Il destino dell’uomo
Sono ricorrenti le lamentele sulla scarsa presenza, soprattutto nella predicazione domenicale, di quelle realtà che hanno a che fare con il destino ultimo dell’uomo, vale a dire la morte, il giudizio, il paradiso e l’inferno. Se questi temi infarcivano abbondantemente una certa predicazione del passato che mirava a mettere in guardia dalla possibile perdizione, non senza fare sponda su un’immagine di Dio piuttosto arcigna, a un certo punto si è come registrato un cambio di marcia. Una predicazione maggiormente incentrata sulla misericordia divina – tutta tesa a squadernare l’immagine di un Dio premuroso, amorevole, paterno e perfino materno – si è poi trovata in difficoltà quando si è trattato di mostrare, contemporaneamente, tutta la responsabilità di cui è investita la vicenda terrena d’ogni uomo. Se è vero che l’amore di Dio copre molti peccati e se li getta alle spalle, è pur vero che, come ogni amore, esalta la libertà dell’amato, la mette alla prova, ne cerca l’assoluta corrispondenza e viene ferito da ogni sua minima infedeltà. Se dunque un certo cristianesimo è percepito come burocratica proposta di «esigenze senza amore», tutto sommato come gretto moralismo, dobbiamo invece riscoprire che quello di Dio è un «amore esigente».
Con questa consapevolezza torniamo a ragionare sulla latitanza e sulla necessaria riproposizione di alcuni temi centrali della fede cristiana. In un libro scritto più di trent’anni fa, dal titolo Dogma e predicazione, l’allora già prestigioso docente di teologia Joseph Ratzinger invitava a riflettere sul «cuore così freddo» con il quale molti cristiani professano l’ultimo articolo del credo: «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà». Non vi è avvertenza che la vita è un itinerario che solo in Dio trova il suo compimento, e che senza questa meta finale la nostra fede è in balìa di pericolose derive. Rischia infatti di rifluire in un individualismo privatistico tutto schiacciato sul presente, trasformandosi così in una sorta di tranquillante per affrontare le asperità della vita, o anche di funzionare come molla per un impegno sociale in vista della trasformazione del mondo. In realtà né l’una né l’altra cosa sono in sé disprezzabili e tantomeno insignificanti, ma sono cristianamente connotate e acquistano valore salvifico nella misura in cui si lascia spazio al protagonismo di Dio, ci si apre cioè al suo futuro, si è davvero in attesa del mondo che verrà, il suo e non il nostro.
Nel dicembre dell’anno 2000, presentando i contenuti essenziali della nuova evangelizzazione, il cardinal Ratzinger dava grande rilievo alla «vita eterna», ponendola come perno di ogni autentico annuncio evangelico. Recuperando un aspetto spesso trascurato della predicazione di Gesù, vale a dire l’annuncio del regno di Dio, egli ne offriva un’interpretazione chiara e autorevole in collegamento al tema del giudizio. «La predicazione del regno di Dio è anche annuncio del giudizio, annuncio della nostra responsabilità. L’uomo non può fare o non fare ciò che vuole. Egli sarà giudicato. Egli deve rendere conto. Questa certezza ha valore per i potenti così come per i semplici». Aggiungendo subito dopo: «Non è vero che la fede nella vita eterna rende insignificante la vita terrestre. Al contrario: solo se la misura della nostra vita è l’eternità, anche questa vita sulla nostra terra è grande e il suo valore immenso. Dio non è il concorrente della nostra vita, ma il garante della nostra grandezza». Senza ricorrere a un linguaggio solo punitivo, ma ribadendo tutta la serietà dell’esistenza personale e sociale dell’uomo, questo testo veicola l’immagine di un Dio che sta dalla parte dell’uomo, che ha a cuore la sua realizzazione, che sprona la sua libertà a impegnarsi per il bene. È la giusta lunghezza d’onda per parlare ai nostri contemporanei, senza falsi buonismi né fastidiosi moralismi.