Il Papa buono sugli altari

Dal tre settembre Giovanni XXIII è ufficialmente beato. Un breve profilo di un Pontefice umile, buono e semplice, ma straordinariamente significativo per la vita della Chiesa.
07 Settembre 2000 | di

«Figlioli... tornando a casa, troverete i bambini, date loro una carezza e dite: 'questa è la carezza del Papa'. Troverete, forse, qualche lacrima da asciugare. Abbiate per chi soffre una parola di conforto. Dite che il Papa è con loro...».
In una tiepida serata autunnale, Giovanni XXIII congedava così la gente accorsa in piazza san Pietro per celebrare l' avvio del concilio Vaticano II (11 ottobre 1962). Quelle parole, intrise di umanità  e di poesia, commossero il mondo e furono il miglior preludio della grande assise ecumenica destinata a rinnovare profondamente la Chiesa e che fece di Giovanni XXIII, come disse lo scrittore francese Francois Mauriac, il Papa che ha gettato «un ponte sui nove secoli che ci separano dai cristiani dell' Oriente e sui quattro che ci dividono dai fratelli separati dell' Occidente» Insomma, il Papa del dialogo, delle aperture, delle audaci novità  (il viaggio ad Assisi, a Loreto, la visita ai carcerati, ai bambini in ospedale...) che in pochi anni avvicinarono la Chiesa al mondo moderno. E pensare che quando lo elessero, ormai prossimo agli ottanta, tutti pensarono che sarebbe stato un Papa di transizione, per consentire alla Chiesa di riordinare le idee di fronte alle sfide che la società  le stava imperiosamente ponendo. Invece il suo pontificato fu sì di breve durata, ma come pochi altri significativo e incidente.
L' idea di finire lui stesso sul soglio di Pietro non l' aveva neppure sfiorato quando, il 12 ottobre 1958, lasciava Venezia per andare a Roma a eleggere il successore di Pio XII. Ai veneziani che gli auguravano buona fortuna, aveva risposto: «La migliore fortuna che mi possa capitare è quella di tornare tra voi fra un paio di settimane». Non aveva dubbi: a Venezia, la città  del santo papa Pio X, di cui si sentiva onorato di continuare l' opera, si sarebbe conclusa la parabola della sua vita. Il giorno del suo ingresso, (era la domenica 15 marzo 1953) nella basilica di san Marco aveva così pregato: «O Signore, questo domando, di poter dare la vita per questi miei figli di Venezia».
La preghiera concludeva un discorso che gli aveva attirato subito la simpatia e l' affetto dei veneziani. Con semplicità  e stile confidenziale aveva fatto il punto della sua vita: «Desidero parlarvi con la più grande apertura di cuore e con molta franchezza di parola - aveva detto - . Sono state dette e scritte cose che sorpassano di molto i miei meriti. Mi presento umilmente io stesso. Vengo dall' umiltà  e fui educato a una povertà  contenta e benedetta. Da quando nacqui io non ho mai pensato che a essere prete. Da giovane prete non aspiravo che a diventare curato di campagna nella mia diocesi, ma la Provvidenza ha voluto avviarmi per altre strade prima di giungere qui. Mi trasse dal mio villaggio natio e mi fece percorrere le vie del mondo in Oriente e in Occidente... Fui sempre preoccupato più di ciò che unisce che di quello che separa e suscita contrasti. Non guardate dunque al vostro Patriarca come a un uomo politico, a un diplomatico: cercate il sacerdote, il pastore d' anime che esercita tra voi il suo ufficio nel nome di Dio».

Il villaggio natio è Sotto il Monte, piccolo paese del bergamasco, nel quale, il 25 novembre 1881, Angelo Roncalli vide la luce. Alla povertà  contenta e benedetta lo ha educato la sua patriarcale famiglia contadina che viveva nella cascina «La Colombera», alternando lavoro e preghiera, sotto la guida saggia di zio Saverio.
Di indole buona e sensibile, sentì presto il desiderio di consacrare la propria vita a Dio per poterlo servire meglio degli altri nella carità . Nel seminario di Bergamo iniziò la lunga strada di preparazione al sacerdozio, che si concluse a Roma il 10 agosto 1904.
Pretino novello, invece che nella desiderata parrocchietta di campagna, lo mandarono a fare il segretario del nuovo vescovo di Bergamo, monsignor Radini Tedeschi. Al suo fianco rimase dieci anni, durante i quali imparò che un uomo di Chiesa deve essere soprattutto buono e caritatevole: una lezione che non scorderà  mai più. Intanto, viveva la terribile esperienza della prima guerra mondiale, alla quale partecipò come sergente di sanità  e cappellano militare.

Viaggiatore di Dio. Neppure alla morte del monsignore si aprirono per don Angelo le porte di una canonica. Lo vollero a Roma, all' Opera della propagazione della Fede, diretta dal cardinale Von Rossum, il quale vide nell' intelligente e saggio prete bergamasco, l' uomo giusto da inviare nelle capitali a intessere rapporti con le Chiese e con gli Stati. «Dovrete viaggiare, viaggiare molto. Sarete il viaggiatore di Dio» gli disse papa Benedetto XV nell' affidargli l' incarico.
Consacrato vescovo il 15 marzo 1925, cominciò il suo lungo viaggio che lo porterà  in missione come visitatore apostolico in Bulgaria, poi delegato apostolico in Turchia e in Grecia e poi nunzio apostolico a Parigi, ultima tappa prima dell' approdo a Venezia.
Partendo per la Bulgaria, annotava nel diario (Giornale dell' anima): «La Chiesa mi vuole vescovo per mandarmi in Bulgaria, a esercitare un ministero di pace. Forse nella mia vita mi attendono molte tribolazioni. Con l' aiuto del Signore mi sento pronto a tutto». E con l' aiuto del Signore, invocato nella preghiera, e con le sue doti di pazienza, di bontà , di tenacia, di rispetto delle posizioni degli altri, ottenne in Bulgaria, dove i rapporti con la Chiesa ortodossa non erano dei migliori, ottimi risultati. Ma poi anche in Grecia e in Turchia. Il suo spirito ecumenico nacque da quelle parti, sul campo: certi pregiudizi incrostati dal tempo cominciarono qua e là  a sciogliersi al calore della bontà  e della carità  di questo insolito rappresentante della Chiesa di Roma. Spesso, tra la sorpresa e l' ammirazione dei presenti, gli incontri di monsignor Roncalli con i vescovi ortodossi si concludevano con un abbraccio, a suggellare un amicizia che cancellava, tra loro, secoli di divisioni e di incomprensioni. Fu per questo il primo dignitario della Chiesa cattolica a visitare il celebre, e inavvicinabile per i cattolici, monastero del monte Athos in Grecia. E l' ecumenismo sarà  un punto forte del suo programma pastorale anche a Venezia, città  da sempre considerata ponte tra Occidente e Oriente.

Mi chiamerò Giovanni. Eletto Papa, al cardinal Tisseranti, che gli chiese con quale nome voleva essere chiamato, disse: «Mi chiamerò Giovanni, un nome dolce e nello stesso tempo solenne». Il 28 ottobre 1958, l' umile figlio della terra bergamasca, a settantasette anni, cominciava il servizio che la Provvidenza gli aveva assegnato: lo svolgerà  con il suo stile accattivante di bontà , di umiltà , di comprensione che faranno di lui «il Papa buono». Ma anche il Papa che attraverso le encicliche Mater et Magistra e Pacem in terris ha aperto la Chiesa al mondo e il mondo alla speranza.
Il 3 giugno 1963, alle ore 19,45, in Vaticano, si spegneva una grande luce sul mondo. Il suo nome era Giovanni.


   
   
DICONO DI LUI

   
   

   

   

  Maria Vingiani,     cattolica, fondatrice del Sae (Segretariato attività  ecumeniche), collaborò, durante il Concilio, all' apertura del dialogo con gli ebrei: «Era l' uomo nuovo, semplice, che non affidava nulla all' esteriorità , all' apparenza, allo spettacolo. Era l' uomo della comunione con Dio, attraversato dallo Spirito. In quattro anni e poco più di pontificato, disarmò il folto gruppo degli inquisitori».   Traian Valdman,             sacerdote ortodosso, rumeno (in  esercizio ministeriale a Milano): «Papa Giovanni è stato determinante, per  aver intuito la necessità  del Concilio, con il quale si è riscoperta la comunione tra le Chiese. È la prima volta che si riconosce alla Chiesa ortodossa la successione apostolica (Chiese che provengono direttamente dagli apostoli di Gesù), la validità  dei sacramenti. Il Concilio ci ha chiamate 'Chiese sorelle', anche se rimangono ancora dei nodi da sciogliere».   Paolo Ricca         , teologo e pastore valdese: «Il Concilio, promosso da papa Giovanni, è stato una grande sorpresa. Eravamo abituati a non pensare alla possibilità  di un concilio, dopo la dichiarazione dell' infallibilità  del Papa, al concilio Vaticano I. Grazie al concilio Vaticano II noi protestanti non siamo più considerati un corpo estraneo alla Chiesa, ma parte del panorama cristiano. Grande svolta. Atteggiamenti nuovi, non solo con i protestanti, con gli ebrei e con i       musulmani».   Glen Williams      , pastore battista di Ginevra (recentemente scomparso): «Considero papa Giovanni un santo, non nel senso cattolico, un uomo che ha saputo esprimere il carisma di far discutere, di aprire all' ascolto degli altri. Anche per noi evangelici è l' uomo della Provvidenza».
(testi raccolti da Luigi Francesco Ruffato)

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Suor Caterina racconta il miracolo
«Papa Giovanni mi disse: non hai più niente»

      

Suor Caterina Capitani, ridotta in fin di vita da una malattia di cui neppure illustri luminari della medicina riuscivano a venirne a capo, un giorno vide il «Papa buono» accanto al suo letto. E fu la guarigione.                                   

di Renzo Allegri

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rotagonista del miracolo è suor Caterina Capitani, nativa di Cosenza, della congregazione delle Figlie della carità : oggi ha cinquantasei anni, ventidue quando venne miracolata (1966). Suor Caterina è in condizioni fisiche speciali: senza stomaco, senza pancreas, senza milza, dovrebbe prendere mille precauzioni e vivere tranquilla, invece è un ciclone di dinamicità . Svolge il suo apostolato al servizio degli ammalati negli ospedali, lavorando fino a 16-18 ore il giorno. «Eppure mi sento in forma - dice con uno smagliante sorriso - . Qualche raffreddore e nulla più. I medici degli ospedali in cui ho lavorato dopo il miracolo, conoscendo le mie condizioni fisiche, sono sempre stati in attesa del crollo. Che ancora non è venuto».

 I primi sintomi. Caterina cominciò ad accusare disturbi alcuni mesi dopo aver vestito il saio. Era il 1962. Aveva diciotto anni e lavorava presso gli Ospedali Riuniti di Napoli. Prima di allora la sua salute era ottima. Avvertì un dolore intercostale tra stomaco e cuore, ma non ci badò. Dopo un paio di mesi, però, ebbe un' emorragia e questa volta si spaventò: vomitò sangue molto rosso. Le avevano insegnato che il sangue molto rosso proviene dal torace: pensò con terrore alla tisi. Con una simile malattia la sua vita in convento sarebbe finita.
«La regola della nostra congregazione - dice suor Caterina - esige che le aspiranti religiose siano sane per affrontare i sacrifici che il lavoro in ospedale richiede. Se sei malata, vieni mandata a casa prima di emettere i voti. Io i voti non li avevo ancora emessi, con la tbc mi mandavano via».
Decise di non dire niente a nessuno e per sette mesi non accadde più niente. Poi all' improvviso, un' altra emorragia, seguita da un' altra più abbondante. Non fu possibile tacere: visite, controlli, esami clinici. Un caso complicato di cui si interessarono celebri specialisti napoletani come i professori Piroli, Capozzi, Ruggero, Grassi... Vennero effettuate radiografie del torace, dello stomaco, stratigrafie... ma la causa delle emorragie non venne a galla.
Nel 1964 i medici degli Ospedali Riuniti, dichiaratisi vinti, mandarono suor Caterina all' Ospedale «Ascalesi», sotto le cure del professor Alfonso D' Avino, otorinolaringoiatra. L' esofagoscopia rivelò una zona emorragica nel segmento toracico: sembrava che tutti i malanni provenissero da lì. Allora fu ricoverata all' Ospedale «Pellegrini», in cura dall' ematologo professor Giovanni Bile. Ma senza risultati.
Alla fine, si rivolsero al professor Giuseppe Zannini, direttore dell' Istituto di Semeiotica chirurgica dell' Università  di Napoli, specialista in chirurgia dei vasi sanguigni: una personalità  internazionale nel campo della medicina. Dopo un' accurata analisi dei referti dei colleghi, il professore prescrisse una nuova, inutile cura che durò cinque mesi. Il professore decise allora di sottoporre l' ammalata a intervento chirurgico.

L' intervento. Suor Caterina venne ricoverata nella Clinica Mediterranea e operata. L' intervento durò cinque ore: le venne asportato lo stomaco, tranne un pezzetto grosso quanto una susina, la milza e il pancreas. L' esofago venne collegato all' intestino «digiuno». Fu necessario recidere la vena aorta e collegarla alla vena cava, deviando la circolazione del sangue. Intervento delicatissimo con scarsissime possibilità  di uscirne vivi. Suor Caterina ne uscì viva e già  fu un miracolo: della Madonna di Pompei, invocata dalla suora o di papa Giovanni, invocato dalle consorelle?
Le cose non andavano, però, bene: un collasso seguito a distanza da un blocco intestinale. Intanto, le suore continuavano a pregare papa Giovanni e Caterina la Madonna di Pompei. Seguì un breve miglioramento, troncato da una pleurite. «Devi pregare papa Giovanni», ripetevano le mie consorelle. «Mi lasciai convincere e cominciai anch' io a pregare il 'Papa buono'. Dopo una decina di giorni ero in grado di uscire dalla clinica».
Ma due settimane dopo Caterina cominciò a vomitare succhi gastrici in grande quantità , così acidi che le bruciavano la pelle. Non sapendo più che fare, il professor Zannini la mandò a Cosenza, sperando che l' aria del paese natale le giovasse. Ma dopo due mesi la religiosa era ancora a Napoli in condizioni pietose.
«Il 14 maggio 1966, dopo una grave crisi di vomito, sentii che avevo l' addome tutto bagnato - racconta la religiosa - . Chiamai una consorella perché controllasse: sullo stomaco si era aperto un buco dal quale uscivano succhi gastrici, sangue e quel poco di succo d' arancia che avevo bevuto: s' era formata una perforazione con conseguente fistola esterna. Era in atto una peritonite diffusa. Avevo la febbre a 40. La situazione era disperata. Il professor Zannini mi fece ricoverare all' ospedale della Marina, mi ordinò delle medicine e decise di attendere lo sviluppo della crisi perché un intervento chirurgico in quelle condizioni era impensabile... Pur mancando ancora un anno al termine della prova, mi fu consentito di emettere i voti perché ero 'in punto di morte' (19 maggio 1966) e subito dopo mi venne impartita l' Estrema unzione».

Il miracolo. «Il 22 maggio una consorella mi portò da Roma una reliquia di papa Giovanni: un pezzetto del lenzuolo sul quale il Pontefice era morto. La misi sulla perforazione e, poiché soffrivo molto, pregavo il Papa che mi portasse in Paradiso... Il 25 maggio, verso le 14,30, chiesi alla consorella di guardia di socchiudere la finestra perché la luce mi dava fastidio. Mi assopii. A un certo punto sentii una mano che mi premeva la ferita e una voce che diceva: 'Suor Caterina, suor Caterina'. Pensai fosse il professor Zannini, invece vidi, accanto al mio letto, papa Giovanni: 'Mi hai molto pregato - disse con voce tranquilla - . Me l' avete proprio strappato dal cuore questo miracolo. Ma ora non temere, non hai più niente, fatti misurare la febbre e vedrai che la temperatura non arriverà  neppure a 37 gradi. Mangia tutto quello che vuoi, come prima della malattia: sulla tua ferita tengo la mia mano, non avrai più niente...'.
La visione scomparve, e solo allora cominciai a rendermi conto di che cosa era accaduto. Tremavo per l' emozione e la paura. Ma mi sentivo bene. Non avevo più dolori... Dopo un po' , chiamai le consorelle. Trovandomi seduta sul letto, mi guardarono incredule. Io gridavo: 'Sono guarita. È stato papa Giovanni. Misuratemi la febbre, vedrete che non ho più niente'. La madre superiora pensò fossi in preda al delirio che precede la morte. Mi misurarono la febbre: 36.8. 'Avete visto?' - dissi con aria di sfida - . 'E ora datemi da mangiare perché ho fame'. Da parecchi mesi non riuscivo a tenere niente nello stomaco. La madre superiora disse di accontentarmi. Una suora mi portò del semolino che, tra sguardi allibiti, ingoiai voracemente. Allora mi portarono un gelato, e mangiai anche quello. 'Ho ancora fame', dissi. La suora mi portò delle polpette, e le mangiai; poi una minestrina, e divorai anche quella. 'Adesso dobbiamo cambiarti' disse la superiora, convinta che quello che avevo mangiato fosse uscito dalla fistola. Mi distesero sul lettino. Un' infermiera portò garze e vestiti puliti. Ma, scopertami, non trovarono niente. Le suore caddero in ginocchio piangendo. Fino a poco prima la pelle del mio stomaco era tutta una piaga: i succhi gastrici l' avevano corrosa. Ora non c' era più niente. Della fistola, nessuna traccia: la pelle era liscia, pulita e bianca. Allora raccontai quanto era accaduto».
Visite e controlli a non più finire decretarono che il miracolo era avvenuto.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017