Il Natale di un'ostinata speranza

Al termine di un decennio difficile la comunità internazionale non trova ancora le strade della pace. Troppi egoismi frenano il cammino verso un necessario multilateralismo. La lezione e il simbolo del Bambino che nasce.
11 Novembre 2010 | di

Il Natale del 2010 giunge al termine di un decennio che si è rivelato un passaggio della storia difficile per molti. Si è trattato di un decennio segnato dalle armi, dalle guerre più o meno dimenticate (in Africa così come nel Vicino e Medio Oriente), dal pluridecennale  conflitto israelo-palestinese, per non parlare dei nuovi teatri di sfida, dallo Yemen al Pakistan. Conflitti che vedono giorno dopo giorno vite umane travolte e che richiedono investimenti finanziari sempre maggiori e persino blasfemi, in un’epoca in cui l’unica industria a non conoscere crisi è quella delle armi. Forse non è un caso se questa decade, a differenza delle successive – gli anni Dieci, Venti, ecc. – sia definita solo con il neologismo anglofono di noughties, che deriva da nought (zero), ma che ha un’assonanza in un termine di significato negativo (naughty significa birbante, cattivo).
Di certo non è casuale che l’ultima assemblea del Sinodo dei Vescovi sia stata dedicata proprio al Medio Oriente, a quel contesto difficile e doloroso di una regione da troppo tempo insanguinata da conflitti, guerre, terrorismo, in quella stessa Gerusalemme che pure è santa per le tre grandi religioni abramitiche. Un Sinodo è sempre rivolto all’interno e all’esterno della Chiesa. In questo, dedicato alle terre dove l’annuncio evangelico è risuonato e si è diffuso nel suo inizio, ha prevalso certo la preoccupazione per quei quindici milioni di cattolici che vivono disagi materiali, scoraggiamento, tensione, paura. Il suo primo risultato è stato quello di mettere la Chiesa in preghiera. Perché, come ha detto Benedetto XVI, «il grido del povero e dell’oppresso trova un’eco immediata in Dio, che vuole intervenire per aprire una via di uscita, per restituire un futuro di libertà, un orizzonte di speranza».
Ma questo Sinodo, come tutti del resto, ha avuto e ha un significato politico in senso proprio. Al termine di un decennio segnato da scelte unilaterali, il Sinodo ha rilanciato un modo di pensare, di sperare, di affermare la forza del confronto, la misura del dialogo, il rispetto di un multilateralismo non generico, ma nutrito della varietà delle posizioni e della libertà di espressione, nell’unico, sostanziale e convergente desiderio di pace e di giustizia. In contesti dove si parla per lo più di terra, il Sinodo ha voluto parlare di persone, a partire da quelle comunità percosse e disperse, dai palestinesi ai curdi, ai tanti cattolici che subiscono una vera e continua emorragia. E ha voluto parlare di diritti, compreso quello a «un’autentica libertà religiosa e di coscienza, uno dei diritti fondamentali della persona umana che ogni Stato dovrebbe sempre rispettare», come ha detto ancora Benedetto XVI.
La politica necessaria
Dicevamo che l’unica industria non in crisi sembra quella delle armi. E non è una questione da poco, negli sviluppi geopolitici più recenti, segnati sia da confronti aspri sia dal vero e proprio crollo di un’impostazione essenzialmente solo finanziaria dei processi economici. La lettura forse più facile è quella secondo la quale da sempre nelle situazioni di crisi economica la guerra è una scorciatoia per rimettere in moto la produzione industriale. Ma proprio questa lettura obbliga a ricordare che le armi si producono per usarle. Un’altra lettura del decennio è quella della paralisi del multilateralismo, alla quale non ha dato ancora le risposte sperate neppure il mutamento di politica statunitense voluto da Barack Obama, alle prese a sua volta con un’erosione di consensi in patria chiaramente dimostrata dalle elezioni di metà mandato di novembre.
Contro i pericoli insiti in tale paralisi, ci sono stati e persistono il magistero del Papa e l’attività della Santa Sede. Non è un’azione da confinare solo nel pur lodevole richiamo a ricordare che la guerra è male comunque, da «liquidare» con il riferimento a categorie quali bontà o anche giustizia. Essa è invece un’azione precipuamente politica, nel senso proprio di questo termine.
Né la dissennatezza della guerra è l’unica minaccia che ancora incombe sull’umanità. Non c’è praticamente campo della convivenza mondiale che non sia segnato da un egoismo folle e criminale. Persino le catastrofi di quest’ultimo anno confermano, se mai ce ne fosse bisogno, i pericoli provocati dai modelli di sviluppo basati sullo sfruttamento indiscriminato di risorse naturali. Fenomeni relativamente poco rilevanti sul piano planetario hanno esiti pesantissimi sulla comunità umana così come è organizzata. In alcuni casi – come l’eruzione del vulcano islandese che ha bloccato per giorni il traffico aereo in Europa – le conseguenze possono essere rubricate come disagi o al più tra le perdite economiche. Ma in altri si paga un prezzo di vite umane che è fuorviante e colpevole  attribuire a fatalità o circoscrivere alle aree del sottosviluppo. Persino l’Europa e gli Stati Uniti, negli ultimi anni, hanno scontato amaramente il prezzo di politiche dissennate in materia di tutela dell’ambiente.
Tuttavia, è un fatto che i disastri ambientali colpiscano più duramente i Paesi poveri o anche quelli emergenti. Il maltempo che in primavere ha flagellato il Brasile con alluvioni e frane ha provocato vittime soprattutto nelle sterminate favelas di Rio de Janeiro e di São Paulo, prive di ogni condizione di sicurezza, oltre che di salubrità. Così come le fasce più deboli delle popolazioni hanno  subito le conseguenze dell’irregolarità registrata anche quest’anno nella stagione monsonica in Asia, con le alluvioni in Pakistan, soprattutto, in India e in Cina.
Sperare nonostante tutto
Persino nei terremoti a uccidere non è la natura, ma l’uomo. Proprio quest’anno, grazie a un’edilizia antisismica efficace, il terremoto in Cile, di intensità spaventosa, ha provocato poche centinaia di vittime (dovute soprattutto a errori nella gestione dell’emergenza, in particolare con l’improvvida negazione di un pericolo tsunami venuta dai militari). Ad Haiti, un sisma di violenza mille volte inferiore ha provocato invece oltre 230 mila morti. In Cina, nella provincia tibetana dello Qinghai, di accertata attività sismica, ha avuto effetti disastrosi un terremoto che in Giappone o in Cile avrebbe al più rotto qualche piatto o bicchiere.
Né alluvioni e terremoti sono gli esempi più gravi. È un po’ come la storia della sicurezza dei trasporti. Se casca un aereo o deraglia un treno c’è un numero concentrato di vittime che fa notizia. In quello stesso momento, ce ne sono certamente di più sulle strade, ma finiscono, seppure lo fanno, nelle brevi di cronaca.
Le emissioni di gas nocivi, sulla cui riduzione non si riesce a trovare effettivi accordi, hanno già in gran parte compromesso i cicli naturali. Lo dimostrano le irregolarità registrate da almeno due decenni nelle stagioni delle piogge in Africa, quasi sempre scarse o troppo abbondanti e concentrate in periodi brevissimi, e quindi con una ininterrotta sequela di siccità e inondazioni. Intanto, sulle falde acquifere incombe la minaccia dello sfruttamento dissennato e dall’inquinamento prodotto da sistemi di agricoltura intensiva. Per non parlare della marea nera nel Golfo del Messico.
Sì, le prospettive sono ancora fosche. Tuttavia, il Natale ha una forza simbolica evidente, capace – essa sì – di consolare e di offrire speranza. Per chi è cristiano è l’evento cerniera della storia, il Dio con noi, il Dio che si fa come noi. Ma anche per chi ha una fede diversa, sia pure solo nell’uomo, Natale è un bel simbolo. Al centro c’è un bambino. E un bambino è speranza. A costruire questa speranza c’è la donna, la madre che offre vita e nutrimento. C’è un uomo, un padre – non importa se per carne o per scelta – che offre a entrambi sostegno e amore. Ci sono gli umili e i sapienti che offrono doni. E doni offre la natura, con il calore degli animali, con lo splendore nel cielo della stella più luminosa. Sì: è un bel simbolo. Nelle ore in cui prevalgono incertezza e timore, rifletterci un po’ sopra può essere utile. E senza voler imporre il proprio sentire a quanti hanno visioni diverse del senso della vita e della storia, si può aggiungere che è un modo di pregare.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017