Il piatto piange
Nel mondo un miliardo e mezzo di persone è in sovrappeso. E più di mezzo miliardo sono gli obesi. Almeno un miliardo di individui ha a che fare con medicine e diete a causa del proprio peso e delle sue conseguenze sulla salute. Per converso, la Fao, l’organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura, stima che siano quasi un miliardo le persone che soffrono la fame. Ma sarebbero addirittura 1,6 miliardi secondo la Ong ActionAid. Alla fine della giornata odierna, 30 mila persone saranno morte per fame; e almeno trecento quando avrete finito di leggere l’articolo. Se questi numeri vi fanno rabbrividire, sappiate che la tendenza può essere invertita. Solo l’indifferenza, infatti, miete più vittime della fame. Anzi, uccide due volte chi ha poco o nulla da mangiare, perché annienta anche la speranza. Purtroppo gli ultimi studi sul fenomeno sono allarmanti. Come riferisce Stefano Piziali in «Aggiornamenti sociali» (www.aggiornamentisociali.it), Repubblica Democratica del Congo, Burundi, Eritrea e Ciad denunciano una situazione gravissima secondo l’Indice globale della fame 2011, il GHI, Global Hunger Index (un indicatore statistico elaborato da una rete di Ong in collaborazione con l’International Food Policy Research Institute di Washington).
E dopo la crisi alimentare mondiale del 2006-2008, quella che ora gli esperti e gli analisti paventano, è una nuova emergenza. L’ultimo campanello d’allarme è suonato nel Sahel: una vasta regione prevalentemente desertica che si estende dall’Oceano Atlantico al Corno d’Africa, e che abbraccia Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger, Senegal. I cattivi raccolti hanno prodotto un’altra grave crisi alimentare che si tradurrà, nei prossimi mesi, nell’ennesima emergenza umanitaria. Dodici milioni di persone sono a rischio.
Tra questi, un milione di bambini sotto i due anni d’età, oltre a 500 mila donne incinte o in allattamento. Accanto ad altri già consistenti interventi, la Commissione europea ha stanziato 30 milioni di euro, che il Pam, il Programma alimentare mondiale, userà per scongiurare un’ecatombe. L’impegno del vecchio continente è stato massiccio. Solo nel 2011, l’Unione europea ha versato al Pam oltre un miliardo di euro in aiuti umanitari, 175 milioni dei quali sono arrivati dalla Commissione. Purtroppo la siccità, la frequenza delle carestie, la perdita del bestiame e, di conseguenza, i risparmi erosi alle famiglie, non consentono alle popolazioni locali di affrancarsi da una condizione critica, divenuta ormai permanente. Un altro elemento che peggiora la situazione è il crescente sfruttamento intensivo di aree sempre più vaste del pianeta per ricavarne biocarburanti, un fenomeno noto come land grabbing.
«La zona più colpita è l’Africa subsahariana – racconta Stefano Liberti, giornalista e autore del libro Land Grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo (Minimum Fax, pagg. 244, euro 15,00) –. Le acquisizioni e i passaggi di terreni dal pubblico al privato avvengono in America Latina come nel Sud-Est asiatico. Ma in Africa, questo accade con un approccio predatorio. I canoni d’affitto delle terre sono molto bassi. Governi centrali e investitori stranieri negoziano accordi senza il coinvolgimento reale delle comunità che vivono “in” e “di” quelle terre e che, spesso, vengono fatte allontanare.
E, poi, ci sono Paesi in cui esiste il problema della sovranità alimentare, che cedono cioè le loro terre a investitori stranieri i quali le utilizzano per produrre alimenti o biocarburanti destinati all’esportazione».
La lezione del 2006
Tra il 2006 e il 2008 il mercato internazionale ha visto un’impennata dei prezzi di mais, grano e riso. Di conseguenza, sono saliti anche i prezzi interni in molte regioni di Africa e Asia, soprattutto quelle più povere e, tradizionalmente, importatrici. I produttori di cereali hanno visto sì aumentare le loro entrate, ma gran parte di queste sono state assorbite dalle maggiori spese per fertilizzanti, carburanti, ecc. I Paesi più solidi si sono difesi immettendo nel mercato interno le scorte alimentari di cui disponevano o attivando una rete di interventi pubblici a tutela delle fasce più deboli della popolazione, come nel caso di Brasile e Cina. Alcune nazioni, come il Malawi, per mancanza di risorse necessarie a sostenere l’export del mais, non sono riuscite a contenere l’aumento dei prezzi interni. Le politiche isolazionistiche di altre, invece, hanno concorso a mantenere elevati i prezzi dei cereali.
La tendenza di alcuni Stati ad accaparrarsi scorte di cereali, ha accelerato la volatilità dei prezzi. Stati e governi comprano, infatti, le commodities, ovvero i beni primari, sui mercati internazionali le cui attività passano attraverso le piazze finanziarie più importanti, come la Chicago Board of Trade o quella di Ginevra, e tra i milioni di rivoli della rete internet dove si sono ormai massicciamente riversate le operazioni di trading. Molti Paesi sono finiti così alla mercé di affaristi e speculatori senza scrupoli che hanno visto, in questa crisi, inattese opportunità di concludere affari. «I nuovi protagonisti non sono più i grandi gruppi dell’agrobusiness o i latifondisti – osserva Liberti – ma soggetti appartenenti all’alta finanza, che trattano fondi speculativi, mutuabili e pensionistici». Dopo la crisi dei mutui subprime, deflagrata nel 2007 negli Stati Uniti, un’enorme quantità di capitali speculativi e finanziari si è riversata nel settore agricolo. Con due tipi d’investimento. «Il primo – precisa Liberti – effettuato dai fondi sovrani di alcuni Stati che, pur avendo problemi di approvvigionamento alimentare per ragioni geo-morfologiche, sono comunque dotati di una notevole liquidità. È il caso di Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Perciò quello di cui hanno bisogno lo producono, per esempio, in Etiopia e in Mozambico». Come se quelle terre fossero una sorta di loro estensione territoriale. «Il secondo tipo d’investimento, quello più consistente – puntualizza Liberti – è gestito da società di intermediazione, in genere guidate da persone provenienti dal mondo della finanza». Come? Attraverso i futures, cioè contratti con i quali i venditori si accordano con i compratori sui prezzi ai quali i beni primari saranno venduti a una certa data. Contadini e industria agroalimentare hanno infatti interesse a fissare in anticipo questi costi, in modo da ridurre i rischi per entrambi.
Finché su questi contratti, che rientrano nella categoria dei famigerati «derivati», non ci mettono lo zampino gli speculatori finanziari i quali, come osserva L’indice globale della fame 2011, «lucrano la differenza fra i prezzi a cui concludono una serie potenzialmente infinita di contratti di questo genere. Con l’aumento di tali contratti, le tensioni sui prezzi dei derivati finiscono per ripercuotersi su quelli dei prodotti agricoli che sono invece alla loro base». E, infatti, la corsa dei listini non si è fermata. A luglio 2008, in vari Paesi, i prezzi interni di mais, grano e riso sono risultati per il 40 per cento più alti di quelli registrati nel gennaio del 2007. Parecchi studi hanno rilevato l’influenza prodotta dai prezzi dei mercati internazionali su quelli interni, con calo del reddito reale pro-capite, e una maggiore volatilità e instabilità dei prezzi durante la crisi.
Dopo il 2008 ci si aspettava una discesa dei prezzi e una stabilizzazione dei mercati. E, invece, è arrivata la seconda batosta: l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, schizzati alle stelle in seguito alle massicce perdite di raccolto registrate nel 2010, provocate da devastanti eventi atmosferici con i quali, purtroppo, dovremmo sempre più spesso fare i conti a causa dei mutamenti climatici.
Un problema nel problema, nient’affatto risolvibile, almeno nei tempi strettissimi che un’emergenza alimentare comporta; e che non tutti i Paesi sono in grado di affrontare.
Tra la fine del 2010 e la prima metà del 2011, i prezzi mondiali di frumento e mais sono raddoppiati in seguito ai danni riportati dalle colture nella Federazione russa e al livello critico di raccolto raggiunto negli Stati Uniti, compromesso anche dall’indebolimento del dollaro. Con l’aggravante che la Federazione russa ha vietato le esportazioni per non penalizzare il fabbisogno interno. Così le fluttuazioni internazionali dei prezzi si sono riflesse su quelli domestici, mettendo ulteriormente in ginocchio i Paesi afflitti da condizioni socio-economiche precarie.
L’appetito dei biocarburanti
«In prospettiva, i prezzi mondiali di riso, grano, mais e di semi oleosi, tra il 2015-’16 e il 2019-’20 si prevedono più elevati, rispettivamente, del 40, 27, 48 e 36 per cento», recitano le crude conclusioni degli analisti. La crescita economica e demografica, e la richiesta di carburanti ricavati dai cereali, sono destinate a far lievitare la domanda stessa di cereali. Tanto che gli effetti della richiesta di biocarburanti vanno ormai sempre più a braccetto con i prezzi dei prodotti petroliferi. Il che ha sancito la devastante condizione di interdipendenza economica e commerciale tra cibo ed energia. Se il prezzo del petrolio aumenta, cresce infatti anche la domanda di biocarburanti; e i prezzi dei prodotti alimentari s’impennano. Mentre se il prezzo del petrolio cala, avviene il processo opposto. Il costo dei carburanti incide, a sua volta, su quelli della produzione agricola, contribuendo all’incremento dei prezzi. Mentre la domanda crescente di biocarburanti, soprattutto da parte di Brasile e Stati Uniti – e, in prospettiva, dell’Europa –, sottrae cereali all’alimentazione umana e, anzi, ne fa aumentare la domanda. Alla fine non c’è alcun vantaggio né per i produttori di cereali né per i loro consumatori che costituiscono la quasi totalità della popolazione dei Paesi più poveri. Per questo, l’economia di molti Paesi non riesce mai a decollare. Con l’aggravante che non tutti i biocarburanti hanno la stessa resa. «L’etanolo estratto dal mais o dalla canna da zucchero, il biodiesel estratto dalla soia o dalla palma hanno un impatto diretto sulle superfici coltivabili – fa notare Liberti –. Se un terreno è coltivato a mais per ottenere etanolo, non sarà coltivato a mais né a grano per consumo umano o animale. Poi bisogna distinguere i biocarburanti che hanno un buon bilancio energetico, come l’etanolo estratto dalla canna da zucchero, da quelli che hanno un pessimo bilancio energetico, come l’etanolo estratto dal mais per il quale si consuma un’unità di energia per produrne due, mentre per l’etanolo ricavato dalla canna da zucchero, il rapporto è di uno a otto».
Una situazione che non può prescindere nemmeno dalle limitate risorse naturali disponibili – la nostra specie ha superato ormai i sette miliardi di individui – e dai cambiamenti climatici. Il felice connubio della fertilità, cioè di acqua e terra, necessari anelli di ogni ecosistema, non è più disponibile, come in passato, in ampie aree del pianeta. A parte, potenzialmente, alcune aree coltivabili in Africa, Asia centrale, America Latina e Ucraina, seppur vincolate a necessari investimenti.
L’ottimismo viene, per ora, solo dalla ricerca scientifica e tecnologica che, in prospettiva, potrà migliorare la produttività delle colture, e ridurre tutti quei fattori biologici e ambientali ancora in grado di comprometterle. Il che significa che anche quello che arriva sul nostro piatto necessita di ulteriori corposi investimenti per migliorare i fondi rurali, l’istruzione e l’aggiornamento degli agricoltori, il sostegno alle economie virtuose, le politiche statali gestite da persone competenti e preparate.
Tutti fattori decisivi e strategici per ogni sistema-Paese, in un’economia oggi molto più globalizzata che in passato. Fattori ormai sotto controllo nei Paesi più avanzati, ma che restano ancora un miraggio in molti altri. I quali, a loro volta, non hanno mezzi né risorse per liberarsi da una condizione di precaria sopravvivenza: a ogni crisi, ancorché modesta – ma condizionata dalla perversa dinamica delle fluttuazioni causate dagli investitori e dagli speculatori internazionali –, tendono invariabilmente a ricadere nel baratro, diventando vittime del neocolonialismo dei land grabbers, i nuovi predatori della terra.
Insomma, dopo che molti hanno perso i risparmi di una vita, bruciati dalla crisi delle Borse, ora molto di quello che è rimasto viene investito da banche e traders internazionali nel nuovo bengodi: i prodotti agricoli. Attenzione, perciò, quando vi propongono rendimenti più sicuri: state certi che molte operazioni avvenute in tempi recenti, a spese (o a vantaggio) dei nostri conti correnti, sono concentrate sui beni primari, soprattutto su ciò che dovrebbe essere appannaggio di chi, invece, non avrà più nulla o quasi da mangiare. È il caso di non abbassare la guardia davanti a chi ha fatto pubblica ammenda degli errori del passato, ma sta già ipotecando il nostro futuro.
Il programma «Fome Zero» (Fame Zero) del precedente governo Lula, ha consentito, nell’ultimo decennio, di ridurre sensibilmente la povertà e l’insicurezza alimentare in Brasile. Responsabile di questo successo è stato José Graziano da Silva, da quest’anno direttore generale della Fao. «Il nostro obiettivo è quello di creare dei team che mettano insieme le competenze della Fao nelle politiche di consulenza, la pianificazione degli investimenti, la mobilitazione delle risorse, gli interventi di emergenza e lo sviluppo sostenibile – ribadisce da Silva –. Sradicare la fame non deve essere un’azione separata da quella di rispondere alle sfide globali come il rilancio delle economie nazionali, la difesa delle risorse naturali dal degrado e dallo sfruttamento». Eppure «queste organizzazioni internazionali dimostrano un certo scollamento con le realtà locali – osserva il giornalista Stefano Liberti che le ha viste da vicino, laddove la fame miete migliaia di vittime –. Purtroppo c’è ancora molta burocrazia e una certa lontananza dai problemi
della gente».
Un destino che si consuma sul web
Il business della fame
The State of Food Insecurity in the World, l’ultimo rapporto congiunto di Fao, Pam e Ifad (Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo) snocciola i termini e le prospettive della situazione, soprattutto nelle aree più a rischio, a causa della volatilità dei prezzi che incide sul destino di regioni e Stati con ricadute sistemiche a livello internazionale.La povertà degli ultimi può essere determinata dalle medesime condizioni che limitano la nostra capacità di spesa, e la qualità di ciò che mangiamo in Occidente. Il business del cibo, nel mercato globalizzato, può infatti determinare la morte di migliaia di persone per fame, e a causa di quelle stesse ragioni strutturali, ovvero i meccanismi del libero mercato, che consentono di produrre e immagazzinare le provvidenziali scorte alimentari utilizzate per sfamare le popolazioni vittime di carestie.
Ma c’è chi ha percorso una strada diversa. La fondazione Slow Food, con la rete di comunità di Terra Madre, ha lanciato l’iniziativa «Mille orti in Africa», volta a creare altrettanti orti nelle scuole, nei villaggi e nelle periferie delle città di venticinque Paesi africani. Finora, con i fondi raccolti si è arrivati quasi a 600 orti (http://fondazioneslowfood.com/pagine/ita/orti/cerca.lasso?-id_pg=30): modelli di agricoltura sostenibile, attenti alle diverse realtà ambientali, socio-economiche e culturali. «Della rete di Terra Madre fanno parte quasi 8 mila comunità diffuse nelle campagne di 173 Paesi del mondo – ricorda Carlo Petrini, fondatore di Slow Food –. Sono piccole realtà che risentono sì della situazione globale, ma adottano un’agricoltura di piccola scala, collegata al territorio, impegnata nella difesa dei saperi tradizionali, che si coniuga con l’apertura alle nuove tecnologie, facendo dialogare scienza e tradizione.
E questa è una speranza per i giovani». Un incentivo a considerare la terra non un luogo da cui affrancarsi nel tentativo di ottenere un riscatto sociale, ma come un asset su cui investire. Perciò la formazione è un cardine dello sviluppo. Ma se la terra non è disponibile? Se siccità, eventi meteorologici catastrofici come piogge torrenziali e inondazioni compromettono le risorse di uomini e animali, spezzando così la catena alimentare? Quando in Africa muore una mucca, si azzera anche la fonte primaria e basilare di calorie – fornite da carne e latte – a cui una famiglia di adulti e bambini può attingere per sopravvivere.