudente nel senso di poco coraggioso, anzi! Le sue prese di posizione sono sempre state nette, anche quando lui sapeva benissimo che lo avrebbero esposto a critiche. È stato però prudente nel senso di assennato e, soprattutto, nel senso di lungimirante. Ha saputo essere vescovo nel senso letterale del termine: episcopos è colui che custodisce perché sa guardare lontano.
«Predicare la parola di Dio significa dire Gesù Cristo. Prima di predicare le “cose” cristiane occorre rifare il fondamento, cioè ricentrare la predicazione su Gesù Cristo», scrive il cardinale nella Lettera al clero del Giovedì santo 1983. Lei scrive che in quel «ricentrare» c’è molto di Martini. Vale a dire?
Martini ha sempre spiegato che non si può essere cristiani a prescindere da Cristo. Il rischio è quello di usare la religione in senso ideologico e strumentale. Ai primi cristiani stava a cuore Cristo, non il cristianesimo. Volevano tenere viva la memoria del maestro e rendere presente il suo messaggio. Il cristianesimo si è diffuso grazie a questa tensione, che nasce dall’incontro personale, un incontro che ti cambia la vita. Martini ha insegnato che se non si riparte costantemente da Cristo, dalla sua figura, dalla sua predicazione, dalla sua vita e dal suo esempio, il cristianesimo rischia facilmente di diventare un contenitore vuoto oppure un’etichetta da usare per fini che molto spesso hanno poco o nulla a che fare con Cristo. E questo rischio riguarda anche la Chiesa in quanto istituzione.
Uno dei capitoli del libro s’intitola «Il dovere del dialogo». Che posto ha occupato l’impegno per il dialogo, a tutti i livelli, nella vita di Martini?
Un posto importantissimo. La vocazione religiosa di Martini, maturata in seno ai gesuiti, è fondamentale da questo punto di vista. Essere gesuita vuol dire stare sul confine tra mondi diversi, vuol dire vivere la missione come confronto con l’altro, nella consapevolezza che il rapporto è sempre biunivoco e che dall’altro c’è sempre da imparare. Ricordo che una volta, quando gli chiesi che cosa leggere per approfondire la questione del dialogo, il cardinale mi consigliò senza incertezze l’Ecclesiam suam di Paolo VI, l’enciclica in cui papa Montini scrisse che la Chiesa deve dialogare con il mondo nel quale si trova a vivere, perché la religione stessa è dialogo tra Dio e l’uomo, e il confronto non va mai rifiutato. Affonda qui quel desiderio di incontro e di ascolto che ha portato Martini a impegnarsi nel dialogo sia ecumenico sia interreligioso e a istituire la Cattedra dei non credenti, una delle sue iniziative più significative negli anni milanesi. La vera distinzione, diceva, non va fatta tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti.
Carlo Maria Martini è stato al contempo fine intellettuale e pastore premuroso per la sua diocesi. Com’è riuscito, secondo lei, a conciliare questi due aspetti?
In realtà il cardinale Martini non immaginò mai se stesso come pastore. Quando Giovanni Paolo II gli chiese di lasciare gli studi biblici per diventare arcivescovo a Milano, cadde letteralmente dalle nuvole. Non aveva alcuna esperienza in proposito, era stato da poco nominato rettore della Pontificia università gregoriana, e, in quanto gesuita, era convinto di avere davanti a sé tutt’altro percorso.
Obbedì invece al Papa e partì per Milano, come raccontò lui stesso anni dopo, «con la sola fiducia nella Parola di Dio». Di fatto, dunque, per lui non si è mai posto il problema di conciliare la natura di intellettuale con il compito pastorale.
Semplicemente ha continuato a essere se stesso.
Ricordo che il 10 febbraio 1980 fece il suo ingresso in città mostrando come unica «insegna» una Bibbia. Nel libro sacro c’era per lui tutto l’occorrente per fare il vescovo. L’abitudine allo studio, all’approfondimento e al confronto con gli altri, anche con i più lontani, gli servì molto in una realtà grande, multiforme e complessa come quella milanese. Capì subito che per stare sulla cattedra di sant’Ambrogio e di san Carlo non ci si può chiudere nel ristretto ambito ecclesiale: occorre uscire dalla sacrestia e diventare, in un certo senso, il vescovo di tutti, anche dei non cristiani e dei non credenti, perché a Milano il vescovo è un punto di riferimento, uno stimolo e un motivo di riflessione e dibattito per tutti.
Giudicare Martini come intellettuale non gli rende giustizia. Fa pensare a un uomo chiuso, isolato in mezzo ai libri, preso solo dalle teorie. Martini è stato, invece, tutto il contrario. Per lui, rispetto alle sistemazioni teoriche, conta di più l’uomo in carne e ossa. Il che spiega la sua insaziabile curiosità, che è stata, insieme al desiderio di portare Cristo a tutti, la vera molla dell’azione pastorale negli anni ambrosiani.
Nell’ultima parte del libro ricorda alcuni incontri personali con il cardinale. Ci racconta il «suo» cardinale Martini?
L’ultima parte è in realtà quella che ho scritto per prima. Non avrei mai potuto incominciare a scrivere qualcosa sul cardinale puntando solo sullo studio del suo pensiero e della sua azione. Ho avvertito subito il bisogno di agganciarmi all’esperienza diretta, ai tanti incontri avvenuti in occasione delle interviste che mi ha concesso e delle sue iniziative. Vivissimo, per esempio, è in me il ricordo di una visita che il cardinale fece a Londra, al suo amico Basil Hume, il benedettino che fu arcivescovo di Westminster. Era il 1995, Martini era al culmine della sua notorietà, ma non mi sarei mai aspettato di vedere una folla di londinesi in fila, in una serata gelida, per entrare in cattedrale ad ascoltare la conferenza dell’arcivescovo di Milano. Ne rimasi impressionato e capii quale tesoro noi ambrosiani avessimo in casa. Ricordo anche che, alla fine della giornata, nonostante la fatica e i tanti impegni, Martini accettò di rispondere ad alcune mie domande davanti a una telecamera, e lo fece con la consueta signorilità che lo portava a essere disponibile senza darlo a vedere. Visto da fuori, il nostro rapporto risentiva forse della timidezza di entrambi, ma a noi andava bene così.
Col passare degli anni è nata un’amicizia che mi onora. Il cardinale mi ha insegnato la fiducia verso la vita e la capacità di vedere l’aspetto positivo e provvidenziale in ogni circostanza. Il che non vuol dire negare le difficoltà, ma affrontarle da credenti. Ora, lo sappiamo, Martini è malato, e il Parkinson non gli dà tregua. Eppure, quando lo vado a trovare a Gallarate, dove risiede dopo aver lasciato Gerusalemme, non lo vedo mai affranto. Stanco sì, e provato, ma sempre fiducioso. È una grande lezione. Nel libro, con discrezione, ne parlo. Ho avuto il suo permesso. Ho visto che a questo libro il cardinale tiene come se fosse un testo suo. Ha contribuito a trovare il titolo e a ideare la copertina, disegnata da padre Francesco Radaelli, un altro amico comune. Questa attenzione mi ha commosso, ma non sorpreso. L’ho detto: è un uomo curioso, interessato a tutto e a tutti. Ed è un uomo libero, come dimostrano le risposte che mi ha dato nell’ultima intervista, all’inizio di quest’anno, quando ha detto che vede la Chiesa forte nei suoi ministri ma debole nelle strutture e poco capace di servire le esigenze del mondo d’oggi, perché pensa troppo in termini politici.
PREFAZIONE
di Ferruccio de Bortoli
Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore e dell’autore, uno stralcio della prefazione al volume di Valli, scritta dal direttore del «Corriere della sera», Ferruccio de Bortoli.
«(…) Il libro di Valli ha molti pregi, ma vorrei segnalarne uno in particolare. Anche un grande testimone della fede può essere assalito da dubbi e incertezze. Come noi. In un dialogo immaginario, il cardinale fa pronunciare a san Paolo un vibrante attacco contro i cristiani troppo sicuri della propria fede. E confessa, nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme, che vi sono stati momenti della sua vita in cui non si è sentito affatto redento. Il titolo di questo libro, Storia di un uomo, lo avvicina al gregge e alla massa di questa tormentata epoca. Martini sembra spogliarsi della porpora, offrendo il lembo del proprio mantello agli altri perché vi possano trovare riparo e cura. Credenti, non credenti o credenti di altre religioni.
Il ruolo di un buon cristiano in una società appare, nell’insegnamento martiniano, molto distante dalla descrizione ufficiale e curiale più diffusa, un po’ troppo guardinga, timorosa della eccessiva secolarizzazione della società. Un cristiano in ritirata, aggrappato alla storia e al prestigio calante della Chiesa. No, Martini crede nei cercatori e nei pionieri, nei costruttori di ponti, diffida degli steccati e dei muri (…). Cercare, andare oltre, non fermarsi di fronte alle difficoltà, distinguere l’animus razionale dall’anima che spinge al dialogo con gli altri, alla reciproca comprensione, alla bellezza del dono, alla verità. L’essenza dello spirito conciliare, troppo spesso tradito in questi ultimi anni, anche all’interno di una gerarchia ecclesiastica, dalla quale Martini prende, non raramente, le distanze. La Chiesa è minoranza, come erano minoranza ai tempi di Ambrogio i cristiani milanesi. Accettare questa condizione significa per Martini non rassegnarsi a un ruolo marginale della Chiesa ma trovare nuovo slancio per quella che lui chiama «mediazione antropologico-etica», il contributo insostituibile dei cattolici alla crescita della società civile. La Chiesa non è una lobby, né la mera rappresentanza politica di valori non negoziabili, per la salvaguardia dei quali si finisce per chiudere un occhio su comportamenti e regole. (…).
Martini affronta anche il nodo della giustizia che non è strumento per una migliore equità sociale né utensile del rancore di classe. È virtù interiore, da coltivare e sottrarre al populismo imperante. Un valore morale da alimentare con una continua educazione. La giustizia vista anche come antidoto alla deriva individualista della società. E la proposta di pene alternative al carcere racchiude l’idea biblica che non vi è legge perfetta che possa sopperire ai guasti di cuori cattivi e corrotti. «L’ideale evangelico non è punire il male, bensì cambiare i cuori».(…).
La missione pastorale di Martini sarà ricordata anche per la Cattedra dei non credenti e per il dialogo interreligioso, senza il quale, dice il cardinale, non vi è futuro per l’umanità. Una delle scelte per le quali è stato più criticato, soprattutto all’interno della Chiesa, come se il confronto facesse venire meno la difesa dell’identità cattolica e sconfinasse definitivamente in una sorta di sincretismo. Valli nota la straordinaria continuità di pensiero fra Martini e il Paolo VI dell’Ecclesiam suam, l’enciclica del 1964. Nel dialogo con le altre religioni, la Chiesa approfondisce la conoscenza di se stessa e il credente ha nuova prova della propria fede. Ciò che unisce chi crede è l’intensità della propria fede, pur nella diversità delle religioni. E ciò che unisce chi crede e chi non crede è l’inquietudine dell’esistenza, quella ricerca di senso che spinge al dialogo. Allo scambio di paure e dubbi più che di certezze e dogmi. Il dialogo sui temi della vita e sui confini della bioetica si alimenta di questo fecondo spirito di comprensione delle ragioni dell’altro. Martini si è espresso coraggiosamente sulla necessità di una legge sull’interruzione delle cure per i malati inguaribili, il cosiddetto testamento biologico; ha aperto all’adozione dei single; si è posto il tema dei divorziati, fedeli ormai diventati invisibili alla liturgia. Ha toccato argomenti che prima o poi la Chiesa dovrà affrontare sul terreno della modernità. Per alcuni ha il torto di averlo fatto troppo presto.
Nel libro Le età della vita il cardinale cita un proverbio indiano che divide l’esistenza in quattro parti. Nella prima si studia, nella seconda si insegna, nella terza si riflette e nella quarta si impara a mendicare. Ho riflettuto a lungo sulla saggezza di questa citazione che dà una risposta discreta e profonda a molti degli interrogativi sul senso del nostro essere cittadini del mondo e parte di una comunità spirituale. Quel verbo mendicare ha una portata rivoluzionaria. Significa che abbiamo bisogno sempre degli altri, del loro amore e della loro cura. Effatà! Apriti!».