Il momento più bello con papa Wojtyla
Quando la radio (la cara Radiorai, l'atipica radio-dimensione-uomo, la scattante Radio24, nata dalla costola storica del Sole-24 ore eccetera) chiede di intervistarmi a bruciapelo su di un accadimento che cavalca l'attualità , non dico mai di no. Perché se è vero che la tv ha divorato molti degli spazi radiofonici è anche vero che la radio è più persuasiva, più autentica. Orbene: una radio mi ha appena chiesto: Qual è il momento del lungo pontificato di Karol Wojtyla che l'ha colpita di più?
La risposta la troverete qui di seguito, cari lettori. Tale e quale. Certo in diretta, dati i tempi stretti, sono stato un po' più sintetico ma la sostanza non cambia.
Ho appassionatamente seguito Giovanni Paolo II in non pochi dei suoi viaggi all'estero (catechesi mobile, la sua), ho assistito a sue celebrazioni invero indimenticabili, ho avuto l'immenso privilegio di stare a tu per tu con lui, il profeta postmoderno Karol Wojtyla, ma il momentum, per il Vecchio Cronista, rimane il Giubileo degli Infermi.
Fu come vedere l'altra faccia del Sole, quella oscura: non la cerchiamo mai, vorremmo dimenticarcene epperò esiste. In quel giorno di febbraio del 2000, convenne in San Pietro l'esercito degli infermi, si radunò l'universo del dolore. E così ci rendemmo conto che, certamente, la vita è una epperò esistono diversi non facili modi di viverla. Prigionieri di una società competitiva senza misericordia, votata al soldo facile, imbastardita dal relativismo, falsata dall'apparenza, abbiamo rimosso la malattia. Ed ecco che il Papa polacco, già atletico, ci fa uscire dal cono dell'indifferenza: la vita non è in appalto ai sani soltanto. È popolata di infermi, di bimbi-down, vecchi vecchissimi aggrappati alla zattera della quotidianità pre-vegetativa, ragazzi belli costretti in carrozzella.
Quel mattino di febbraio i sofferenti radunati dal Papa sul sagrato di San Pietro non si aspettavano il miracolo (Roma non è Lourdes, semmai è Calcutta) ma sapevano che avrebbero ricevuto conforto e un attimo di visibilità , anche loro, gli sciancati, i paralitici, gli sfregiati dal male. E lui, il Papa della sofferenza e dell'infinita pietà , li ha ricolmati del suo amore.
E a lui si rivolge col pianto agli occhi Kirk Kilgour, il campione americano di volley costretto da 25 anni in una speciale carrozzina da una paralisi dovuta a un banale incidente.
Signore, non ho ricevuto niente di quel che chiedevo/ma mi hai dato tutto di cui avevo bisogno/e quasi contro la mia volontà ./Le preghiere che non feci furono esaudite/sii lodato o mio Signore:/fra tutti gli uomini nessuno possiede più di quello che ho io.
Ricordo che mentre le parole dell'atleta paralizzato salivano verso il cielo di Roma (una sorta di neo-ascesi?), col binocolo scrutavo il volto di Giovanni Paolo II. Quel volto da cui il cortisone cancellava, giorno dopo giorno sempre di più, l'agilità espressiva, il volto del Papa, dico, mixava pietas e amore, ammirazione e tenerezza. Lui che aveva accettato il cilicio dell'infermità con ubbidienza sofferta, lui solo poteva raccogliere il messaggio di grazia ch'era nella poesia dell'atleta appiedato. Wojtyla non ha mai voluto oscurare i visibili guasti che la malattia infliggeva al suo viso già arguto e asciutto. Ha mostrato il martirio della sconfitta fisica al mondo dei sani affinché non dimenticassero l'umiltà del dolore.
Solenne come Aronne, pietoso come lo fu Gesù, il Papa s'accostò all'atleta inchiodato alla sua carrozzella. Gli sorrise. Poi impose le sue mani sul capo del campione dimezzato e questi, smesso il pianto, sorrise buono, siccome un bambino senza più spaventi.