Il dubbio? É una richiesta di aiuto
La prima opera di misericordia spirituale è decisamente fuori moda. Il pensiero moderno, infatti – almeno a partire dal «dubbio metodico» di Cartesio –, ha fatto del dubbio l’unità di misura del sapere: l’uomo saggio sarebbe colui che dubita di tutto. Così, oggi, chi aspirasse a essere un intellettuale di successo non ha affatto bisogno di anni di studio. Gli basta seguire una regola facile facile: mostrarsi scettico su tutto e relativista in ogni campo.
Ora, in un contesto culturale del genere, l’idea di aiutare il prossimo cercando di fugare qualche suo dubbio va davvero contro corrente: quella che trascina tutto e tutti verso il gran mare del dubbio sconfinato.
Naturalmente non intendo negare che il dubbio sia antidoto al dogmatismo e alla sicumera di chi presume di avere in tasca ogni tipo di certezza. Già Socrate sosteneva che il saggio è colui che sa di non sapere. E Tommaso d’Aquino, alla fine della sua vita, confidò al suo amico Reginaldo di non riuscire più a proseguire la sua Summa, perché tutto quanto aveva scritto fin lì gli sembrava «paglia» di fronte al mistero infinito di Dio. Sono belle testimonianze di una sapienza non ridotta a orgogliosa certezza, non esente dal senso del dubbio e del limite.
Da questo punto di vista, «consigliare i dubbiosi» può anche essere interpretato, in alcuni casi, come un «suscitare qualche dubbio in chi non ne ha», onde smascherare certezze taroccate e promuovere una ricerca più autentica della verità.
Tuttavia l’opera di misericordia non può essere trasformata nel suo opposto solo perché «culturalmente più corretto».
Il dubbio, infatti, non è solo senso del limite. È anche, e anzi più spesso, uno dei modi con cui si manifesta un disagio dell’anima, intellettuale, spirituale o psicologico. È una richiesta di aiuto alla quale la carità non può sottrarsi.
Ma come consigliare i dubbiosi? In proposito ho l’impressione che qualche volta i credenti sottovalutino l’importanza della preparazione e della competenza. Avendo il dono della fede, spesso il cristiano si ritiene esonerato dall’obbligo di conoscere, perché presume di avere in mano una specie di passepartout in grado di aprire tutte le porte del sapere e risolvere qualsiasi dubbio. La cosa emerge a proposito di molti ambiti del sapere, dalla psicologia alla filosofia, dalla sociologia alla fisica, ma appare ancora più grave a proposito di questioni teologiche, quando, per esempio, ci si trova di fronte ai dubbi concernenti la fede che nascono in persone non credenti. La risposta che viene data certe volte dai credenti in questi casi è improntata al fideismo. «Hai dubbi?», «Prega!». «Nutri qualche perplessità sull’esistenza di Dio?», «Prega!». «Non comprendi il dogma della Trinità?», «Ma non c’è niente da capire! È mistero da accettare per fede. Quindi: prega!».
Ebbene, a me sembra che risposte di questo tipo possano fugare solo i dubbi di chi non ce li ha e rivelino, alla fin fine, solo l’ignoranza dei credenti in materia teologica e la loro colpevole pigrizia rispetto al dovere di istruirsi. Quanti credenti oggi conoscono bene almeno il Catechismo della Chiesa cattolica? E se no, come pensare di poter dare risposte adeguate ai dubbi dei nostri fratelli non credenti? Tra l’altro non di rado si tratta di dubbi provenienti da persone colte. Come pretendere di dar loro risposte convincenti, servendosi di qualche lontana reminiscenza del catechismo da terza elementare?
Consigliare i dubbiosi, dunque, comporta il dovere e la fatica di studiare, documentarsi, conoscere. Solo così, tra l’altro, il dubbioso si sentirà preso sul serio, ascoltato, considerato. Perché alla fine la posta in gioco non è solo la soluzione del dubbio, quasi fosse un anonimo rompicapo, ma, attraverso esso, l’attenzione amorevole per un’altra persona.
In azione
Il consiglio del mese
Ricordarsi di un dubbio concernente la fede di un nostro amico, credente
o meno, a cui non abbiamo dato risposta adeguata.Documentarsi sull’argomento in tre tappe:
1) consultare il Catechismo della Chiesa cattolica (anche in rete sul sito www.vatican.va oppure nell’edizione della Libreria Editrice Vaticana);
2) consultare la Somma Teologica di Tommaso d’Aquino, traduzione pubblicata dalle Edizioni Studio Domenicano;
3) chiedere, a persone esperte in materia, spiegazioni e ulteriore bibliografia. Telefonare all’amico e offrirgli i risultati della nostra ricerca.
Un consiglio indica la via
di Luciano Manicardi, monaco di Bose.
Educare alla criticità
La Bibbia ci aiuta a individuare il «buon consigliere», capace di rispettare la libertà, la soggettività e la pienezza di vita dell’altro, che potrà così trovare il proprio sentiero.
La tradizione biblica, da un lato, esalta l’arte di consigliare affermando che il consiglio di un sapiente «è come una sorgente di vita» (Sir 21,13), sostenendo che «la salvezza sta in un gran numero di consigli» (Pr 11,14) e criticando il fatto che degli idolatri «nessuno è capace di consigliare» (Is 41,29); dall’altro, svela l’ambiguità del consigliare e la positività possibile del dubitare insegnando a dubitare dei consiglieri: il consigliere può essere interessato, può creare dipendenza, suscitare de-responsabilizzazione, può manipolare… Il passo di Sir 37,7-15 è un breve trattato su come non deve essere un consiglio. Consigliare non è dirigere né imporre, non è adulare né sedurre, non è manipolare né abusare, ma è servire la libertà, la soggettività e la pienezza di vita dell’altro.
Chi dunque può consigliare? Chi è abbastanza libero da dogmi, verità astratte e certezze incrollabili («la luce è tenebra, quando è solo luce»: Ortega y Gasset) da saper ascoltare l’altro, entrare in empatia con lui, stabilire un rapporto di fiducia e aiutarlo a discernere e a trovare lui stesso il proprio sentiero. Non si tratta di dire all’altro ciò che deve fare: questa è presunzione e sostituzione di sé all’altro. L’umiltà è indispensabile per osare un consiglio. Che, appunto, in certi momenti, va dato. Infatti, se vi è un dubbio positivo, un principio di insicurezza e di incertezza salvifico, perché all’origine di quell’inquietudine che consente all’uomo di continuare a interrogarsi, cioè a essere uomo, vi è anche un dubbio paralizzante e mortifero. Come ben mostra l’esempio dell’asino di Buridano che, posto tra due cumuli di fieno perfettamente uguali e alla stessa distanza, non sa scegliere quale iniziare a mangiare, e così, per l’incertezza, finisce col morire di fame.
Oggi, nella società che nel disorientamento (nell’esitazione di fronte a una molteplicità di possibilità, nell’incertezza di fronte non più solo a un bivio, ma a una diramazione di strade pressoché infinita e tutte ugualmente percorribili) trova una sua cifra esemplificativa, l’arte di consigliare è una forma di solidarietà, è la forma umana di dare speranza, fornire appigli e indicatori di via per quel cammino dell’esistenza spesso sentito come faticoso e impervio.
Persone che aprano vie di senso
Quante persone si sentono «sbagliate», o non si concedono il permesso di commettere errori, o ritengono che uno sbaglio sia la catastrofe, o fanno del dubbio sistematico una sorta di dogma (e allora un buon consigliere aiuterà a dubitare del dubbio)… Costoro richiedono il coraggio di una parola, di un segno che dischiuda un’alternativa, che apra una possibilità impensata. Oggi è quanto mai sentito il bisogno di persone che sappiano aprire vie di senso, orientare, indicare l’est, il luogo da cui sorge la luce. In quel bisogno si situa lo spazio di legittimità per un consiglio. Consiglio non dato da funzionari o consulenti a pagamento, ma che avviene nello spazio di una relazione di fiducia.
Consigliare richiede capacità di immaginazione e di adesione alla realtà. La prima sa prospettare vie inedite che, se ancora non rappresentano la soluzione del problema, almeno aprono un futuro in cui si potrà perfezionare ciò che si è intravisto. La seconda è essenziale perché le vie che si consigliano siano realmente percorribili e non siano mete troppo alte e ideali, tanto sublimi quanto irraggiungibili.
Poiché anche la fede, che è mite e non totalitaria, conosce il dubbio, e poiché la certezza della fede è di altro ordine rispetto alla certezza razionale e sta nello spazio della fiducia e dell’affidamento, anch’essa può aver bisogno di consigli.
La relazione di paternità spirituale è ambito privilegiato in cui il consiglio consente all’esperienza dell’anziano di orientare l’entusiasmo e la forza del giovane.
Le opere in celluloide
La parola ai giurati
Colpevole o innocente, al di là di ogni ragionevole dubbio? È questo l’interrogativo, distillato dalla più trita formula forense, che martella, con l’enfasi di un mantra, l’intreccio narrativo del film La parola ai giurati (12 Angry Men, 96 minuti, bianco e nero), realizzato nel 1957 dal regista statunitense Sidney Lumet. Nel film, l’ottavo giurato, Davis, interpretato da Henry Fonda, è l’unico, alla prima votazione della giuria, riunita a porte chiuse in una claustrofobica stanza del tribunale, a esprimersi per la non colpevolezza di un ragazzo accusato di parricidio. Mentre gli altri giurati propendono, tra ambiguità e fragili convinzioni, per la sua colpevolezza. Sul destino del giovane incombe il dilemma: la libertà o la sedia elettrica. Il verdetto deve essere espresso all’unanimità. E i giurati hanno molta fretta di ritornare alle loro occupazioni. Davis, invece, stimola una discussione serrata che mette in luce dubbi e pregiudizi livorosi verso il presunto colpevole. Incoraggia gli altri giurati a esplorare e confrontare le loro motivazioni, con il più socratico approccio maieutico: cercare la verità, peraltro già scritta nell’evidenza dei fatti avvenuti e nelle numerose falle del procedimento giudiziario. Soccorre i giurati nel disagio e nella crisi di coscienza che sembrano attanagliarli. Alla fine di questo processo – giudiziario, psicologico, relazionale, culturale – prevale il verdetto unanime di non colpevolezza. La parola ai giurati è un film metaforico, una perifrasi che ci sollecita a riflettere sul nostro vissuto quotidiano, su come affrontare e sciogliere i dubbi e gli interrogativi che ci assillano. Riflettere, porre interrogativi a noi stessi e agli altri, misurare le informazioni di cui disponiamo è il metodo che può portarci alla verità. Un esercizio adatto ad affinare l’attitudine a non arrendersi all’indifferenza che è fucina di noia ed egoismo.
Alessandro Bettero
Un ascolto che accompagna
a cura di Laura Pisanello
L’esempio
In Basilica del Santo a Padova c’è un Centro di ascolto nella Cappella dedicata a san Francesco. Molte le persone che si fermano per esprimere dubbi o difficoltà.
«Benvenuto in questa Basilica. Possa tu trovare ciò che stai cercando: un incontro con Dio, il conforto e la protezione di sant’Antonio. Se poi desideri esprimere e condividere qualche tuo pensiero, impressione o preoccupazione, è presente in questa Cappella dedicata a san Francesco d’Assisi una persona per assecondare e accogliere questo tuo desiderio». Con queste parole, affisse fuori dalla Cappella decorata dagli affreschi di Ubaldo Oppi, i frati della Basilica del Santo invitano quanti lo desiderano a fermarsi nel Centro di ascolto, per chiedere consiglio su qualche loro dubbio o problema.
È un servizio iniziato nel 1985, per volontà di padre Alessandro Brentari, e rivolto inizialmente ai ragazzi che volevano accostarsi alla vita religiosa, in modo da favorire nuove vocazioni. Poi, col tempo, a questa Cappella sono approdati un po’ tutti, indistintamente. Giovani e meno giovani, uomini e donne, possono trovare qui ascolto e conforto, ogni pomeriggio, dalle 15.00 alle 18.00. In questi anni si sono alternati con padre Alessandro anche religiosi di altri conventi. Attualmente, oltre all’ideatore, prestano il loro servizio nella Cappella di san Francesco due suore francescane e padre Claudio Mattuzzi (nella foto).
«Si rivolgono a noi – spiega proprio padre Claudio – persone che chiedono chiarimenti sulla fede, che hanno dei dubbi in proposito a qualche tematica specifica. Poi ci interpellano coloro che sono oppressi da problematiche di natura familiare o affettiva. Ci sono molte persone depresse che arrivano da noi disperate, con un senso di vuoto e di inutilità. Noi frati abbiamo l’occasione di incontrare anche gente che soffre per vere e proprie ossessioni. Ma i più ricorrenti sono decisamente i problemi familiari e le situazioni di solitudine, che è più diffusa di quanto si creda, soprattutto nelle città. Però ogni storia, che rimane assolutamente segreta, è a sé; non c’è persona uguale a un’altra».
Msa. Che tipo di consigli date a queste persone?
Mattuzzi. Cerchiamo di aiutarle a vivere con più serenità, tentando di portarle su un livello più alto e cioè alla consapevolezza che siamo tutti «creature di Dio» da Lui amate: per questo dobbiamo fare tutto ciò che è nelle nostre possibiità per vivere bene la nostra esistenza. Bisogna prestare sempre attenzione e rispettoso ascolto.
Che tipo di riscontri avete avuto?
In questi anni moltissime persone si sono rivolte a noi: la maggior parte viene da lontano e proprio questo favorisce sincerità e apertura.
Anche dei sacerdoti diocesani si sono interessati all’iniziativa di questo Santuario, ma il modello del Centro di ascolto non è facilmente «esportabile» nelle parrocchie.
Vivete questa attività come «un’opera di misericordia»?
Sì. Siamo soliti anche pregare per le persone che incontriamo e quando qualcuno se ne va via sorridente e contento, allora per noi è una grande soddisfazione.
Ci sono anche persone che tornano diverse volte perché hanno un desiderio di essere, per così dire, «accompagnate».