Il purgatorio dei poveri

Perché, invece di militarizzare le frontiere, non si aiutano i Paesi poveri a risanarsi e a svilupparsi? Così la gente non scapperebbe più dalla miseria.
05 Luglio 2000 | di

Calexico
Il simbolico nome della cittadina di frontiera all'estremo confine sudorientale della California con il Messico è la sintesi di due realtà  statuali diversificatesi da appena un secolo e mezzo. Le Californie della Loreto coloniale, la Capital Historica, appartengono al passato. Oggi anche qui, come nella Tijuana del versante occidentale, il paesaggio di dune e vegetazione desertica è dominato dall'oppressivo alto steccato fatto di lamiere, piloni, fili metallici e non solo, a demarcazione di un territorio naturalmente omogeneo. Una barriera artificiale divide due mondi: statunitense e messicano, così affini per origini storiche eppure così lontani per sviluppo socioeconomico. I controlli doganali, per chi va e viene dalla Bassa California, sono rigorosissimi. Da qualche anno la massiccia operazione Gatekeeper, tesa a bloccare, senza riuscirci, il flusso crescente di clandestini provenienti dal Centroamerica, provoca anche nel visitatore nordamericano un senso di disagio. Viene voglia di scappare. Non senza riflettere sull'assurdità  delle barriere che separano gli uomini e sull'egoismo che impedisce ai più fortunati di tendere una mano a quanti non lo sono.
  Nel mezzo del normale traffico delle merci tra le due Californie, e tra il quotidiano andirivieni dei lavoratori legalmente autorizzati (manodopera sottopagata ma indispensabile alle fattorie agricole della fertilissima regione a nord, irrigata dalle acque del Colorado River e di Salton Sea), continui sono gli episodi di sopruso e di violenza. Di qui passano - mimetizzati - contrabbando, droga e prostituzione. È naturale che uno stato organizzato voglia difendere il proprio territorio e i suoi cittadini. Ogni anno, negli Stati Uniti, entrano mediamente 250 mila clandestini che vanno ad aggiungersi agli esistenti cinque milioni di illegali. Le leggi relative alla deportazione sono diventate severissime. L'anno scorso l'Immigration and Naturalization Service (INS) ha deportato 55.211 tra ladri, rapinatori, stupratori, assassini, spacciatori di droga e incendiari.
A questi va aggiunto l'altissimo numero (62.359) di migranti senza documenti, colpevoli solo di crimini minori, come quello di attraversare i confini in clandestinità , di sottrarre per fame un pezzo di pane o un frutto senza pagarlo, di camminare scalzi e apparentemente ubriachi (di fatica e di dolore) tra la popolazione del luogo.
La discrezionalità  di giudizio è stata recentemente estesa ai semplici poliziotti cittadini o di contea. Le famiglie sono lontane, non ci sono soldi per procurarsi un avvocato, sopravvengono l'isolamento e la disperazione.
Nel carcere di massima sicurezza di El Centro, nella Imperial Valley, a pochi chilometri da Calexico, tra i circa 700 detenuti in attesa di giudizio o di deportazione ci sono moltissimi migranti senza documenti. In maggioranza latinoamericani, ma anche cinesi e mediorientali. Alcuni - come i cubani e i vietnamiti - non hanno speranza di uscita, per mancanza di accordi tra i governi. Di tanti casi si stanno occupando gli scalabriniani missionari dei migranti.
Il vicentino Gianantonio Baggio, parroco della chiesa di Sant'Antonio a Imperial, conduce la sua quotidiana battaglia per l'assistenza spirituale di queste persone. Da qualche mese lo affianca padre Carlo Alberto Titotto, il cui impegno è altrettanto esemplare: «Celebriamo ogni domenica la messa e la riconciliazione e facciamo assistenza sociale: compiliamo documenti, ascoltiamo le loro richieste, scriviamo lettere per manifestare i loro diritti». Particolarmente importante è l'assistenza psicologica. «Si sentono capiti e appoggiati, ci vedono come i fratelli maggiori che ancora possono parlare con loro senza giudicarli».

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017