Il Giotto delle Langhe
NEW YORK
Valerio Berruti è nato ad Alba, in provincia di Cuneo, nel 1977. È laureato in Critica d’arte al DAMS di Torino. Vive e lavora a Verduno, nei pressi di Alba, nel cuore delle Langhe, nell’ex chiesa di San Rocco: un edificio sconsacrato del Seicento, che ha acquistato e restaurato nel 1995.
Berruti dipinge con la tecnica dell’affresco su tela, e il colore, tenue e velato, in certe parti è volutamente sgocciolato «per esprimere una visione fragile e precaria della vita». Nelle sue opere sono rappresentate famiglie e bambini, e viene circoscritto un mondo di affetti, ispirato alla sua storia personale, e a un luogo sacro e profano, allo stesso tempo, come il suo atelier.
Nel 2005 Berruti ha vinto il Concorso «Pagine Bianche d’Autore» bandito dalla Seat, che gli è valso la possibilità di fare uno stage al prestigioso ISCP, l’International Studio and Curatorial Program di New York che ogni anno seleziona dieci giovani talenti di tutto il mondo per inserirli nei circuiti internazionali di musei, gallerie e spazi alternativi. Situato nella Midtown di Manhattan, sulla 39° strada, il centro offre ai suoi partecipanti uno studio, con accesso 24 ore su 24, aperto al pubblico interessato. Inoltre ogni artista può ricevere la visita, nell’arco di sei mesi, di almeno 40 tra i più noti curatori, galleristi e critici del mondo.
Di recente Berruti ha partecipato, a Saint Etienne, in Francia, alla mostra «Cabinet des Dessins», curata da Lorand Hegyi: una collettiva di 10 artisti europei che usano il disegno come base della loro produzione. Poi a «Senza più pensare»: una personale curata da Guido Curto per il Ciclo OutSide in cui ha fatto un’istallazione di quattro enormi tele di juta; e a «Uniforms», al Museo di Herzliya, in Israele, dove Berruti ha realizzato sue opere direttamente nelle sale del museo.
Bettero. Come nasci artisticamente?
Berruti. Fin da piccolo ho sempre disegnato, e penso che la mia repulsione per il calcio sia stata uno dei motivi per cui, poi, ho fatto questo mestiere: tutti i miei amici giocavano a calcio mentre io disegnavo. Non sono mai riuscito ad immaginare la mia vita senza l’arte, senza la pittura, senza la passione che ho sempre portato dentro di me per il disegno. Mia madre ricorda ancora che io disegnavo già a 3 anni. È una passione che si ha dentro, come la danza per un ballerino; una di quelle cose innate, insite nella mia natura.
Per potersi affermare, sembra che i giovani artisti italiani siano «condannati» ad uscire dal loro Paese...
Assolutamente sì, ma non solo i giovani. L’Italia è un Paese che non permette agli artisti di diventare internazionali. Non ci sono artisti internazionali che vivono in Italia, questo è un dato di fatto. Gli unici che sono famosi o sono conosciuti a livello internazionale sono artisti americani che vivono e lavorano in America. Ovviamente rimangono italiani perché sono nati in Italia. Purtroppo, il fenomeno dei cervelli in fuga dall’Italia c’è anche nell’arte; e ripeto «purtroppo» perché l’Italia è un Paese meraviglioso, ma non ha la struttura, non ha la forza per sostenere l’arte contemporanea. Abbiamo infiniti problemi in Italia: ci preoccupiamo di preservare e mantenere l’arte antica. E noi siamo molto più fortunati rispetto agli americani. Ma loro, non avendo una storia antica, investono solo sul contemporaneo. Per gli americani è normale che un artista di 30 anni stia in un museo; per noi italiani, invece, è assurdo. L’America è un altro mondo.
Cosa ti ispira nella creazione artistica?
Fondamentalmente parto dal disegno. Però, nel tempo, ho messo a punto la tecnica dell’affresco, per cui realizzo opere su juta. Diversamente dall’affresco originale – quello di Giotto per intenderci –, dopo una serie di sperimentazioni sono riuscito a portare questa tecnica su juta in modo tale che i miei lavori siano arrotolabili. Mi piace molto l’affresco perché è una tecnica con cui bisogna dialogare, non è una tecnica sterile: è viva, nel senso che quando inizi l’affresco, poi hai un giorno di tempo per terminarlo, e non sei tu a decidere quando terminarlo; è lui che decide insieme a te. Quindi è un dialogo, è come un momento religioso; io credo molto nell’arte e nella religiosità dell’opera d’arte. Nel senso che quando io creo qualcosa, è come se partecipassi a una messa: è un rito, perché ogni giorno bisogna ricominciare, e ci sono certi canoni da rispettare. Ma all’interno di questi, esiste tutto lo spazio per la creazione. È proprio come dialogare con «qualcosa» che vive e ascolta quello che dici, però non ti permette di sbagliare perché se sbagli non esiste un colore per ritoccare, e quindi bisogna buttare tutto il lavoro e rifarne un altro. Perciò esiste un rapporto quasi sacro tra me e l’opera d’arte. Quando voglio realizzare qualcosa, devo essere convinto di ciò che intendo fare, e ho una sola possibilità. C’è una sorta di rito preparatorio. A volte ci impiego anche 15 giorni per preparare un affresco, e poi un giorno solo per eseguirlo. La mia tecnica è molto vicina all’improvvisazione del jazz; è molto diversa da ciò che può portare ad un affresco così com’è nell’immaginario collettivo: c’è questo pregiudizio per cui l’affresco si è fermato al Rinascimento; paradossalmente non è più stato usato nell’arte contemporanea perché le tecniche si sono evolute e quindi gli artisti hanno preferito seguire tecniche più facili da imparare. L’affresco richiede un bagaglio artigianale veramente complesso e lungo da affinare.
Qual è il vantaggio di un’esperienza come quella che tu hai vissuto a New York con l’ISCP, l’International Studio & Curatorial Program, a contatto con galleristi, critici e personalità che gravitano attorno al mondo dell’arte?
Ogni settimana all’ISCP vengono accompagnate personalità che sono al centro del mondo dell’arte americana: ogni artista ha 40 minuti di tempo per esporre il proprio lavoro. L’ISCP fa già una prima scrematura: una delle caratteristiche per accedervi è quella di non avere una galleria a New York. C’è stato molto interesse attorno alla mia figura e a quella di altri artisti. C’è un dialogo e ci si scambiano impressioni, e questo ti fa aprire gli occhi. Il curatore è una persona che ricerca gli artisti, va in uno studio; si creano dei rapporti che in Italia raramente esistono.
È anche un modo per confrontarsi su idee e tendenze dell’arte contemporanea. Quali sono i temi e i motivi che condividi con l’ultima generazione?
In comune c’è questo ritorno alla figurazione, a un linguaggio più popolare e più comprensibile anche ai non addetti ai lavori. Qualche anno fa, si era arrivati quasi all’esasperazione dell’arte concettuale nel senso che: o avevi un critico che te la spiegava oppure era impossibile poterla comprendere. Io vedo che tutti fanno uno sforzo, anche quelli che sono radicati in una forma d’arte meno canonica. C’è un ritorno verso la gente. Questo si vede nelle gallerie – di solito quelle di New York sono cinque o sei anni più avanti rispetto a quelle europee – perché negli Stati Uniti avviene la vera sperimentazione in quanto i galleristi non pongono limiti alla creatività degli artisti; cosa che, invece, da noi esiste a causa del mercato. Negli Stati Uniti il mercato lo fanno gli artisti, in Europa lo fanno i galleristi. E quindi gli artisti europei devono stare dietro al mercato e non all’arte cioè alla loro vera volontà artistica. In America gli artisti sono come delle star: girano con le guardie del corpo, hanno i loro fan, ecc. Il sistema americano amplifica molto quello che da noi non esiste proprio, però fa capire quanto ci sia una volontà di riavvicinarsi all’arte «sociale».