Il Papa delle sorprese

Apostrofato fin dalla sua elezione come inflessibile e tradizionalista difensore della fede, papa Ratzinger ha puntellato il suo pontificato di inattese riflessioni e inusitati colpi d’ala fino all'ultimo gesto di ritirarsi per amore della Chiesa.
27 Febbraio 2013 | di

Bisogna dire la verità. Quando venne eletto, Ratzinger non attirava molte simpatie. Veniva dalla Congregazione per la dottrina della fede, l’ex Sant’Uffizio. Era considerato il cane da guardia, il «pastore tedesco», della retta dottrina. Gli venivano imputate un’eccessiva severità, sia pure mitigata dalla cortesia personale, e una inflessibilità che lo rendevano incapace di interpretare le trasformazioni del mondo.

Una volta eletto papa, Joseph Ratzinger ha incominciato subito a dare un’altra immagine di sé. Lo ha fatto fin dalla prima apparizione, nel giorno dell’elezione, quando, alla loggia centrale della basilica vaticana, è apparso con le vesti da Pontefice sopra la tonaca nera da cardinale, profonde occhiaie, un sorriso da timido.
E anche le sue prime parole hanno stupito. Quando si è presentato come «un umile lavoratore nella vigna del Signore», non sembrava proprio il rigido panzerkardinal dipinto dai mass media di tutto il mondo.
 
La libertà è nella verità
Poi, lungo il pontificato, ha riservato altre sorprese. La prima e fondamentale è questa: anziché portare avanti, come qualcuno si aspettava, una logorante polemica contro la mentalità secolarizzata e la scomparsa dei valori cristiani, ha preferito volgere la questione in positivo e fare una proposta, quella di allargare lo spazio della ragione.

La sua tesi è stata al tempo stesso semplice e profonda. Prendendo in esame la storia dell’Occidente, e soprattutto dell’Europa, ha visto in una certa eredità illuministica una distorsione pericolosa per l’uomo. La distorsione sta nel considerare inesistente ogni tipo di verità assoluta, valida per tutti, e nell’adesione, spesso inconsapevole ma non per questo meno insidiosa, a un relativismo che riduce la persona umana allo stato di canna al vento, senza punti di riferimento interiori.

Non è vero, ha argomentato il Papa a più riprese, che possiamo considerare reale e rilevante per la nostra vita soltanto ciò che è sperimentabile attraverso il metodo scientifico e che ognuno è libero di costruirsi la propria verità, secondo i propri bisogni e le proprie inclinazioni. L’uomo, al contrario, non è veramente tale se non cerca una verità superiore, se non si fa indagatore instancabile dei valori fondamentali, di ciò che conta veramente. In una parola, l’uomo non è veramente tale se non si apre alla trascendenza e, quindi, anche all’ipotesi Dio.

Questa argomentazione è stata sviluppata in modo particolarmente suggestivo nel discorso al mondo della cultura, nel Collegio dei Bernardini di Parigi, durante la visita del settembre 2008, quando Benedetto XVI disse che la cultura europea nacque nel Medioevo, nei monasteri in cui si ricopiavano i testi classici, non perché quei monaci fossero in possesso di particolari tesi filosofiche o di chissà quali conoscenze scientifiche, ma perché erano uomini di preghiera. Erano cioè uomini che, ponendosi il problema della verità, volgevano lo sguardo a Dio.
 
Beato chi cerca
Ma un’altra sorpresa è venuta dal Papa quando, in più di un’occasione, ha espresso tutto il suo rispetto e tutta la sua stima per quelle culture non europee che, diversamente da quanto avviene nella nostra cultura secolarizzata, ancora si mantengono aperte alla trascendenza e alla ricerca di Dio.

Da questo punto di vista, l’intervento forse più significativo fu quello del settembre 2006, nell’omelia durante la messa a Monaco, quando il Papa parlò della nostra sordità nei confronti di Dio, una sordità che colpisce spesso anche i cattolici e la stessa Chiesa. Tanto è vero, disse, che i vescovi africani o asiatici, quando vengono in visita in Vaticano, trovano porte spalancate se presentano progetti sociali, ma quasi nessun interesse se parlano dell’esigenza di fare qualcosa perché Dio sia meglio conosciuto e più amato.
 
Il persecutore è tra noi
Come terza sorpresa vorrei segnalare l’atteggiamento assunto da Benedetto XVI durante la terribile crisi determinata dai casi di abusi sessuali commessi da preti in varie parti del mondo. In quei frangenti, specialmente nel corso del 2010, quando gli attacchi si fecero quotidiani, sarebbe stato facile per il capo della Chiesa cattolica accusare il mondo esterno di un’ostilità ingiusta e preconcetta. Sarebbe stato facile chiudersi a riccio e lanciare anatemi in risposta alle tante cattiverie riversate contro la Santa Sede e il suo principale inquilino. Invece il Papa che cosa fece? Parlò sì di persecuzione, ma mise in primo piano quella interna, non quella esterna.

Nel maggio del 2010, nel corso del viaggio in Portogallo, lo disse in modo chiaro, anche conversando con i giornalisti: la vera persecuzione non è quella che viene da fuori e che, in un certo senso, un cristiano si deve aspettare, perché Gesù lo disse fin dall’inizio e la sperimentò lui stesso nel modo più tremendo. La vera persecuzione, la più temibile e potenzialmente devastante, è quella che nasce all’interno della Chiesa da parte di quei battezzati e soprattutto di quei consacrati che non sono fedeli e che cadono nel peccato più turpe: lo sfruttamento del minore a fini sessuali, approfittando del proprio ruolo e del proprio abito.
 
La fede è ragione
La stessa lezione di Ratisbona, passata ormai alla storia come un passo falso di papa Benedetto a causa della dotta citazione, apparentemente anti-islamica, tratta dalle parole di un antico imperatore bizantino, fu in realtà il momento in cui Ratzinger enunciò in modo chiaro un altro insegnamento centrale nel suo pontificato: tra la fede e la razionalità non c’è opposizione. La vera fede, in realtà, è espressione della razionalità umana, di quella razionalità non amputata ma pienamente disponibile ad aprirsi alla trascendenza. Non è la fede religiosa in quanto tale a essere nemica della raziona­lità, ma la fede fanatica, la fede incoerente, la fede messa al servizio di un’ideologia. Tanto è vero che quando la fede è così stravolta sfocia sempre nella violenza, e la violenza è il massimo dell’irrazionalità.

La lezione di Ratisbona, se fosse stata ascoltata con attenzione, avrebbe offerto importantissimi spunti di riflessione, specie nel momento in cui l’Occidente cristiano è chiamato a confrontarsi con altre forme di religiosità. Invece un’operazione mediatica meschina fece sì che l’opinione pubblica mondiale si concentrasse su un inciso, astraen­dolo dal contesto e tralasciando tutto il resto. Da questo punto di vista, si può ben dire che Benedetto XVI è stato maltrattato come pochi altri. Basti ricordare, oltre all’episodio di Ratisbona, il suo mancato intervento all’Università la Sapienza di Roma, quando fu costretto a rinunciare alla visita a causa di un’indegna campagna denigratoria fomentata da pochi intolleranti.
 
Il soglio è di Dio
L’ultima, grande sorpresa questo Papa l’ha riservata con la decisione di farsi da parte, per lasciare spazio a un successore più forte ed energico. Chi l’avrebbe mai detto? Eppure qualche segnale Benedetto XVI lo aveva lanciato. Nel libro intervista Luce del mondo, conversando con Peter Seewald, aveva detto che il Papa, nel momento in cui sente di non possedere più le forze necessarie, ha non solo il diritto ma anche il dovere di lasciare il posto a qualcuno più attrezzato. L’umile lavoratore nella vigna del Signore è stato coerente con la sua visione del ministero petrino come servizio e, con la sua clamorosa decisione, ha ricordato a tutti che è il Papa al servizio della Chiesa, non la Chiesa al servizio del Papa.
Sì, possiamo ben dire che Benedetto XVI è stato il Papa delle sorprese, dall’inizio alla fine.
 

Un gesto simbolico
Il primato della fedeltà al Vangelo

 
L’11 febbraio Benedetto XVI ha lasciato la Chiesa a bocca aperta con un gesto che, pur perfettamente conforme al diritto ecclesiastico, costringe a una sana opera di riflessione e rivisitazione della tradizione. Specie quella che ha più a che fare con le convenzioni che la Chiesa, in quanto istituzione che deve vivere nel mondo – pur non essendo del mondo – si è data nel tempo. Non è certo il primo caso della storia: ne sono stati ricordati ben sei antecedenti. L’ultimo dei quali risale, però, a seicento anni fa. Come ogni gesto altamente simbolico, anche questo contiene tanti significati, che non possono essere esauriti dalle interpretazioni né ridotti a uno dei tanti livelli possibili (psicologico o fisico, sociologico o politico). E, come tale, non è immune dal fraintendimento. Ma sorprendentemente rispettosa e quasi ammirata è stata persino la reazione dei laici, che hanno colto soprattutto il segnale inequivocabile di non attaccamento al potere. Dato che nella Chiesa il potere è servizio, quando non si riesce più a servire come i tempi richiedono ha senso passare il testimone.

Con questo passaggio Benedetto XVI ha reso a tutti, credenti e non, l’ennesima grande testimonianza: quella di un uomo mite e consapevole, dotato di straordinaria intelligenza e altrettanto straordinaria umiltà; ma soprattutto di grandissima fede. Un Papa che ci ha insegnato l’amore per la verità e la verità dell’amore. Che ci mostra che tutto ciò che è convenzione umana può essere ripensato, ma che la fedeltà al Vangelo non conosce sconti.
Che la silenziosa preghiera che ci ha promesso possa continuare a illuminare il cammino della Chiesa e i nostri passi!
Chiara Giaccardi
 

Lezione di umiltà
La brezza di Betlemme soffia sulla Chiesa

 
Quando ho appreso la notizia delle inattese dimissioni del Santo Padre Benedetto XVI, ho provato il dolore intenso che si prova nel momento in cui si avverte che una persona cara sta uscendo improvvisamente dal nostro orizzonte: tutti abbiamo un cuore e il cuore si affeziona alle persone. È evidente ed è giusto. Però, subito dopo, mi è sembrato di sentire una brezza soave, che veniva da lontano e mi portava il profumo inconfondibile della paglia di Betlemme: il profumo dell’umiltà di Dio! Sì, ho sentito nitidamente le parole di Gesù: parole non invecchiate da duemila anni di storia, ma ancora vive nelle vene della Chiesa. Esse stupendamente ci dicono: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore!» (Mt 11,29).

Come mi è apparso bello e confortante scoprire che queste parole, fresche e giovani, uscivano dal gesto delle dimissioni di Benedetto XVI e davano a tutti una grande lezione. In un mondo popolato da persone arroccate sul potere, incapaci di allentare la morsa dallo scettro, avide di salire e salire sempre di più, come è evangelico e controcorrente il gesto di Colui che dice: «Perdonatemi! Non ho più la forza! Gesù chiami un altro al timone della Chiesa. Io mi ritiro, senza potere, nel silenzio e nella preghiera».

Il grande oratore francese Jacques-Benigne Bossuet, sul finire del XVII secolo, amaramente esclamava: «Vi meravigliate se sembra che Dio si sia nascosto? Vi meravigliate? Dio si trova a disagio in un mondo di orgogliosi, perché gli orgogliosi non possono capire il vocabolario dell’umiltà, che Dio ha stampato a Betlemme. Oggi, trovare una persona veramente umile è un fatto più unico che raro». Noi l’abbiamo trovata!

Noi possiamo dire che oggi una persona umile c’è: una persona veramente umile e coraggiosamente umile. È Benedetto XVI!
Grazie, Benedetto XVI! Hai dato un colpo all’orgoglio di tutti: il mondo è sorpreso, la Chiesa è edificata, tutti siamo chiamati a tenerne conto. E Dio dal Cielo sorride, perché un raggio della Sua luce è riuscito a sciogliere la fitta nebbia della superbia umana.
Angelo Comastri, Vicario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano


Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017