Il cibo disperato: quando l’anima ha fame

Colpiscono un numero sempre crescente di ragazze e ragazzi e talvolta i sintomi si manifestano sin dalla pubertà. Ma che cosa sono anoressia e bulimia e in che cosa differiscono dagli altri, generici, disturbi nell’alimentazione?
20 Agosto 2007 | di

Il dato rivelatore è una banalissima dieta, di solito fai da te, iniziata per mille motivi diversi. È nello spazio temporale più o meno lungo, di un paio di settimane o mesi, che la mente prende consapevolezza del potere che ha sul corpo. Il risultato è una sensazione euforica, vicina all’onnipotenza. Tanto che se nei mesi successivi la prima esperienza dimagrante, di solito andata a buon fine, il soggetto va incontro a situazioni frustranti o traumatiche, il meccanismo di soddisfazione ormai acquisito può riproporsi in maniera subdola, per aumentare l’autostima e compensare sofferenze complesse da assumere e rielaborare. Così, da un piano cognitivo il senso di potenza viene trasferito a quello emotivo.

«Tutto cominciò con una dieta. Poi è diventata una crociata eroica contro il cibo: mi sentivo improvvisamente adulta, così decisa a resistere alle tentazioni della gola. Ero una ragazza “perfetta”, secchiona e orgogliosa della mia intelligenza, ma mangiavo soltanto 20 grammi di mozzarella o di prosciutto, e la domenica mezzo cucchiaino di gelato alla crema. È andata così per un anno. Quindi è iniziata la fase dell’abbrutimento bulimico: giravo i bar ingozzandomi di decine di paste alla crema, che poi andavo a rimettere nel bagno. A salvarmi è stata una dietologa…»: così racconta a Ok salute la giornalista Alessandra Arachi, descrivendo un’esperienza tipo dei cosiddetti disturbi alimentari – reazioni di tipo anoressico, bulimia e altre forme variamente definite –, ormai da cinque anni catalogati tra le malattie psichiatriche.


Anoressia e disordini alimentari

Complici tante campagne stampa dai toni sensazionalistici, di solito giocate in occasione della morte di qualche icona del mondo della moda, spesso l’informazione su questi temi è carente e superficiale. «Invece le precisazioni vanno fatte e bene», spiega il professor Luigi Enrico Zappa, docente di psichiatria presso la facoltà di Medicina Milano Bicocca, direttore del laboratorio di studi specialistici sui disturbi alimentari dell’ospedale San Gerardo di Monza e coordinatore dell’attività di ricerca presso la fondazione Bianca Maria Corno, per la lotta contro l’anoressia nervosa. La prima distinzione è tra la malattia vera e propria, l’anoressia, e i disturbi alimentari.

Faticosa da riconoscere, la malattia nel corso dei secoli si è manifestata in tanti modi, ha colpito in prevalenza donne ma anche uomini (vedi box in pagina). Ha fatto scalpore, per esempio, cinque anni fa, la pubblicazione del libro di Rudolph Bell, professore di Storia presso la Rurgers University del New Jersey, nel quale venivano illustrate le impressionanti analogie tra la moderna anoressia nervosa e il percorso di santità di tante figure d’eccezione, da Chiara d’Assisi a Caterina da Siena, a Francesca Romana. Nel libro, il digiuno inteso come forma di controllo dell’alimentazione viene descritto con gli stessi sintomi che oggi ritroviamo in un manuale per la diagnosi dell’anoressia. Così, contrariamente a quanto si crede, in percentuale statistica l’anoressia come malattia è un dato costante e presente in tutte le culture e latitudini, valutabile tra lo 0,4 e lo 0,7 per cento ogni centomila persone. «Questi dati – prosegue Zappa – ci fanno ritenere che, da un punto di vista biologico, esista una predisposizione genetica, ereditaria alla malattia, sulla quale si inseriscono altri due fattori: contesto familiare ed eventi traumatici, intesi come maltrattamento e abuso».


Madri scagionate

Sull’identikit della famiglia anoressica va sgombrato il campo da un luogo comune che fino a dieci anni fa imperversava: la madre iperprotettiva, capro espiatorio di tante tragedie. «Certo, il rapporto emotivo-intellettuale dell’anoressica con la madre conta molto nell’evolversi della malattia. L’anoressica usa il cibo per tenere la mamma lontano da sé, autoescludendosi dal rituale della tavola e della cucina, regno-icona della madre come angelo della casa. Ma la malattia affonda le sue radici nel rapporto biologico con il corpo della madre ancora a livello di gestazione, e dunque ben prima che intervengano fattori educativi».

Sarebbero tre i fattori familiari che, interrelati, possono generare un figlio anoressico: un contesto iperprotettivo; modelli di perfezionismo e idealizzazione; la tendenza a non manifestare i conflitti.

Il decorso della malattia è sempre uguale a se stesso: tra i cinque e gli otto anni si manifesta come disturbo dell’immagine corporea. La ragazzina, cioè, si guarda allo specchio e si vede con le cosce grosse o, soprattutto, la pancia prominente (è questo il primo chiodo fisso). È una percezione che non ha alcuna consistenza dal punto vista reale, per chi osserva, ma che è già sintomo di un disagio più profondo. Tra i 10 e i 15 anni si ha la cosiddetta fase del «perfezionismo»: un elevato livello di prestazioni che si esprime, per esempio, in ottimi voti a scuola ma in una costante insoddisfazione. Un aspetto idealizzato del proprio modo di essere che però chiede sempre di più. A questa fase succede quella del cambiamento del corpo e della sessualità.

«Nell’adolescenza la ragazzina si confronta con il corpo della madre, sessuato, che la obbliga ad affrontare la tematica della maternità», spiega Zappa. Scatta così la negazione del corpo materno, la non identificazione. Ci può essere una fase di latenza, tra i 16 e i 18 anni, ma poi l’ideale di corpo femminile che si costruisce è de-sessualizzato: la pancia è cava perché non può contenere nessun elemento che possa fare riferimento alla maternità. La malattia, se non viene curata per tempo e adeguatamente, può cronicizzarsi da subito oppure lentamente, portando al calvario ricovero-casa-ambulatorio. Altre persone superano la fase acuta della malattia e arrivano alla mezza età vivendo in una situazione di costante adattamento, come invalide, status riconosciuto nel 2006 dallo stesso ministero della Salute. Nel peggiore dei casi c’è la morte o per arresto cardiaco o per suicidio. Un’ipotesi non molto remota, purtroppo, visto che l’anoressia ha il più alto indice di mortalità tra le malattie psichiatriche: un paziente su cento. La guarigione è comunque possibile se la diagnosi è tempestiva e in percentuale si registra nel 40 per cento dei casi.


La responsabilità dei media

Se dunque l’anoressia è una malattia, quanto influisce la pressione culturale esercitata dai mass media, dal modello imperante di magrezza che la moda impone? «Che ci sia o no la moda, l’anoressia come malattia è presente ovunque. Gli elementi che determinano la malattia sono quelli che dicevamo prima. È però anche vero che un certo modello culturale diventa un fattore scatenante sulla psiche di ragazze che potenzialmente potrebbero diventare anoressiche. E sicuramente ha una sua influenza, poi, sui cosiddetti disturbi alimentari, che sono cosa diversa dalla malattia». Quando si parla di disturbi si fa infatti riferimento a quelle modalità di controllo dei conflitti emotivi attraverso il cibo, che avvengono in età adolescenziale e oltre.

È su questi fronti che intende operare l’iniziativa presa di recente dalla ministra per le politiche giovanili, Giovanna Melandri, che ha sollecitato, insieme al ministero della Salute, un manifesto di autoregolamentazione della moda italiana contro l’anoressia. In esso, tra l’altro, si chiede di rivalutare un modello di bellezza generoso e mediterraneo, di far sfilare modelle solo sopra i 16 anni e dal cui certificato medico non emerga alcun disturbo alimentare conclamato, e di promuovere la commercializzazione delle taglie 46 e 48.

Nello specifico, quando si parla di disturbi alimentari si fa dunque riferimento anche alle cosiddette reazioni di tipo anoressico (che al 90 per cento guariscono, mentre un 10 per cento si cronicizza e diventa stile di vita). «Reazioni» perché ci si trova di fronte a una risposta generata da un’altra malattia, di solito forme depressive, o, in casi più rari, conflitti della personalità. Altri disturbi alimentari dei quali tanto si è scritto sono la bulimia e il binge eating (abbuffata rapidissima di cibo occasionale). «La bulimia è il disturbo più importante dal punto di vista sociale – dice Zappa – perché costringe a procurarsi grandi quantità di cibo giornalmente. E poiché le abbuffate possono esser fatte anche da una spesa di 80 euro, molti ragazzini bulimici spesso sono costretti a procurarsi il cibo fuori dalla famiglia, rubando, smerciando droga o facendo cose simili».

Da un numero sempre crescente di ricerche emerge, comunque, che se prima l’esordio dei disturbi alimentari avveniva in fase adolescenziale, tra i 18 e i 23 anni, e in rari casi fino ai 55, adesso è in aumento la casistica tra i 35 e i 40 anni e tra le donne in menopausa.

In ogni caso, a qualunque età, due sono le raccomandazioni da fare agli interessati e soprattutto alle famiglie: stare attenti ai campanelli di allarme e affidarsi a centri specializzati.        



Appunti. L’anoressia al maschile

Pochi lo sanno, ma la prima persona a cui venne riconosciuta l’anoressia, nel lontano 1689, fu un ragazzino di 16 anni, figlio di un pastore protestante. Proprio al tema dell’anoressia maschile nel gennaio scorso è stato dedicato in Italia il primo congresso scientifico intitolato «Narciso a tavola», organizzato dall’Università degli Studi Milano-Bicocca Monza. I vari contributi sono confluiti nel libro omonimo curato dallo psichiatra Luigi Enrico Zappa.

Msa. Professore quanto incide il fenomeno tra i maschi?

Zappa. Il rapporto è ancora di uno a dieci rispetto alle donne, ma il numero è destinato a crescere. In Italia i malati maschi sono circa 1200. Nei maschi il disturbo compare dalla post-adolescenza fino ai 29 anni, più tardi che nelle femmine, e si manifesta con modalità diverse: nel maschio non è tanto importante il contesto figlio/madre. La figura di riferimento è la forma del proprio corpo. Ed è il rapporto con un corpo che viene sottoposto a continue modificazioni. Le modalità della malattia sono le stesse, il digiuno e il controllo del cibo, ma l’oggetto non è la sessualità materna, bensì la propria forma corporea; quella che nei maschi è l’iperattività in palestra, nelle donne è la modalità di compensazione nelle lunghe e frenetiche camminate.

Quali sono i segnali che il genitore deve tenere sotto controllo?

Sono cinque i campanelli di allarme: quando i chili scendono sotto il 30 per cento del peso previsto in base all’indice di massa corporea (si ottiene dividendo il peso in chili per il quadrato della statura in metri: una persona è a rischio se il suo indice è inferiore a 17,5); una forte paura di ingrassare anche in presenza di un evidente sottopeso; il comportamento ossessivo riguardo ai pasti, come fare bocconi sempre più piccoli; il continuo controllo della propria immagine sulla bilancia e allo specchio; nelle ragazze, amenorrea (sospensione del ciclo mestruale) da almeno 3 mesi.

Quali caratteristiche deve avere un centro qualificato?

Deve avere un ambulatorio, il day hospital e una struttura di ricovero, cioè un ambito protetto per un tempo minimo di 3-6 mesi. L’insieme di questa organizzazione permette di definire il tipo di trattamenti. Importante è tenere presente che questi due disturbi non possono essere trattati come malattie mentali psichiatriche, perché un ragazzino depresso o anoressico non va in un centro di igiene mentale.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017