Il Papa e il frate martire
Il giorno dopo l’elezione del primo Papa non europeo, gesuita e latinoamericano, quando già in piazza San Pietro, e nella piazza mediatica del mondo, i cattolici avevano iniziato a sostituire lo stupore con la gioia di ritrovarsi un Papa vicino, che sa parlare al cuore, alcuni giornali spegnevano gli entusiasmi: su Francesco ci sono ombre, è stato tiepido con la dittatura militare di Videla. Forse, scriveva qualcuno, «Non è Francesco».
A noi è bastato sfogliare i vecchi numeri del «Mensajero de S. Antonio», il Messaggero di sant’Antonio in lingua spagnola, per mettere in dubbio la tesi. La storia di papa Francesco s’incontra, in un punto preciso, con la vicenda di un frate della Provincia patavina dei frati minori conventuali, un frate della Basilica insomma. Si tratta di fra Carlos de Dios Murias, torturato e ucciso dai militari a Chamical, nella provincia di La Rioja in Argentina, il 18 luglio 1976. Quel punto preciso nella storia è il 31 maggio 2011, quando Bergoglio, allora arcivescovo di Buenos Aires, diede il beneplacito – come presidente della Conferenza episcopale argentina – all’apertura della causa di investigazione diocesana, proposta dal vescovo di La Rioja, Roberto Rodriguez, sul presunto martirio di fra Carlos di un sacerdote francese fidei donum, Gabriel Longueville, morto con lui, e di un laico, Wenceslao Pedernera: tutti uccisi a pochi giorni di distanza in quel maledetto inverno (australe) del 1976.
Ma perché, si dirà, un atto normale come firmare l’inizio di un processo di beatificazione è così significativo se si tratta di Bergoglio? Per capirlo bisogna ritornare all’Argentina degli anni ’70 e alla storia di Carlos de Dios, il nostro frate martire.
Sentinelle del Vaticano II
È il «Mensajero» di luglio-agosto 1986 a descrivere la situazione sociale di quel tempo, in un articolo dedicato a Enrique Angelelli, il vescovo di La Rioja, amico e maestro di Carlos de Dios – tra l’altro lo aveva ordinato sacerdote –, che morì in uno strano incidente qualche settimana dopo il suo diletto discepolo, il 4 agosto del ’76, di ritorno da una celebrazione proprio in memoria di Carlos. «Dal 1973 al 1976 – scrive il “Mensajero” –, la situazione politica in Argentina degrada progressivamente. La crisi mondiale debilita le già fragili basi del Paese. Le autorità censurano ogni tipo di critica al sistema, specialmente quelle che provengono dalla Chiesa, ormai compromessa nel processo di liberazione integrale dell’uomo. Nella diocesi di La Rioja, per esempio, le autorità impediscono la trasmissione per radio delle messe del vescovo». Stare dalla parte degli ultimi, allora equivaleva a una condanna a morte. Solo che proprio in quegli anni la Chiesa latinoamericana stava vivendo la stagione più controversa e più feconda della sua storia. Le novità del Concilio Vaticano II (1962-’65) arrivarono sulle sponde opposte dell’Atlantico con una forza dirompente. La conferenza episcopale latinoamericana, riunitasi a Medellin, in Colombia, dal 26 agosto al 7 settembre 1968, calò i documenti conciliari nella drammatica realtà latinoamericana, maturando l’opzione per i poveri, la necessità per la Chiesa di compromettersi nel loro processo di riscatto. Carlos de Dios era uno di questi giovani preti innamorati della causa degli ultimi. Era nato a Cordoba il 10 ottobre del 1945, dove aveva anche conosciuto Enrique Angelelli. Era entrato nell’ordine dei frati minori conventuali nel 1966. Così lo racconta il «Mensajero» dell’agosto del 2006: «L’effervescenza ecclesiale del tempo e la crescita di attenzione ai poveri, consolidò in fra Carlos de Dios la sua vocazione francescana». Quel che lui sognava per sé, però, non era la vita di un convento o di una parrocchia, ma una fraternità inserita tra i poveri «per creare il valore e la semplicità del carisma francescano delle origini». I superiori in genere concedevano queste esperienze solo per gli anni della formazione, ma dinanzi alle insistenze di Carlos fecero qualche eccezione, seppur occasionale. Fu in una di queste esperienze che Carlos conobbe Arturo Paoli, un piccolo fratello di de Foucauld, di origini italiane, che incarnava il suo ideale di vita con i poveri. Paoli e il vescovo Angelelli divennero i suoi modelli.
Testimone fino alla morte
Per Carlos fu una grande gioia quando i superiori lo mandarono a Chamical, nella provincia di La Rioja, dove era vescovo monsignor Angelelli, che da tempo invocava l’impegno dei francescani per le popolazioni dei llanos, le più povere d’Argentina. Ma la chiesa di La Rioja in quegli anni era sopra una polveriera. Le autorità militari mal sopportavano la pastorale del vescovo, con il suo appoggio all’organizzazione di cooperative di contadini e la sua insistenza sui diritti umani. Quando, in occasione del rapimento di due frati cappuccini, le autorità militari chiamarono Carlos de Dios e Gabriel per imporre loro una tesi accomodante che avrebbero dovuto propinare ai fedeli, Carlos decise che era il momento di difendere la verità. All’omelia della messa successiva, ben cosciente che un infiltrato lo stava registrando, disse: «Possono zittire la voce del vescovo o quella di padre Carlos, però mai potranno zittire la Parola di Dio». E aggiunse: «Meglio morire giovani, avendo fatto qualcosa per il Vangelo, che morire vecchi senza aver fatto niente».
I militari lo prelevarono insieme a padre Gabriel il 18 luglio 1976, non a caso il giorno del compleanno del vescovo Angelelli. Erano a cena a casa delle suore.
Carlos fece solo in tempo a dire a una di loro: «Pregate intensamente». Ritrovarono i loro corpi sfigurati dai colpi e mutilati, due giorni dopo, accanto ai binari del treno, alla periferia di Chamical.
L’articolo del «Mensajero» del 2001, ricordando tutti i frati e i sacerdoti morti in America Latina, lancia una provocazione già chiara dal titolo: Abbiamo paura dei nostri martiri? e spiega nel testo: «Quasi sempre questi martiri furono assassinati da persone che si facevano chiamare “cristiani”» e da questo deriverebbero la reticenza di parte della Chiesa e la tentazione dell’oblio.
Un passato non elaborato che ancora turba l’America Latina e la Chiesa tutta. Alla luce dei fatti, è proprio la sorella di fra Carlos de Dios, Martas Murias, a spiegare all’«Avvenire» del 21 marzo del 2013 perché quella firma dell’allora cardinale Bergoglio è così importante: «Per me è una soddisfazione immensa. Significa che l’attuale Papa riconosce il lavoro pastorale di mio fratello, nonostante tanti abbiano cercato di infangarne la memoria… Il cardinale ha incarnato in maniera totale quell’opzione dei poveri per cui è vissuto e morto Carlino» e aggiunge di essere assolutamente certa che Bergoglio non ha alcun legame con la dittatura. La notizia di quella firma ha portato i media a ipotizzare che il primo santo del nuovo Papa sarà proprio il francescano della Basilica. «Anche se non c’è alcun motivo per ritenere che questa sia la volontà del Papa – chiarisce fra Carlos Trovarelli, ministro provinciale dei frati conventuali in Argentina –, la sua firma ci ha permesso d’iniziare il nostro lavoro. Speriamo che esso venga coronato un giorno dalla dichiarazione ufficiale del martirio».