Il laboratorio sul tetto del mondo
«Piramide»: forse già nel nome sta un buon presagio, perché il termine richiama alla mente qualcosa che si conserva nel tempo, sfida i secoli e le condizioni ambientali più difficili. Quando questo avveniristico laboratorio-rifugio, il primo del suo genere al mondo, nel 1988 fu presentato alla Fiera di Milano, nemmeno gli ideatori del progetto, a iniziare dal visionario Ardito Desio e dal giovane Agostino Da Polenza, potevano immaginare che quella piramide tutta vetro e alluminio, collocata a oltre 5 mila metri d’altezza, sul versante nepalese del monte Everest, sarebbe diventata uno degli emblemi della ricerca scientifica del nostro Paese, tecnologico fiore all’occhiello del made in Italy ed esempio di buona cooperazione internazionale.
Così, fin dalla sua inaugurazione nel 1990, in presenza del professor Desio, ormai novantatreenne, il laboratorio più alto al mondo diventò noto ovunque semplicemente come «la Piramide», il simbolo stesso del Comitato EvK2Cnr, l’ente che realizza progetti scientifici in alta quota, luogo privilegiato per acquisire dati relativi ad ambiente, medicina, fisiologia, ma anche energia e sviluppo industriale.
E pensare che lo scopo originario del progetto era solo la rimisurazione dell’altezza di Everest e K2, per stabilire una volta per tutte, dopo una stagione di polemiche, quale fosse il vero «tetto del mondo». E battere gli Stati Uniti nella corsa a chi avrebbe posto per primo una struttura permanente di ricerca a così alta quota. «Chi avrebbe mai detto che ci saremmo trovati oggi a festeggiare un quarto di secolo della Piramide? Chi, soprattutto, avrebbe immaginato che questo piccolo villaggio scientifico tra i ghiacciai sarebbe diventato uno dei centri mondiali più importanti per capire i cambiamenti climatici e lo stato dell’inquinamento del nostro pianeta?» A stupirsi è lo stesso Agostino Da Polenza, alpinista bergamasco, 57 anni, ormai da parecchi anni presidente-tuttofare del Comitato: «Una prima spiegazione sta nel fatto che le strutture deputate a monitorare e acquisire dati climatologici sono pochissime: in tutto il mondo sono appena ventinove le stazioni “globali” del Gos (Global observing system), il principale network di misurazioni ad alto valore scientifico promosso dall’Organizzazione meteorologica mondiale. Due di queste sono italiane: una sul monte Cimone, in Trentino, e l’altra, appunto, sull’Himalaya». Per fare un solo esempio delle tante realizzazioni del progetto «Share» promosso da EvK2Cnr, basti ricordare «Everest 2011», l’installazione della webcam più alta al mondo, a quota 5.600 metri: se oggi si può vedere in tempo reale l’immagine dell’Everest e il tempo che fa lassù è grazie a essa e alla spedizione EvK2Cnr che l’ha portata sul Kala Patthat, di fronte al «tetto del mondo».
Da quelle quote, insomma, il Comitato misura la febbre del pianeta e tasta istante per istante il polso al «paziente» Terra. E per capire l’autorevolezza delle ricerche sul clima qui promosse, basti il fatto che i lavori firmati dal Comitato si trovano citati nel Rapporto triennale dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), fondamentale documento ufficiale che centinaia di scienziati di oltre sessanta Paesi stilano per indirizzare i governi nell’azione di contrasto del riscaldamento climatico.
«Sotto l’egida del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), il Comitato s’avvale di una rete di collaboratori italiani e stranieri per la gestione delle attività di ricerca», spiega Da Polenza. «È una squadra composta da ricercatori Cnr, ma anche da studiosi provenienti da università italiane ed estere, che lavora in base ad accordi intergovernativi, grazie alla collaborazione con i Paesi ospitanti, con le agenzie dell’Onu e con varie ong».
Italia-Himalaya andata e ritorno
Ma che ci fa un alpinista come Da Polenza, innamorato sì del K2 – che conquistò senza ossigeno ancora nel 1983, primo italiano a salirvi dalla parete Nord – ma che certo ricercatore e scienziato non è? «Già. Mi limito – risponde – a organizzare il tutto. Perché il Comitato non è un’équipe di scienziati, ma un’agenzia che media tra le domande scientifiche e le esigenze di utilizzo dei risultati da parte del territorio interessato dalle ricerche. In altre parole, la nostra piccola organizzazione mette a punto tecnologie, ingaggiando équipe di scienziati per rispondere a questioni poste da amministratori illuminati che si interrogano su problemi di sostenibilità ambientale, salvaguardia della biodiersità e sviluppo umano». Niente di meno.
Insomma, questo cinquantasettenne bergamasco «selvatico con la molecola del K2 nel Dna», come si autodefinisce, si è riscoperto capace di gestire uomini e risorse. In una parola: un manager. E non di un’aziendina da poco, se è vero che Evk2Cnr nel 2011 ha un bilancio di 4 milioni e 434 mila euro e ha investito negli anni oltre 12 milioni in ricerca, ha pianificato mezzo migliaio di spedizioni, insieme a centoquarantotto tra istituzioni, università, enti e organizzazioni nazionali e internazionali.
«Se la vogliamo vedere così, un po’ di spirito organizzativo bisogna pur averlo: considerando che oggi il Comitato comprende un’ottantina di persone che lavorano a tempo pieno tra Bergamo e Islamabad, allora sono una specie di capitano d’industria», ammette. Un imprenditore di un’azienda media, che fa la spola tra la Lombardia e il Karakorum più volte l’anno, che un giorno è costretto a studiarsi i bilanci di massa di un ghiacciaio per far partire un progetto di studio, e il giorno dopo s’imbarca per Katmandu, dove presenzia al Bilateral tecnical committee, l’organismo composto da autorità nepalesi e italiane che ogni anno decide quali progetti finanziare. Lui fa un po’ da «presidente di Confindustria», un po’ da diplomatico e un po’ da manager, appunto, peraltro teorizzando la montagna come «scuola di management», come si legge nel suo ultimo libro.
«Vent’anni fa non pensavo saremmo arrivati a questi livelli. Il vero profeta fu Ardito Desio. Fu lui a indicare l’Asia, l’area del Tibet e l’Himalaya in particolare, allora note solo a pochi alpinisti, come regioni interessanti da studiare, perché antropizzate e perché India e Cina stanno lì, ed entro breve sarebbero esplose economicamente, diventando le locomotive del mondo», spiega Da Polenza.
Missione di pace formato Everest
Così, da un gruppetto di scienziati saliti sull’Everest per misurarne l’altezza, man mano è cresciuta l’attenzione nei confronti delle popolazioni locali. Allora era importante applicare metodi di ricerca, riconosciuti come validi internazionalmente, ad ambienti eccezionali, e ricavarne risultati scientifici, ma quasi sempre nulli rispetto alle esigenze di chi abitava quei luoghi.
«Oggi il nostro lavoro si è ribaltato», afferma il presidente del Comitato. «Sempre più offriamo le nostre conoscenze tecnico-scientifiche a quei Paesi che hanno bisogno di risposte precise su clima e sostenibilità, e insieme facciamo formazione e trasferimento tecnologico. Ma allo stesso tempo operiamo anche in Italia». Ad esempio, è in fase di costruzione una fabbrica a Napoli per la produzione di sensori, strumentazione per monitoraggio climatico-ambientale in aree estreme, e che darà lavoro e qualificazione professionale a giovani italiani.
«Il Nepal – racconta Da Polenza – è un Paese tribolato, poverissimo, che ha subìto una forma di colonialismo culturale di ritorno. Le nostre ricerche scientifiche laggiù non sono più, da tempo, fine a se stesse, ma hanno ricadute per l’emancipazione di quelle popolazioni. La Piramide, ad esempio, che è un laboratorio complesso in cui lavorare e che deve sempre essere abitato, da cinque anni viene totalmente gestito dai nepalesi. Noi supervisioniamo e controlliamo a distanza. Abbiamo già formato tredici giovani, anche grazie a stage in Italia. A turno salgono lassù; vi lavorano per sette mesi, poi per altri cinque stanno a casa, perché l’esposizione in quota è usurante».
Uno degli obiettivi espliciti di Evk2cnr è la formazione di una classe di ricercatori locali. Una recente iniziativa in questo senso è stata la realizzazione della «Banca dei semi vegetali» a Katmandu, un ente che in Nepal ancora non esisteva.
Insomma, il vero valore aggiunto delle attività del Comitato sta nel contributo al miglioramento delle condizioni di vita che è riuscito a portare alle popolazioni di montagna dell’Indu-Kush, del Karakorum e dell’Himalaya, dal Nepal al Pakistan, dal Tibet all’India, e ai progetti di cooperazione internazionale partiti in questi anni. Uno su tutti: il Parco nazionale del Karakorum centrale nel Pakistan, progetto ideato ancora venticinque anni fa da Desio, e oggi realtà con tanto di confini, cartografia, una quarantina di guardaparco e una sede.
«È il paradigma del nostro modo di lavorare. È il futuro della cooperazione internazionale. La vera missione di pace». Parola del «cinico manager» Agostino Da Polenza.