Il muro che ci ha divisi

Vent'anni fa, esattamente il 9 novembre 1989, cadeva la «cortina di ferro» tra le due Germanie. Una speranza che è costata cara anche a molti italiani. La ricercatrice Anna Maria Minutilli ha raccontato le loro storie.
16 Ottobre 2009 | di

Berlino
Talvolta la Storia, quella con la «S» maiuscola, non è altro che un puzzle di storie minori, ordinarie, storie con la «s» minuscola. Anche il muro di Berlino, di cui il 9 novembre si festeggia il ventennale dalla caduta, porta con sé tante storie. E in alcuni casi si tratta di storie insospettabilmente italiane. Anna Maria Minutilli, ricercatrice storica dell’università di Aachen, ha provato a catalogarle e a raccontarle. Ne emergono vicende di italiani caduti ai piedi del muro o comunque perseguitati, negli ultimi cinquant’anni, dal regime comunista della Germania democratica (Ddr). La studiosa pugliese ha rimesso insieme, frammento dopo frammento, il muro degli italiani di Berlino. Quelli che lo hanno subito, solo perché stranieri, quelli che lo hanno sfidato, facendo ricorso al proverbiale ingegno tricolore. Quelli, infine, cui quella barriera tra i due blocchi è costata la vita. Molti attendono ancora un risarcimento, che finora non è arrivato.
Le ricerche sono partite per caso, attraverso la rete. «Volevo capire quale fosse la situazione dei circa duemila italiani di origine residenti nella ex Ddr – spiega la Minutilli – alla fine ho scoperto che molti di essi erano perseguitati politici. Tra gli altri anche un gruppo di medici appartenente al movimento dei Focolarini».
Le storie sono molte. Emblematica quella di Elena Sciascia, che è morta di recente, dopo anni di agonia a Berlino, dimenticata da tutti, compresi il governo italiano e l’ambasciata. La Sciascia aveva aiutato un’amica a fuggire dalla Germania orientale. Venne scoperta e interrogata dalla Stasi con metodi di estrema violenza, fino a estorcerle una confessione. La stessa cosa accadde a Natale Pirri, nativo di Conegliano Calabro, che aveva anche lui cercato di aiutare una ragazza a fuggire verso ovest. Graziano Bertussin, invece, restò in carcere quattro anni e mezzo per spionaggio. Si era permesso di fotografare l’ambasciata vietnamita. Emblematico il caso di Benito Corghi, autotrasportatore bolognese, che viaggiava regolarmente con il suo camion tra le due Berlino. Una volta, per un banalissimo errore nella trasmissione dei documenti, scese dal camion e percorse a piedi i pochi metri che lo separavano dal gabbiotto delle guardie. Venne fucilato senza avere neppure il tempo di capirne il motivo. Infine Vittorio Palmieri, un elettricista romano emigrato in Germania all’inizio degli anni Sessanta, venne incastrato da un suo amico giornalista. Lo aveva pregato di portare dall’altra parte un libro. Palmieri ingenuamente accettò. Quando venne fermato il libro si rivelò essere un fascicolo di carte geografiche con segni attorno ai quartieri più bollenti di Berlino. Anche lui finì in carcere. «Una delle pratiche più frequenti della polizia – spiega la Minutilli – era quella di ricattare i presunti colpevoli, gli occidentali, e convincerli poi a diventare delle spie al soldo della Ddr, sotto la minaccia, magari, del carcere duro. C’è inoltre da dire che spesso gli italiani che cadevano in queste trappole lo facevano per sprovvedutezza e ingenuità». È il caso dell’operaio sardo Pietro Porcu, che negli anni Settanta era stato imprigionato nel famigerato penitenziario di Bautzen e segregato per mesi. Contro di lui era stata mossa la pesante accusa di terrorismo e commercio di uomini. In realtà Porcu aveva unicamente cercato di far fuggire alcune persone che risiedevano a Berlino Est, tra cui la sua amica Brigitte Boch. «Ci furono, però, anche casi in cui la “grande fuga” riuscì – ancora la Minutilli –. Il più famoso è forse quello di Mimmo Sesta e Luigi Spina, allora studenti delle università di Amburgo e Berlino. Scavarono un tunnel lungo 123 metri che, sotto la Bernauer Straße, attraversava il muro, sbucando nella Rheinberger Straße di Berlino Est». Fu attraverso questo tunnel che, il 14 settembre 1962, 29 cittadini dell’est percorsero la loro strada verso la libertà. E i due studenti italiani ne ricavarono anche qualche marco, dato che vendettero alla Nbc americana l’esclusiva della loro impresa. Una vicenda narrata di recente dalla moglie di Sesta, Ellen, nel libro Il tunnel della libertà, edito da Garzanti, dal quale è stato poi tratto anche un omonimo sceneggiato, trasmesso in Italia da Mediaset.
Per tutti questi italiani, oltre al silenzio dettato dalla «guerra fredda» fino al 1989, c’è stato anche l’oblio postumo, quello forse più odioso. Nessun governo ha sinora preso in seria considerazione la questione. «Ci sono state proposte per il ventennale – conclude la Minutilli –, come quella di erigere un monumento alle vittime italiane del muro, Sciascia e Corghi in testa. Non sono state prese in considerazione. Io continuerò la mia ricerca, per dare una visibilità, anche post mortem, a tanti connazionali che per anni non l’hanno avuta». L’ANALISI DI SERGIO ROMANO


Pezzi di muro che l’Europa

deve saper raccogliere


Crollato il muro, a Berlino, c’è chi ha iniziato a venderne dei pezzetti ai turisti. Ma ci sono altri frammenti di quella «cortina di ferro» andata in frantumi, che oggi è difficile raccogliere: sono gli Stati scaturiti dalla fine della «guerra fredda», che ora tentano di trovare una loro collocazione politica all’interno dell’Istituzione comunitaria. Abbiamo chiesto lumi a Sergio Romano, che in quel novembre del 1989 era da poco rientrato da Mosca, dove è stato ambasciatore per quattro anni.
Mastromatteo. Che eredità ci ha lasciato questo evento?
Romano. Ci sono molti Paesi che sono rimasti coinvolti dalla caduta del muro di Berlino. È stata certamente una splendida notizia per alcuni, ma non è detto che lo sia stata per altri. Noi continuiamo a rapportarci a questo avvenimento, come se fossimo i depositari dei criteri universali per esprimere un giudizio. Così non è.
Con quali occhi dovremmo guardare, allora, a questo evento che per noi assume un significato così particolare?
Dovremmo provare a guardarlo anche con gli occhi di un georgiano o di un moldavo, di un armeno, di un kazaco, di un bosniaco, di un croato, di un serbo o di un kosovaro. Tutto quello che è seguito, guerre e problemi economici inclusi, spesso non vengono considerati da noi che eravamo al di qua del muro.
E per noi, com’è andata?
Verrebbe da pensare che, per noi che eravamo da questa parte della cortina, nel «posto giusto», le cose siano andate necessariamente meglio. Questo è innegabile. Però, per fare un esempio, ora abbiamo a che fare con un’Europa a ventisette. Dobbiamo chiederci se un’Istituzione del genere sia davvero governabile.
In caso contrario, dobbiamo imputare queste criticità alla caduta dei blocchi in Europa?
Io dico di sì. L’Unione Sovietica, nel bene e nel male, gestiva un impero anche in Europa, costituito da un certo numero di Paesi «satellite». Dopo la fine della «guerra fredda», tutti questi Stati ce li siamo ritrovati come orfani, abbandonati davanti alla porta di casa.
Dunque, per i Paesi dell’est europeo, qual è stato il significato di quel 9 novembre 1989?
Di certo per loro quella data ha rappresentato un’opportunità: sono usciti da una fase di dominio sovietico e sono entrati in una grande organizzazione europea che gli ha aiutati a ricostruire le regole del mercato e dell’economia. Bisogna chiedersi se tutti questi Paesi siano poi stati in grado di coglierla questa opportunità. Alcuni, senza dubbio, l’hanno fatto molto bene.




 

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017