Il Papa dell’umiltà
Troppo tardi per la cronaca, e forse troppo presto per la storia. Ciò nonostante, anche per Albino Luciani il profilo biografico va delineandosi nello specchio di un tempo che è il suo, ma pure il nostro, grazie a nuovi libri, epistolari, testimonianze, convegni, inedite carte uscite dagli archivi, senza dimenticare la preziosa Opera omnia.
Ripercorrere la vita del figlio di Giovanni Luciani e Bortola Tancon, da Forno di Canale (oggi Canale d’Agordo, provincia di Belluno) fino al Vaticano, che guidò per trentatré giorni nell’estate del ’78, significa ripercorrere la parabola umana e spirituale di un prete veneto che ha servito la Chiesa e gli uomini, nel segno dell’obbedienza e dell’umiltà, della verità e della carità, sorretto da una fede granitica. E significa rileggere, con lui, snodi cruciali del Novecento: due guerre, la ricostruzione, il Vaticano II e il post Concilio, il confronto tra il cattolicesimo e le sfide della contemporaneità, i problemi legati al mondo del lavoro, della secolarizzazione, le leggi sul divorzio, l’aborto, il concordato, le stagioni della contestazione, del dissenso, e altro ancora.
Ma cominciamo dalla sua prima «finestra sul mondo». È il 17 ottobre 1912 quando Albino viene alla luce, in un ambiente segnato dall’emigrazione che non risparmia la sua famiglia. «A Canale – dirà – io sono stato fanciullo di famiglia povera. Ma quando, entrando in chiesa, sentivo l’organo (…), dimenticavo i miei poveri abiti, avevo l’impressione che l’organo salutasse particolarmente me». Di qui in seguito una certezza: «Che la Chiesa cattolica non è solo qualcosa di grande, ma che fa grandi anche i piccoli». Qui, a Canale d’Agordo, il futuro Papa ben presto fece da chierichetto al parroco Filippo Carli, che influenzò la sua vocazione. Qui apprese – dopo quelli materni – i primi rudimenti del catechismo di Pio X; ricevette la cresima (1919) e la prima comunione (1923); compose le prime preghiere («Signore tu che sai tutto e che puoi tutto, aiutami a vivere»). Da qui partì per il seminario («la mia casa, la mia famiglia») a Feltre (1923-1928), poi a Belluno (1928-1935). Anni sui banchi di scuola, e senza avere pieno sentore di ciò che accadeva fuori dalle mura del seminario per buona parte del Ventennio.
Ordinato sacerdote il 7 luglio 1935, a Belluno, con una dispensa per l’età troppo giovane, eccolo per sei mesi cappellano al paese natale, quindi ad Agordo fino al 1937, amministrando i sacramenti, predicando, insegnando, occupandosi dei ragazzi, dei minatori, dei malati. Poi, a interrompere «l’apostolato spicciolo» che – dirà – «mi piaceva tanto», la chiamata di monsignor Angelo Santin che lo rivolle a Belluno, al suo fianco, come vicerettore e insegnante in quel seminario così familiare. Ed ecco dieci anni vigilanti e pieni di impegni dedicati alla formazione dei futuri preti, fino al 1947, poi quasi altri undici a servizio della curia. Così don Albino, il sacerdote, il docente, il pubblicista, via via fu direttore dell’ufficio catechistico diocesano, procancelliere vescovile, segretario del sinodo diocesano (1947), provicario (dal 1948) e vicario generale (dal 1954) dei vescovi Girolamo Bortignon e del successore Gioacchino Muccin. Sullo sfondo la vita della Chiesa e dell’area bellunese, con l’occupazione nazista, la liberazione non senza il contributo di partigiani cristiani, la ricostruzione del dopoguerra, periodo nel quale il dinamismo di Luciani è ben documentato.
Dal Vaticano II al patriarcato
Preconizzato vescovo di Vittorio Veneto nel concistoro del 15 dicembre 1958, ricevette l’ordinazione per le mani di Giovanni XXIII. Humilitas il motto scelto per il suo stemma episcopale. «Io sono la pura e povera polvere; su questa polvere il Signore ha scritto la dignità episcopale dell’illustre diocesi di Vittorio Veneto», le parole con cui si presentò sulla cattedra di san Tiziano. A seguire, undici anni di azione pastorale, tra parrocchie e famiglie, scuole e ospedali, dove emergono quali leit motiv l’impegno nella catechesi e nella missionarietà (testimoniato anche da un viaggio in Burundi nel ’66), la sollecitudine nel contrastare la secolarizzazione (ma anche la politica aperturista della «Base» democristiana), l’ansia per le emergenze occupazionali. Il tutto vissuto esprimendo uno stile tenace, ben palesato dal modo in cui tenne testa a un crac finanziario che nel 1962 coinvolse la diocesi, assumendosi ogni responsabilità per l’operato di alcuni suoi sacerdoti, o nel modo in cui, tra il 1967 e il 1969, difese la sua autorità episcopale provocando il cosiddetto «scisma di Montaner», reclamando obbedienza da una parrocchia che pretendeva di scegliersi il nuovo parroco. Nel 1962, però, era iniziata anche per lui la «partita straordinaria», dove giocarono «oltre 2 mila vescovi» con «arbitro il Papa»: sua questa definizione del Concilio Vaticano II, che visse con entusiasmo, ma senza farsi notare, obbligato dal contatto con i vescovi e i teologi giunti da tutto il globo a percepire i limiti della sua formazione.
Una sorta di nuova scuola che lo porterà a dare la sua approvazione in Concilio sia alla libertà religiosa che alla dottrina della collegialità episcopale. Nel gennaio ’65, predicando un corso di esercizi spirituali e richiamando una convulsa giornata conciliare, affermò in proposito: «Qualche vescovo si è spaventato: ma allora, domani vengono i buddisti e fanno la loro propaganda? (…) Oppure: ci sono 4 mila musulmani a Roma: hanno diritto di costruirsi una moschea? Non c’è niente da dire: bisogna lasciarli fare». Anche questo diceva monsignor Albino dopo aver scoperto «i diritti della persona». Propenso a ipotizzare un’evoluzione della dottrina cattolica sulla contraccezione, accettò comunque senza discutere l’Humanae vitae di Paolo VI. Inoltre, pur nella prospettiva del «male minore», non ebbe paura – nel ’69 – di porsi quesiti come il seguente: «Tutelata una volta la famiglia legittima e fatto ad essa un posto d’onore, non sarà possibile riconoscere con tutte le cautele del caso qualche “effetto civile” alle “unioni di fatto”?». È anche questo il vescovo condotto nel 1970 da Paolo VI a Venezia sulla cattedra di san Marco.
Tornare a quegli anni vuol dire rivedere il patriarca Luciani tra Venezia, Roma e Oltralpe, o in Brasile. Nelle ripetute assemblee della Cei, della quale diventa vicepresidente (1972) e ai sinodi (1971, 1974). Tra le calli o accanto a papa Montini che gli mette la sua stola sulle spalle nella visita in laguna e l’anno dopo (1973) lo crea cardinale. E vuol dire rivedere un porporato che interviene energicamente innanzi alle distorte recezioni del Vaticano II, che fa la «pastorale dell’avvenimento» dal pulpito e sui giornali (come dimenticare qui la collaborazione con il «Messaggero di sant’Antonio»?), che non si stanca di ribadire l’inconciliabilità di marxismo e cristianesimo, di stigmatizzare la violenza predicata e praticata, pronto sempre a rischiare l’impopolarità e l’incomprensione – si ricordi lo scioglimento della Fuci nel ’74 – pur di non incrinare il senso di appartenenza ecclesiale. Si tratti di Lefebvre o di «dom» Franzoni, delle frizioni locali o in margine al Convegno Evangelizzazione e promozione umana (1976), oppure delle polemiche alla «Biennale del dissenso» (1977), durante la quale – anche grazie al patriarca – il futuro Nobel Iosif Brodskij lesse in pubblico, per la prima volta all’estero, le sue poesie.
I trentatré giorni da Papa
Certo, c’è chi preferisce enfatizzare, durante quell’anno, l’incontro a Fatima con suor Lucia dos Santos alla quale – senza prove – si attribuisce la duplice profezia del papato e della morte.
«Nessuno è venuto a dirmi: “Tu diventerai Papa”. Oh! Se me lo avessero detto! Se me lo avessero detto, avrei studiato di più, mi sarei preparato. Adesso invece sono vecchio…». Queste le sue parole il 17 settembre 1978, dopo che, uscito Papa da un conclave-lampo iniziato il 25 agosto (ventisei ore, quattro scrutini), indicò come programma la continuazione del lavoro dei predecessori e del Concilio. «Ieri mattina io sono andato alla Sistina a votare tranquillamente. Mai avrei immaginato quello che stava per succedere». Così disse il nuovo Papa all’Angelus del 27 agosto, mostrando da subito al mondo la sua umiltà, parlando in prima persona e presto accantonando ogni testo predisposto.
Nacquero frasi fonti di polemiche sul piano teologico o politico: «Dio (…) è papà; più ancora è madre»; oppure: «È, invece, errato affermare che la liberazione politica, economica e sociale coincide con la salvezza in Gesù Cristo, (...) che Ubi Lenin ibi Ierusalem». Nacquero gesti di pace (per il Libano, l’Argentina, il Cile…), di ecumenismo (con l’udienza al metropolita Nikodim, mortogli tra le braccia). Nacquero lezioni di umanità, con Giovanni Paolo I che dialogava in pubblico con i bambini, come sempre aveva fatto.
Poi l’epilogo, nella solitudine di una notte, il 28 settembre 1978. Una fine naturale, avvolta in un inesistente mistero. Dirà il suo successore: «La morte lo ha colto così, come sugli spalti di un vero e proprio servizio insonne; così egli è vissuto, così è morto». Nel segno dell’umiltà. Detto con Benedetto XVI: «Il suo testamento spirituale».