Il papà del kamikaze la mamma delle vittime
A dividerli, nonostante il dolore nascosto nei loro occhi li accomuni, non sono solo i cinquanta chilometri di deserto che separano le loro abitazioni. Lui, Abdel Basit, è un anziano palestinese che vive con la numerosa famiglia in un angusto appartamento alla periferia di Tulkarem, dopo che i bulldozer israeliani, per rappresaglia, hanno raso al suo suolo la sua casa di tre piani. Era suo figlio l'autore della strage all'Hotel Parking di Netanya.
Zehava Vider, ebrea cinquantenne, vive a Beqaot, un blindato e florido insediamento israeliano, posto sulla sommità di una brulla collina sassosa, lontana cinquanta chilometri da Tulkarem. Con lei una volta viveva la sua famiglia, prima che quell'attentato kamikaze, del quale fu testimone, gliela decimasse: Sono una sopravissuta - dice Zehava -: della mia famiglia siamo rimasti solo in due. Ho perso mio marito, la figlia più giovane, il mio futuro genero ed è gravemente ferita la secondogenita.
Due genitori e testimoni a confronto, che vivono sulla stessa terra, separati solo dai check-point. Due realtà che non troveranno mai pace, nemmeno con l'eventuale sviluppo della Road Map.
Parla il padre del kamikaze
Sono il padre di un Istishhadi, un martire della resistenza palestinese, e ne vado fiero - ci spiega l'anziano Abdel Basit -, perché mio figlio sarebbe comunque morto per mano israeliana. Era ricercato dai servizi segreti solo perché tentava di fuggire a Bagdad per unirsi in matrimonio con una palestinese irachena. Otto mesi prima dell'attentato suicida, mio figlio era scomparso. Non l'ho più rivisto. Nessuno della mia famiglia sapeva quello che sarebbe poi accaduto a Netanya. È stata una sua libera scelta, quella d'immolarsi per la causa palestinese. Se me l'avesse chiesto, gli avrei risposto che quella non era una decisione che riguardava la famiglia, ma solo lui stesso. Ha fatto quello in cui credeva.
Una scelta, che è costata la vita a trentatré israeliani.
Non posso dimenticare quel momento - commenta Zehava Vider - quando all'improvviso andò via la luce e mi sentii bruciare i capelli. Eravamo seduti attorno al tavolo. Felici, come lo sono le famiglie ebree durante la festa di Pasqua, Pesach. Ho pensato subito a un guasto elettrico, ma poi un barlume di luce mi mostrò il corpo di mio marito riverso sul pavimento, insanguinato. Vicino a lui mia figlia e il mio futuro genero nelle stesse condizioni; mentre la figlia maggiore, ferita, urlava dal dolore. I giorni successivi furono un calvario: ho visto morire i miei cari nei vari ospedali di Netanya. Si è salvata una delle due ragazze, nonostante le gravi ferite, ora è lei, assieme a mio figlio, scampato alla strage perché non era con noi quel giorno, a darmi ancora la forza di vivere.
Niente vale più della vita di un figlio - risponde Abdel Basit - e non l'avrei cambiata con nient'altro al mondo. Non si può morire per una casa o per della terra. È diverso se muori per il tuo popolo, da tre anni oppresso da una forza militare. Quello è un sacrificio che piace a Dio. I nostri martiri sono eroi e, benché questo sia un onore, nessuno potrà mai più ridarmi la gioia di mio figlio. Eccolo qui Abdul, (e il padre mi nostra il manifesto che inneggia al martirio del figlio), un ragazzo come tanti, vittima della prepotenza israeliana. Se questa è la fabbrica dei kamikaze- come dite voi occidentali -, è perché dopo cinquant'anni nessuno ha voluto porre fine alla nostra tragedia personale e sociale.
È solo il fanatismo di pochi che impedisce l'avvento della pace - ammonisce Zehava -. Io non odio i palestinesi per aver sterminato la mia famiglia. Semmai, non perdono quel palestinese. La colpa è soprattutto delle loro autorità politiche che si arricchiscono con i soldi destinati al popolo palestinese. L'Europa dovrebbe controllare e fermare i finanziamenti destinati a scuole, asili e ospedali palestinesi, perché quei soldi finiscono col finanziare la lotta armata e gli stessi terroristi. Ditemi perché il loro leader, Arafat, è tra gli uomini più ricchi del mondo, mentre il suo popolo è ridotto alla fame? So che nessuno saprà darmi risposte alla domanda che ogni mattina mi pongo: perché? Mio marito ha donato gli organi, i suoi reni sono andati a una donna palestinese. Ho incontrato quella donna araba. Ci siamo guardati e abbracciati. Ma non posso perdonare chi, invece, festeggia offrendo cioccolatini per strada, ogni volta che un uomo semina morte. Se poi dovrò lasciare il villaggio dove abito in cambio della pace, sono pronta a farlo.
Posso immaginare il dolore di quella madre e moglie - risponde da Tulkarem l'anziano Abdel -, e gli vorrei dire che mi dispiace molto. Ma vorrei che sapesse come per colpa di uno, oggi gli israeliani continuino a far ricadere le colpe su tutte le persone innocenti della mia famiglia. Sono cinquant'anni che preghiamo per la pace, senza che nessuno mai porga ascolto alle nostre suppliche....
La strage di Netanya
Il 27 marzo 2002 un kamikaze, votato al martirio, si è fatto esplodere provocando la morte di trentatré israeliani e il ferimento di altri ottanta. È stato uno degli attentati più efferati della seconda Intifada, non solo per l'alto numero di morti, ma perché compiuto in un particolare momento di festa, la Pasqua degli ebrei, che fino ad allora garantiva tra le parti una tacita tregua.