Il primato della qualità

Dalle news alla netcrazia. Nuovi scenari nel supermarket della comunicazione. Dopo l’11 settembre la guerra si combatte anche via satellite.
03 Febbraio 2002 | di

 Il professor Carlo Sartori "; giornalista professionista, docente di Storia delle comunicazioni di massa all";Università  La Sapienza di Roma, segretario generale del Prix Italia della Rai "; è il nuovo direttore della Radio Televisione dell";Onu. La nomina è venuta dopo una severissima selezione tra 250 top manager a livello mondiale. Laureato in Giurisprudenza, Sartori si è specializzato in Comunicazione alla californiana Stanford University ed è stato visiting professor alla Columbia University di New York. Apprezzato saggista, è stato ideatore e direttore di Rai Sat (i canali tematici della Rai), e autore di numerosi programmi televisivi.

Msa. Come opera la Radio Televisione dell";Onu?

Sartori. Attualmente la United Nations Radio and Television, nata nel 1949, produce una serie di reportage e documentari dalle principali zone calde del pianeta, oltre ad una serie di programmi e rubriche sulle maggiori iniziative dell";Onu e sui principali problemi politici, economici, ambientali e sociali del mondo contemporaneo.

Qual è la sua strategia?

La radio è una realtà  già  avanzata. Il discorso si concentra maggiormente su un ulteriore sviluppo della televisione. Al momento esistono programmi a distribuzione molto limitata. Perciò la mia strategia sarà  duplice: da un lato una maggiore focalizzazione su notizie relative al lavoro dell";Onu: conflitti mondiali, situazioni di emergenza, e una serie di approfondimenti importanti. Dall";altro una distribuzione mondiale sulle piattaforme satellitari. Con quello che produce direttamente l";Onu e le sue agenzie: Unesco, Fao, Undp, ecc., c";è materiale sufficiente per fare un canale vero, che a sua volta può essere distribuito a tutte le piattaforme satellitari mondiali.

C";è il rischio che la globalizzazione dei mass media comporti una sempre minore democrazia dell";informazione e dell";intrattenimento?

Sì, perché i movimenti di fusione nel mondo della comunicazione, hanno impoverito il pluralismo informativo. D";altro canto persistono e si rafforzano forti elementi di localizzazione della comunicazione. Credo che andremo verso un tipo di utente che da un lato si sentirà  cittadino del mondo e, dall";altro, cittadino del proprio Paese, della propria regione.

Oltre l";80% dei programmi importati dai principali Paesi «consumatori» di produzioni televisive, in Europa, in Sud America e in Oceania sono realizzati negli Stati Uniti. C";è il rischio di un";omologazione delle culture locali?

La parte più devastante di questa «colonizzazione culturale» si è già  avuta dagli anni Settanta all";inizio degli anni Novanta, e non solo in Europa. Nei Paesi che hanno saputo reagire con una loro industria audiovisiva accettabile, i prodotti americani occupano ora spazi sempre più marginali nei palinsesti televisivi, come avviene, ad esempio, nel nostro continente. Adesso bisogna fare in modo che questa nuova proliferazione di canali digitali non porti a ulteriori colonizzazioni culturali perché tali fenomeni si sviluppano quando si dilatano i canali distributivi senza ampliare, parallelamente, le capacità  dell";industria che deve produrre i contenuti; com";è già  avvenuto, per esempio, nella stessa Europa, all";inizio degli anni Ottanta.

Mc Luhan diceva che il mezzo è il messaggio. A dar retta a questa equazione, e pensando alla qualità  dei contenuti dei mass media, c";è di che preoccuparsi.

Il fenomeno è complesso. C";è un «pensiero forte» che vorrebbe la televisione dedita alla cultura, alla musica, all";arte, al teatro, al bel canto, ecc., e un «pensiero debole» che tratta la televisione come un barile di petrolio, ritenendo che tutto si risolva affidandosi al mercato, alle privatizzazioni, alla concorrenza. Sono entrambi sbagliati. Uno studioso americano, George Gerbner, ha coniato per la televisione la teoria del mainstreaming, cioè della «corrente principale»: la televisione appiattisce certe punte alte della cultura e innalza certe punte basse, creando una corrente di mezzo in cui c";è un livellamento. Questo fenomeno non è completamente negativo: se oggi esiste un";opinione pubblica mondiale piuttosto diffusa, per esempio sui diritti umani, lo si deve in gran parte alla televisione. Prima la cultura dei diritti umani esisteva solo in una cerchia ristretta.

Però la soglia della qualità  complessiva dell";offerta Tv in molti Paesi occidentali che propongono gli stessi format, si è pericolosamente abbassata.

Dagli anni Ottanta in poi si è affermato in tutto il mondo un modello di televisione che vende i telespettatori agli inserzionisti pubblicitari, con la conseguente esasperazione della guerra degli ascolti. In cambio dà  ai telespettatori l";impressione di renderli protagonisti delle sue scelte (sopravvivono solo i programmi più seguiti) e delle sue storie (i programmi si riempiono sempre più di «gente come noi»). Certo non si può buttare via tutta la televisione: anche quella becera ha diritto di esistere. Purché non si consideri la televisione alla stregua di un detersivo o di un";automobile. La televisione, per esempio, a differenza dei giornali, entra nelle nostre case, influenza i nostri comportamenti, gli acquisti, il tempo libero, le idee, ecc. Per questo amo ripetere che la televisione è importante come la scuola, come l";amministrazione della giustizia, come la cura della sanità . Se lasciamo tutto in mano al mercato, la concorrenza monopolista abbassa ulteriormente la qualità , la rincorsa all";audience vive solo di esasperazioni, i colossi multinazionali fagocitano ogni realtà  locale che non sappia seguire le loro regole, e le fasce socio-culturali più deboli rischiano di restare escluse dai vantaggi più significativi apportati dalle nuove tecnologie.

Guerra e mass media. Fino a che punto giornali, radio e tv sono veramente imparziali, e quando, invece, diventano, loro malgrado, vetrine o portavoce di altri?

I mass media hanno sempre avuto un atteggiamento per il quale, di fronte alla discesa in campo dei propri Paesi, sono stati richiamati da un senso quasi patriottico del loro operare. Quando è arrivata la televisione, si pensava che le immagini sarebbero state neutrali. In realtà  non lo sono perché una costruzione politico-editoriale può far diventare le immagini degli strumenti di parte. L";industria televisiva è molto «funzionalistica»: nel momento in cui alcuni generi di spettacolo perdono popolarità  perché c";è una guerra in corso, la guerra stessa diventa una fonte di appropriazione industriale. Ora abbiamo una situazione non rosea nel mondo. Se una volta si poteva dire che c";era un occhio tendenzialmente occidentale nella visione dei problemi globali del mondo, oggi ci sono occhi anche contrapposti, altrettanto potenti, e quindi è sempre di più una lotta tra «bande armate» della comunicazione. A questo punto vedo l";Onu. Vedo la possibilità  di creare, all";interno del più grande organismo politico mondiale in cui sono rappresentati tutti, uno specchio il più possibile obiettivo, privo di pregiudizi e al servizio di tutti.

Sono 137 i giornalisti, i reporter e i telecineoperatori di tutto il mondo, morti negli ultimi cinque anni su diversi fronti di guerra. Lei è anche giornalista. Esiste un limite deontologico oltre il quale non è lecito che il giornalista si spinga?

Qui siamo tra l";incudine e il martello. Nel senso che abbiamo sempre celebrato "; secondo me a ragione "; il grande giornalismo anglosassone, scoutistico, di ricerca, di approfondimento sul campo, rispetto ad un tipo di giornalismo latino, più da scrivania, da collazione di fonti diverse. È chiaro che la mediazione del giornalista viene meglio a ridosso, o dentro addirittura, ai contesti ai quali si riferisce. Ma oggi, nella situazione esasperata della comunicazione mondiale, il giornalismo d";investigazione rischia di diventare ricerca ossessiva dello scoop. È la struttura industriale di questo sistema che rischia di trasformare il ruolo del giornalista, che allora ha il diritto-dovere di fermarsi di fronte a certe barriere che lo espongono troppo a rischi voluti solo dalla ricerca ossessiva dello scoop. Oggi abbiamo bisogno di una televisione in cui si riesca ancora a distinguere la verità  dalla menzogna, i bravi giornalisti dai pirati dell";informazione, i racconti di qualità  dalle storie spazzatura.

Cosa vede nel futuro della comunicazione? Quali settori saranno trainanti? E quali saranno condannati?

La storia della comunicazione c";insegna che non ci sono media-killer. Era stata decretata la morte della radio rispetto alla televisione, del cinema rispetto alla televisione, del libro rispetto a tutti gli altri. Ma ogni mezzo ha trovato la propria ragion d";essere: la radio è diventata così interstiziale che raggiunge nicchie diverse. Il cinema ha reagito alla devastazione televisiva attraverso i kolossal "; difficilmente apprezzabili attraverso il piccolo schermo "; o i film d";autore che la cultura di massa della televisione rifiutava. Ora si è decretata la morte della televisione generalista ad opera di quella interattiva. Io invece credo che rimarrà  viva e vegeta a lungo anche se non farà  più il 90% degli ascolti. Poi c";è internet alla cui crescita incredibile abbiamo assistito negli ultimi sei anni. E con internet tutto ciò che ha segnato la convergenza con gli altri media.

Dalla «telecrazia» alla «netcrazia». L";integrazione dei mass media: tv interattiva, internet, ecc. renderanno libero e attivo l";utente o lo ingloberanno ancora di più nelle logiche del mercato, condizionandone scelte e orientamenti?

Non è che la convergenza dei mass media renda l";utente di per sé libero o schiavo. Dietro c";è una serie di meccanismi di tipo tecnologico, economico e socio-culturale. Io non credo all";interattività  che libera la fantasia dell";utente. Nella fruizione stessa dei mass media, esiste una componente di passività  che è propria del comportamento umano. Per cui ci sarà  un uso interattivo di alcuni supporti tradizionali, come ad esempio il video on demand, alcune forme di interattività  più pronunciate, specialmente tra i giovani culturalmente avanzati, e un permanere della fruizione passiva dei mass media. Saranno infine alcune limitazioni o liberalizzazioni di carattere politico, sociale e culturale a determinare una maggiore o minore potenza di ciascuno di questi mezzi.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017